Singolare, femminile ♀ #083: La nascita delle piovre
Candidato all'Oscar come miglior film straniero, The Quiet Girl è un delicato romanzo di formazione al femminile: punto di partenza per la nostra ricognizione sui coming of age cinematografici del 21° secolo.
Claire Keegan, pluripremiata autrice irlandese di narrativa breve, ha scritto il racconto Foster nel 2010; dopo essere apparso sulle pagine del "New Yorker" è stato dato alle stampe in una versione più lunga, di grande successo, tanto da essere inserito tra i titoli materia d'esame per il Leaving Certificate, all'incirca l'equivalente irlandese della maturità. Il termine "Foster" si riferisce a tutto ciò che riguarda l'affidamento o l'adozione temporanea, e il racconto parla di questo: di una bimba di nove anni, Cait, affidata per il tempo di un'estate a dei lontani parenti, per dare momentaneo sollievo alla fatica economica della sua famiglia biologica, che affronta l'ennesima gravidanza in un nucleo già numeroso. Cait è silenziosa e introversa, abituata a essere ignorata, e in compagnia della matura coppia cui viene affidata scopre il potere vitale di essere vista, ascoltata, accudita, in un percorso di scoperta di sé e dell'altro che le permette di aprirsi, perché solo in relazione con gli altri possiamo diventare noi stessi. Foster ora è diventato un lungometraggio, candidato all'Oscar come miglior film straniero, The Quiet Girl, in sala dal 16 febbraio, quasi interamente recitato in lingua irlandese e interpretato dalla giovanissima e folgorante Catherine Clinch, capace di incarnare tutte le sfumature della vergogna e del coraggio che la bimba silenziosa deve attraversare per aprirsi al suo futuro.
Un piccolo film di grazia rara, che l'irlandese Colm Bairéad dirige riuscendo a gestire con grande sensibilità i punti di vista, girando spesso ad altezza di bimbo, facendo sì che lo spettatore veda il mondo con gli occhi terrorizzati eppure curiosi di Cait, ma lasciando anche filtrare, dagli sguardi e dai silenzi degli adulti, una realtà complessa: il film si svolge nel 1981, l'anno in cui in Irlanda nacque il movimento cattolico antiabortista Pro-Life Amendment Campaign, che portò due anni dopo la nazione a diventare l'unico paese democratico al mondo in cui l'aborto era vietato per costituzione (il diritto a un aborto legale è stato reintrodotto solo nel 2018). Quello dove Cait cresce è un mondo in cui le donne devono abituarsi a essere silenziose e a non poter decidere per se stesse; un mondo dove la vergogna e i segreti sono all'ordine del giorno; e quello che scopre, nel corso di un'estate filmata resa struggente dalla fotografia satura e dorata, è invece un mondo dove può camminare a testa alta, perfino correre.
Nello stesso giorno in cui questo bel racconto di formazione esce in sala, il 16 febbraio, anche la Berlinale 2023 apre le danze con una retrospettiva - dal titolo Young at Heart - tutta dedicata al coming of age: partiamo allora da The Quiet Girl per una nostra personale rassegna, limitata al XXI secolo, dei migliori coming of age al femminile. 20 titoli (diretti e/o scritti da donne), per tracciare una mappa essenziale di un filone inesauribile, trasversale e vitale della settima arte.
