Singolare, femminile - #026: Gli abbracci riuniti
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#026 - Gli abbracci riuniti
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Da Madres paralelas di Pedro Almodóvar a Petite maman di Céline Sciamma (con una deviazione nell’Ultima notte a Soho di Edgar Wright): di cerchi che si chiudono e futuri che si spalancano, viaggi nel tempo e fantasmi della Storia, discendenze matrilineari e salvifiche sorellanze.
«Vieni dal futuro?» chiede Marion, la bambina con il cappotto rosso. «Vengo dal sentiero dietro di te» risponde Nelly, la bimba col cappotto blu, quella che poco prima aveva confessato alla coetanea un incredibile segreto: «Sono tua figlia». «Vengo dal sentiero dietro di te» è un’indicazione pratica, materiale: per raggiungere la capanna nel bosco, fatta di rami nodosi e foglie vermiglie, Nelly ha percorso proprio quel sentiero alle spalle di Marion. Ma nella precisissima sceneggiatura di Petite maman firmata dalla regista Céline Sciamma il dialogo tra le piccole Nelly e Marion assume anche un prezioso significato denso e circolare, che fa incontrare passato e futuro in un limpido rapporto di influenza e co-dipendenza. Come tutte le opere di Sciamma, anche quest’ultimo film, nelle sale italiane da un paio di settimane, è un dono che si sfoglia ripetutamente, rivelando una complessità inizialmente celata da un’apparente semplicità: come ha notato Ilaria Feole presentandolo insieme alla regista in un incontro gremito all’Anteo di Milano, vien facile definirlo “un piccolo film”, perché l’aggettivo sta nel titolo, perché piccole sono le sue protagoniste, perché breve è la durata (72 minuti), perché si dipana in pochi giorni e in pochissimi luoghi (una casa e un bosco) con appena otto attori, perché, infine, può riassumersi in poche parole. Cioè: una bambina di otto anni incontra sua madre alla sua stessa età. Non in una fantasia o in un sogno: Sciamma e la sua direttrice della fotografia Claire Mathon mantengono fortissimi il senso di verità, la tangibilità dell’esperienza e il legame materico con gli oggetti e con la natura negli esplosivi colori dell’autunno. Quello di Petite maman è un incontro miracoloso che prende vita nella specificità del linguaggio filmico (e dunque, soprattutto, nel montaggio): un racconto di fantascienza intima, dove collidono tecnica e utopia. Ma anche a suo modo un racconto di fantasmi, dal momento che è la ghost story il territorio preferito per una coesistenza di passato e presente.
Anche Madres paralelas di Pedro Almodóvar (di cui già ha parlato Ilaria Feole nel n. 19 di Singolare, femminile) è un racconto di maternità e di fantasmi. Presentato in Concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, dove è stato film d’apertura e ha portato la Coppa Volpi alla protagonista Penelope Cruz, è arrivato nelle sale italiane lo scorso 28 ottobre. L’inconfondibile stile almodovariano allinea anche in quest’ultima opera alcune delle sue più lampanti caratteristiche, soprattutto nell’orchestrazione implacabile del melodramma, tra coincidenze, segreti, dilemmi e agnizioni. Madres paralelas è la storia di due madri sole, la quarantenne Janis (Cruz) e l’adolescente Ana (l’esordiente Milena Smit): s’incontrano nella stanza d’ospedale in cui attendono di partorire, fanno amicizia, danno alla luce entrambe una bambina, lo stesso giorno. Il succedersi dei colpi di scena e il protrarsi della storia per diversi anni non potrebbero che indicare una distanza abissale da Petite maman, eppure i film di Sciamma e Almodóvar sembrano parlarsi in modo fitto e continuo. A partire, oltre che dall’ovvio (una storia di madri e di figlie, di doppi che si specchiano e si stringono, come sottolinea inconsapevolmente anche la coincidenza dell’abbraccio nelle locandine di entrambi i film), dalla loro “materialità”: il controllo suggestivo e inconfondibile che il regista madrileno da sempre esercita sul décor è parte irrinunciabile della sua poetica, e anche in Madres paralelas non manca di rivelarsi nei colori, negli arredi, negli abiti “parlanti”; ma anche in Petite maman è proprio attraverso il décor, le stanze e i colori dei vestiti, i mobili e le carte da parati che Sciamma dà alla luce il meraviglioso viaggio nel tempo (e l’essenza fuori dal tempo) delle sue eroine.