Thirteen - Tredici anni (2003, di Catherine Hardwicke)
L'esordio della scenografa e futura regista del primo Twilight è un romanzo di formazione ruvido e controverso, co-sceneggiato dall'autrice insieme all'allora quattordicenne protagonista Nikki Reed, che nei panni della "cattiva compagnia" introduce Evan Rachel Wood a sesso, droga e piccola criminalità. Migliore regia al Sundance, ha fatto discutere per le scene provocatorie, ma è un film che porta grande rispetto all'età delle sue giovani antieroine. Su Chili e Rakuten
Juno (2007, di Jason Reitman)
Insieme a Jennifer's Body di Karyn Kusama e a Young Adult dello stesso Reitman, una possibile - e fondamentale - trilogia del coming of age, firmata da una delle penne più acclamate del cinema anni zero: Diablo Cody. Blogger, ex spogliarellista, premio Oscar per Juno, Cody ha dato vita a personaggi femminili spigolosi e appassionanti, donne in divenire; che sia l'adolescente Juno alle prese con una gravidanza indesiderata, la teenager (letteralmente) indemoniata Jennifer o la quasi quarantenne incapace di crescere di Young Adult, il punto è sempre il dolore che si prova nello scendere a patti con le regole del mondo. Su Disney+
Persepolis (2007, di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud)
Crescere in un paese dilaniato dalla guerra e dal fondamentalismo: Marjane è una bimba durante la Rivoluzione iraniana, cresce all'estero, torna in Iran, ribolle sotto il velo e sotto le regole, quelle della religione come quelle del matrimonio. Satrapi adatta il suo graphic novel su una piccola donna ribelle in un film animato, in bianco e nero, stilizzato eppure profondo, legato alla sua patria eppure universale. Su MioCinema (Per un'altra giovane donna in rivolta contro l'estremismo islamico: Non conosci Papicha di Mounia Meddour. Per un altro coming of age animato: il nostro amato Red di Domee Shi, di cui vi abbiamo parlato nel n. 46 della newsletter).
Stella (2008, di Sylvie Verheyde)
Nel solco degli Antoine Doinel e delle Zazie, nella Parigi anni 70 la piccola Stella è una bimba proletaria, cresciuta a juke-box e imprecazioni nel bar di famiglia, che scopre con dolore l'esistenza della differenza di classe, e la difficoltà di essere se stessa quando non hai la "forma" giusta per incastrarti tra gli altri. Accorato e autobiografico, il film (su CG Entertainment) nel 2022 ha avuto un seguito, Stella est amoureuse, che porta il romanzo di formazione della protagonista nella cultura dei night club parigini anni 80.
Fish Tank (2009, di Andrea Arnold)
La rabbia, il desiderio, il dolore: Mia, 15 anni immusoniti ed elettrici, pensa di conoscere quelle cose, ma ne scopre la portata solo quando nella sua modesta casa della periferia inglese entra Connor (Michael Fassbender, magnetico e ributtante), il fidanzato di sua madre, che innesca in lei il bisogno di sentirsi donna, seducendola e manipolandola. Premio della giuria a Cannes, il potentissimo coming of age di Arnold (su Rakuten e a noleggio su Prime) è un ritratto dolentemente autentico di un'adolescente fragile e riottosa: lo saranno, a modo loro, anche la Catherine di Cime tempestose e la Star di American Honey, in un'ideale trilogia di romanzi di formazione della regista britannica.
Corpo celeste (2011, di Alice Rohrwacher)
Dalla Svizzera alla Calabria, per la tredicenne Marta lo shock culturale passa attraverso i riti per lei privi di senso del catechismo e del bigottismo cattolico: la crescita spirituale che cerca, e di cui sente il bisogno, non può passare dalle liturgie formato quiz televisivo. L'esordio di Rohrwacher (su iTunes e GooglePlay) è uno dei più bei coming of age italiani del XXI secolo, per lo sguardo attento che la regista sa prestare alle sue giovani protagoniste; lo confermano anche Le meraviglie (su RaiPlay) e il mediometraggio, in corsa per l'Oscar 2023, Le pupille (su Disney+).
La bicicletta verde (2012, di Haifa al-Mansour)
Nel primo film della storia diretto da una donna saudita (costretta dalle leggi nazionali a interagire solo a distanza con i membri maschili della sua troupe), la piccola Wadjda è disposta a tutto pur di recuperare i soldi per comprarsi l'agognata bibicletta, e la sua cocciutaggine ne fa una ribelle pronta a sfidare lo sguardo sessista e moralista dei suoi connazionali. Una parabola con lieto fine, dal sapore di fiaba (su Prime e MUBI), ma che affronta, anche con ironia, il peso del rigore religioso e culturale sulle giovani e giovanissime; come il recente Sonne, opera prima della curdo-austriaca Kurdwin Ayub, alla Berlinale 2022 e vincitore del Trieste Film Festival 2023.