Entrambi i film, poi, affondano le proprie radici (è proprio il caso di dire così) nella materializzazione di un’eredità femminile. Un tema che – nell’abituale modo in cui discutiamo la Storia, le discendenze, i passaggi di testimone generazionali – ha tradizionalmente più spazio nel racconto maschile, in quanto (almeno nella società contemporanea e occidentale) è canonicamente il padre la figura attorno cui si strutturano i legami di parentela. Le generazioni di madri, figlie e nonne sembrano spesso testimoni silenziose, vite invisibili (per rubare il titolo a un altro bellissimo film su due donne di qualche anno fa, La vita invisibile di Euridice Gusmao) ai margini del tempo. Almodóvar è tra i (non molti) cineasti ad aver proposto sistematicamente paesaggi generazionali e sociali dominati dal femminile, universi popolati quasi interamente da donne di diverse estrazioni, provenienze, età. In Madres paralelas il sottotesto politico che ha permeato gran parte del suo cinema si fa però testo e manifesto: quella che a prima vista sembra solo una cornice – la testarda determinazione con cui Janis/Penelope Cruz vuole portare alla luce la fossa comune del suo paese d’origine in cui furono sepolte, non riconosciute, le vittime della dittatura franchista, tra cui suo nonno – è in realtà un filo d’acciaio profondamente intrecciato alla vicenda mélo di due donne la cui maternità è indissolubilmente legata alla conoscenza di sé, delle proprie verità, del proprio passato privato e collettivo. Per partorire un futuro - identificato dalla commovente “avanzata” finale della variegata comunità verso la fossa comune riaperta - che sia veramente nuovo, e più giusto: nel corso del film, Janis e Ana hanno dato vita a una famiglia unica e libera da convenzioni e ruoli, in cui le due potessero essere contemporaneamente e di volta in volta, madri, figlie, amiche, amanti. Permaneva però il segreto, il non detto, la Storia celata da rendere pubblica, la cui rivelazione può finalmente aprire la strada al finale, e a un’ulteriore idea di “famiglia” umana che comprenda anche altre madri (come quella “egoista” di Ana, anche lei compresa e accolta), sorelle, padri, fratelli, antenati, discendenti.
Curiosamente, c’è un altro film in sala in questi giorni che mette in scena un viaggio nel tempo che è anche una storia di fantasmi in grado di fare incontrare, e letteralmente specchiare, nello stesso frangente spaziotemporale due donne di due tempi diversi: è Ultima notte a Soho di Edgar Wright, in cui una giovane aspirante stilista innamorata degli anni 60 (Thomasin McKenzie) si trasferisce a Londra per studiare moda e misteriosamente precipita, ogni notte, proprio negli sfavillanti Sixties, dove “incontra” la coetanea aspirante cantante Sandy (Anya Taylor Joy). Ultima notte a Soho, molto più canonicamente “di genere” rispetto a Petite maman e Madres paralelas, è dichiaratamente una storia dell’orrore e di fantasmi, un incubo determinato a metterci in guardia dagli angoli ciechi della nostalgia e di conseguenza anche a riportare alla luce tutto ciò che, troppo spesso, l’idealizzazione nostalgica esclude. Ed è anch’esso, infine, una storia di madri e di figlie, di discendenze e passaggi di testimone: il tentativo disperato di chiudere un cerchio doloroso, la rincorsa angosciosa a un abbraccio. E anche se in modo diverso da Sciamma e Almodóvar, pure qui il décor, i costumi, l’effetto speciale “artigianale”, una tangibile cinefilia sono materia prima del racconto.
In Petite maman, proseguendo l’operazione teorica di Ritratto della giovane in fiamme (e non saremo mai grate abbastanza a Céline Sciamma per aver spezzato il pregiudizio che vuole la teoria inconciliabile con la visceralità e la passione), l’autrice fa cadere un tabù invisibile, elimina uno dei più antichi squilibri di potere che pressoché ognuno di noi non può fare a meno di sperimentare: quello tra genitori e figli. Nelly e Marion si incontrano a otto anni, entrambe, e il loro confronto, la loro relazione è miracolosamente, gioiosamente paritaria, insieme matura e fanciullesca: anche in questo si compie il prodigioso cerchio di coincidenze temporali (il passato che è il futuro, nel presente: «Sto già pensando a te») che ha anche la conseguenza di liberare le protagoniste dalla loro relative “funzioni” di madre e di figlia («La mia tristezza non ha nulla a che fare con te») per regalare loro l’opportunità di un’imprevista ma salvifica sorellanza. Così che all’elaborazione di un lutto (per la morte della madre/nonna - e anche l’esplorazione del lutto materno è qualcosa che ci piacerebbe vedere più spesso al cinema) possa sovrapporsi nella sua totalità a un coming of age, a un ulteriore passo verso il diventare se stesse: lungo quel sentiero che, dalle nostre spalle, ci conduce verso il futuro, e verso una musica mai sentita prima. ALICE CUCCHETTI
Dal n° 36 al n° 39/2019 abbiamo dedicato uno speciale inserto Lost Highway, staccabile e collezionabile, al cinema di Pedro Almodóvar, con schede di tutti i suoi film, approfondimenti e saggi critici, tra cui vi riproponiamo questo testo di Pier Maria Bocchi.