Frances Ha (2012, di Noah Baumbach)
Confusa, goffa, in cerca di una strada per sé, la studentessa newyorkese sceneggiata e incarnata da Greta Gerwig è protagonista di un coming of age tardivo e forse incompleto, tra Woody Allen e Holden Caulfield, che risuona di autenticità (su Prime). Dopo aver scritto col compagno Baumbach anche Mistress America (quasi un dittico), Gerwig esordisce dietro la macchina da presa con un romanzo di formazione in piena regola, Lady Bird, ritratto acuto e tenero di una donna che per sé vuole scegliere tutto, a partire dal nome.
Palo Alto (2013, di Gia Coppola)
Dalla raccolta di racconti In stato di ebbrezza di James Franco (anche co-protagonista), una ronde dal languore indie di adolescenti stonati e strafatti, con figli d'arte (o nepo baby) da ogni lato della macchina da presa (nel cast Emma Roberts, nipote di Julia, e Jack Kilmer, figlio di Val), su Prime. Di Gia Coppola (nipote del grande Francis) da recuperare anche il successivo Nessuno di speciale, coming of age tra fama & social (con Maya Hawke); per restare in zona indie americano, impossibile non passare da Lena Dunham (ai suoi due romanzi di formazione del 2022, Lezioni di vita e Catherine, abbiamo dedicato la newsletter n. 67), e dalle sue adepte: su MUBI c'è l'esordio dell'asiatico-americana Kit Zauhar, Actual People, educazione sentimentale in salsa Girls.
The Selfish Giant (2013, di Clio Barnard)
L'innocenza dell'infanzia è un miraggio per i piccoli protagonisti, Arbor e Swifty, che crescono nel panorama desolante della periferia inglese di Bradford, con famiglie disfunzionali e orizzonti troppo stretti per loro, recuperando rottami da vendere al "gigante egoista" (il film è liberamente ispirato al racconto di Oscar Wilde). Clio Barnard li racconta con crudo realismo e altrettanta empatia, in un film tenero e brutale che non può non ricordare il cinema di Ken Loach. Su Prime
Diamante nero (2014, di Céline Sciamma)
Sciamma debutta alla regia con un coming of age sensuale e femminista che dà il titolo a questa newsletter (Naissance des pieuvres, purtroppo ancora inedito in Italia), e al racconto di giovani donne in divenire dedica gran parte della sua filmografia: Diamante nero è il suo film più apertamente aderente al genere del romanzo di formazione, con la protagonista che si ridisegna - nuovo nome, nuovi vestiti, nuove amicizie - per cercare un gruppo di pari in cui essere finalmente se stessa (su Prime). Coming of age doppio anche lo struggente Petite maman, cui abbiamo dedicato la newsletter n. 26; mentre per un altro ritratto di giovane donna ribelle nelle banlieue, consigliamo Divines di Houda Benyamina, su Netflix.
Diario di una teenager (2015, di Marielle Heller)
Dal graphic novel Diario di una ragazzina di Phoebe Gloeckner, l'esordio della statunitense Marielle Heller, passato al Sundance e alla Berlinale, mette in scena con ironia e schiettezza l'educazione sessuale e sentimentale di una quindicenne (Bel Powley, ottima e sottoutilizzata attrice) nella San Francisco anni 70, infatuata del fidanzato della madre (un Alexander Skarsgard di perfetta, seducente immaturità). Su Rakuten. Per altre adolescenze americane complicate: 17 anni (e come uscirne vivi), debutto alla regia di Kelly Fremon Craig (con Hailee Stanfield e la Haley Lu Richardson di The White Lotus), su Netflix.
Songs My Brothers Taught Me (2015, di Chloé Zhao)
Al cinema di Chloé Zhao abbiamo dedicato il primo numero di questa newsletter: il suo esordio, presentato al Sundance e a Cannes, è girato nella riserva di Pine Ridge, nel South Dakota, e ha per protagonisti due giovani Lakota, fratello e sorella, interpretati da attori non professionisti, in un ritratto intimo, in bilico tra doc e finzione, sulla vita e sul conflitto identitario dei nativi americani, tra degrado e ricerca di riscatto (su MUBI). Zhao torna a Pine Ridge con The Rider - Il sogno di un cowboy, altro spaccato sociale su un West ormai al di là di qualsiasi mito (su Raiplay).
Mustang (2016, di Deniz Gamze Erguven)
Un po' grossolanamente ribattezzato "il Giardino delle vergini suicide turco", l'esordio della regista turca (naturalizzata francese: il film è sceneggiato insieme alla parigina Alice Winocour) immortala il febbrile risveglio adolescenziale di cinque sorelle e la loro ricerca di libertà in una società che nulla concede al loro desiderio. Inno a un femminile ribelle e salvifico contro una società patriarcale protesa verso l'Occidente ma ancora ingessata nel rigore della tradizione. Su Chili e Rakuten
Estate 1993 (2017, di Carla Simón)
Per l'età della piccola protagonista, per la stagione in cui si svolge e per lo spunto iniziale della trama - una bimba bruscamente "traslocata" presso parenti - è il film più vicino al The Quiet Girl da cui abbiamo preso le mosse. L'esordio della catalana Simón, autobiografico, presta il suo sguardo alla rabbia, alla paura e alla voglia di vivere di Frida, sei anni, lasciando che il dramma alle sue spalle (i genitori sono morti a causa dell'AIDS) si tratteggi per frammenti, incomprensibili alla sua giovanissima età, e trovando la bellezza in piccoli momenti fulminanti, in una stagione (dell'anno e della vita) lancinante. Su Rakuten, Chili e MUBI.
They (2017, di Anahita Ghazvinizadeh)
La storia di J, che compiuti i 13 anni, dopo aver intrapreso la cura ormonale, deve decidere se affrontare la transizione verso il genere femminile che sente suo; un ritratto acuto e sensibile di adolescenza transgender, frutto del lavoro di ricerca della regista con la comunità trans di Chicago, dove il film è ambientato. Originaria di Teheran, per il suo esordio Ghazvinizadeh sceglie i toni non privi di ironia di un mumblecore, fuor di retorica, che nella generazione della sorella di J mette anche la sua esperienza di iraniana costretta alla diaspora. In tema LGBT+ anche La diseducazione di Cameron Post, su Chili e Rakuten, coming of age sullo sfondo agghiacciante delle "terapie di conversione", applicate per "guarire" l'omosessualità della giovane protagonista (Chloe Grace Moretz); la regista Desiree Akhavan, americana figlia a sua volta di immigrati iraniani in fuga dopo la Rivoluzione, aveva esordito con un altro bel romanzo di formazione LGBT+, Appropriate Behavior, inedito in Italia.
Blue My Mind - Il segreto dei miei anni (2018, di Lisa Brühlmann)
Coming of age e horror: un binomio frequentatissimo, che abbiamo già affrontato in questa newsletter, per esempio parlando del bellissimo Raw - Una cruda verità, folgorante esordio di Julia Ducournau (vedi n. 47). Tra i tanti titoli che usano la mutazione del corpo come metafora della pubertà e del risveglio sessuale, molto interessante l'opera prima della svizzera Brühlmann (poi regista anche di alcuni episodi dell'ottimo Killing Eve), in cui l'adolescente Mia si trasforma in una creatura ibrida che ricorda una sirena, come in una favola nera sul potere liberatorio e terrificante dei nostri corpi. Su Chili e Rakuten
La rivincita delle sfigate (2019, di Olivia Wilde)
Il più classico dei coming of age, quello ambientato tra prom, party e festeggiamenti per la fine del liceo e l'imminente partenza per il college: ma l'esordio alla regia dell'attrice Olivia Wilde ribalta i cliché mettendo al centro della scena due "secchione" (questo il senso del titolo originale booksmart: studiose, ma prive di esperienza di "vita vissuta") che tentano di smarcarsi dalle etichette e vivere in libertà la propria non conformità (per l'orientamento sessuale, per la bellezza non canonica dei loro corpi). Su Netflix
Mai raramente a volte sempre (2020, di Eliza Hittman)
La newyorkese Hittman è tra le voci più interessanti di oggi nel raccontare l'adolescenza, fin dall'opera prima It Felt Like Love, passando per Beach Rats e arrivando a questo bellissimo lavoro, premiato alla Berlinale, su una diciassettenne che tenta di porre fine a una gravidanza indesiderata. Cosa non possibile per una minorenne nel suo stato, la Pennsylvania, e che la costringe a una quieta odissea nella Grande mela, alla scoperta della sua resilienza e della solidarietà femminile. Su Rakuten
Il cielo è ovunque (2022, di Josephine Decker)
Amiamo il cinema di Decker, il suo sguardo schietto e urticante sul femminile, la qualità sensoriale della sua macchina da presa. I suoi primi due lunghi, inediti in Italia (Butter on the Latch e Thou Wast Mild and Lovely) erano già a modo loro coming of age, con protagoniste giovani donne alla scoperta di sé e del sesso; con Madeline's Madeline si è avvicinata all'età adolescenziale, firmando un ritratto incandescente. Nel 2022 realizza per AppleTv+ questo teen movie in piena regola, pensato per il pubblico giovane, che applica le modalità del suo cinema a una storia a misura di teenager: quella di Lennie, colpita dal lutto per l'amata sorella maggiore, ma aperta al resto della sua vita di donna. ILARIA FEOLE
Tra le tante autrici citate, vi riproponiamo un’intervista all’algerina Mounia Meddour, che abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo Non conosci Papicha, su Film Tv n. 34/2020.
Vestite per la libertà - Intervista a Mounia Meddour
Papicha, in Algeria, sta per “ragazza cool”; una come Nedjma, che nella Algeri del 1997 sgattaiola ogni sera fuori dal campus universitario per ballare in discoteca e vendere vestiti cuciti da lei. La sua libertà, però, è minata dall’avanzare dell’integralismo islamico, atti violenti a cui Nedjma risponde cercando di realizzare una sfilata che rimetta al centro dello sguardo i corpi delle donne. Presentato a Un certain regard di Cannes 2019, premiato con due César (Migliore opera prima e Migliore attrice), Non conosci Papicha è l’esordio nella regia di fiction di Mounia Meddour, in sala dal 27 agosto 2020: ne abbiamo parlato con la regista.
Non conosci Papicha si svolge nel 1997, durante il “decennio nero” algerino, quasi un quarto di secolo fa. Perché raccontare ora questa storia?
È una questione generazionale: io sono tra coloro che hanno vissuto la guerra civile da ragazzi, ora abbiamo 40 e rotti anni e siamo pronti a parlare di quel trauma. Mio padre (Azzedine Meddour, ndr) era regista a sua volta e gli intellettuali erano bersagliati all’epoca; io ero studentessa universitaria e vivevo in un campus simile a quello di Nedjma/Papicha, vedevo ogni giorno crescere la pressione contro la libertà delle donne. Ma serviva tempo per ricostruire quell’esperienza dolorosa, avevamo bisogno di imparare, di vedere film; negli anni 90 erano ancora pochi i cinema in Algeria, il tempo che è trascorso è servito alla nostra formazione, mi riferisco al mio film e a opere recenti sullo stesso tema come Abou Leila e En attendant les hirondelles. Era necessario acquisire prospettiva per parlare di quel periodo: io vengo dal documentario e mi interessa raccontare il reale, ma con un punto di vista singolare. Per narrare la storia di Nedjma serviva capire quale forma darle, come rispettare la memoria dei tanti morti, ma al contempo far capire che quel che è successo è tremendamente attuale: pensiamo all’avanzata dell’integralismo in Europa, agli attentati in Francia. Si tratta di un processo che non si è mai fermato, e credo che solo ora, che siamo quarantenni, abbiamo trovato il modo di parlarne e di condividere la forza di donne come Nedjma, di rendere loro omaggio. Giusto ricordare i numeri delle vittime, ma bisogna ricordare anche queste donne, che sono state coraggiose, hanno continuato a lavorare e hanno rifiutato di indossare il velo nonostante il pericolo che correvano.
Montaggio e regia fanno pensare, a tratti, a un film di genere. Un modo per dire che la storia di Papicha è un film dell’orrore?
Per me la cosa importante era che le immagini fossero al servizio della storia. Ho pensato a lungo a come trasmettere la paura, l’angoscia che all’epoca premeva contro le donne e i loro corpi; la facoltà universitaria rappresenta un mondo in miniatura, le sue porte chiuse sono i confini e i cartelli inneggianti allo hijab sono dapprima all’esterno, poi all’interno, fino alla stanza delle ragazze, sempre più vicino alla loro intimità. Volevo restituire questo avvicinamento progressivo, con la camera a mano che si accosta ai corpi. Ma il mio è soprattutto un film sulla pulsione vitale, volevo stare attaccata a Nedjma per sentire con lei, e in questo senso il modo migliore era un montaggio rapido, l’immersione nei corpi e nei volti, nei piani ravvicinati delle sue mani che cuciono, che si agitano. Gli algerini sono in perpetuo movimento, gesticolano tanto, comunicano con le mani; un po’ come gli italiani! (Ride, ndr). La forma, in realtà, mi si è imposta senza volerlo: non sono un’adepta del cinema di genere. Quello che volevo era raccontare una società, quella algerina, che sa restare positiva anche di fronte al trauma.
Per la sua sfilata Nedjma crea abiti originali a partire dal tessuto dello haik, il velo algerino. Cosa significa questa scelta?
Lo haik è un indumento dal forte valore simbolico: Nedjma lo recupera nel momento in cui l’estremismo islamico impone il velo nero, lo hijab, per coprire completamente la donna. Lo haik è un velo bianco tradizionale che le algerine usavano già negli anni 60 come strumento di lotta contro il colonialismo francese, perché è importante ricordare che anche le donne hanno partecipato alla guerra d’indipendenza. Sotto le pieghe dello haik le donne, negli anni 60, nascondevano le armi, e Nedjma lo usa a modo suo come forma di resistenza, negli anni 90. Volevamo che le sue creazioni come stilista non fossero cose troppo sofisticate, ma economicamente accessibili: ogni donna algerina aveva uno haik nell’armadio, era un indumento disponibile, a cui si aggiunge l’importanza simbolica di riutilizzare un tessuto che, nel passato, era già stato usato contro una forma di oppressione. Il bianco dello haik è l’opposto del nero dello hijab che, è giusto ricordarlo, non è algerino, ma è stato importato e imposto.
Non conosci Papicha è stato censurato in Algeria.
Sì, è un fatto paradossale perché il film ha co-produzione algerina. Era stato selezionato come titolo dell’Algeria per la corsa all’Oscar, ma una delle condizioni dell’Academy è che il film esca in patria per almeno una settimana e quando le proiezioni sono state annullate abbiamo rischiato di essere squalificati. Ho chiesto una deroga alla commissione e l’ho ottenuta, ma il film non è mai uscito in Algeria. Le autorità si sono giustificate con una «cattiva congiuntura», perché era il periodo delle manifestazioni legate alla “révolution du sourire” e c’era instabilità politica; ma io credo si sia trattato di mancanza di coraggio, la prova che non si è pronti ad affrontare questa storia. Eppure le generazioni più giovani hanno bisogno di vedere, di ricordare, per evitare che si ricada in questi estremismi.
ILARIA FEOLE
Esce su MUBI il 16 febbraio il doc Mutzenbacher della regista austriaca Ruth Beckermann, opera provocatoria su mascolinità tossica e desiderio. Su Doppiozero potete leggere un approfondimento su di lei scritto da Maria Nadotti.
Al Teatro Carcano di Milano, dal 22 al 26 febbraio, va in scena Vieni avanti cretina, spettacolo di comicità al femminile ideato e condotto da Serena Dandini. Info e biglietti www.teatrocarcano.com
Donne, cinema e AI: l’intelligenza artificiale è un altro campo in cui saggiare il gender gap con una schiacciante maggioranza maschile. Lo studio è su Public Understanding of Science, e ne trovate un’analisi più divulgativa sul “Guardian” [in inglese]