Le leggi del desiderio
Dalle ceneri del franchismo nasce un regista che libera le immagini, i suoni, i colori, il desiderio e le identità: alla scoperta del cinema di Pedro Almodóvar, al di là di qualsiasi etichetta (anche critica)
Francisco Paulino Hermenegildo Teódulo Franco y Bahamonde, più comunemente (e abbreviatamente) conosciuto come il Generalísimo, muore nel 1975. Finisce lui e finisce il franchismo. Finisce, in particolare, un regime “di immaginario”, che, secondo le riflessioni di Ann Davies, per più di sette lustri ha tentato di cancellare le storie dei “perdenti” dalle mappe culturali spagnole. È tempo, dunque, di rinnovamento; è tempo di movida, un notturno movimento madrileño delle Arti che, almeno fino alla fine degli anni 80, vuole liberarsi definitivamente di tutte le radici, le catene, i divieti. Neppure il cosiddetto desencanto (la disillusione della società post-franchista in seguito alle speranze nella democrazia rimaste largamente inappagate) riesce ad appannarlo. La movida è uno stato dell’essere-di-nuovo, essere-ancora, fare-e-disfare. Ne fa parte anche Pedro Almodóvar, giovane, neppure trentenne (è nato nel 1949, a Calzada de Calatrava, ora nella regione autonoma di Castiglia-La Mancia). È durante la movida, tra i suoi angoli bui, sui suoi palcoscenici “sporchi”, che conosce tra gli altri Carmen Maura e Marisa Paredes, le quali sarebbero diventate sue attrici. Almodóvar annusa l’aria del tempo, se ne lascia invadere, la sfrutta per sé e per ciò in cui crede (di riuscire meglio). Sa di avere uno sguardo e un senso per le immagini, i suoni, i colori, e adesso che finalmente le immagini, i suoni e i colori non hanno più la museruola chi può fermarlo? Si dà perfino al canto, con Fabio de Miguel, alias Fabio McNamara: appartengono infatti al duo Almodóvar-McNamara, tra kitsch e punk, il 45 giri Suck It to Me/Gran Ganga (1982) e pure l’album ¡Cómo está el servicio... de señoras! (1983). Ma sono queste benedette immagini, finora schiavizzate dalla censura, a rendere Almodóvar “furioso”. Pretende di impossessarsene, di farne lo specchio di un pensiero di libertà che per troppo tempo non ha avuto modo di trovare sfogo. Alle immagini Almodóvar affida la sua rivoluzione; nelle immagini egli sa di poter cercare molte risposte - se non tutte - alle infinite domande che la Spagna si pone da anni. È una questione di identità: Franco l’ha repressa, Almodóvar sente l’urgenza di riconfigurarne la stessa esistenza. Lo fa con spirito naturalmente iconoclasta, a partire dai cortometraggi e dal primo lungometraggio (l’invisibile Folle... folle... fólleme Tim!, 1978). Tuttavia vorrei che l’abusato stereotipo critico dell’Almodóvar degli esordi quale regista entusiasticamente “cialtrone” venisse un po’ ridimensionato. Nei suoi primi film c’è di più del grottesco, del punk, dell’ironia messi in scena – secondo un cliché della critica fondato oggi quasi esclusivamente sul ricordo - con ardore apparentemente indiavolato e “alla meno peggio”. C’è già, al contrario, un controllo del ritmo “interno” delle scene che nel tempo sarebbe diventato un tratto caratteristico del cinema almodovariano: un ritmo chiuso e concluso, di stasi, forse teatrale, oserei dire antiritmico. È probabilmente ciò che i detrattori di Almodóvar meno sopportano, assieme a un altro sempreverde critico tornato alla ribalta in special modo negli ultimi anni, l’ormai famigerata “sciatteria” della confezione. Eppure questo ritmo così non dinamico e queste immagini così superficialmente e piattamente bidimensionali rappresentano alla perfezione le generalità che mi paiono più importanti dei film di Pedro Almodóvar: un cinema alla costante ricerca di un altrove, di un “inoltre”, e perciò non autosufficiente. L’ha rivelato Almodóvar stesso più volte: «Ho sempre sentito il bisogno di muovere la macchina da presa per andare a vedere cosa c’è dietro (le quinte), ma mi sono sempre fermato». Lo si nota da subito. In La legge del desiderio (1987), per me il suo primo capolavoro, si percepisce una tensione indomabile tra il dire (e quindi mostrare, far vedere, rivelare) e l’alludere, tra la realtà delle immagini (qui e ora) e la fantasia di immagini trascorse (quelle di un cinema amato e proibito, di un mondo vietato, di un sesso inverecondo), mai veramente avute, quest’ultime, probabilmente soltanto sognate. Stessa cosa in Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), il primo successo internazionale ma a conti fatti anche una delle sue opere più “facili”, quella che non a caso plasma un modulo e un modello critici, il cosiddetto stile almodovariano, tra pop e mélo, iperrealismo colorato e rivista, che avrebbe prima inebriato e poi ingabbiato buona parte dei recensori e degli spettatori (fan e non), e da cui lo stesso Almodóvar fatica a sganciarsi (ma ci riesce, da La mala educación, 2004, con il solo inciampo di La pelle che abito, 2011). L’inoltre ambito, inseguito, ipotizzato, è per il regista un conflitto: non di idee bensì proprio di immagini, che per lui sono dei desideri, il desiderio di realizzare un cinema in grado di parlare di sé e il desiderio determinato di usarlo, il cinema, per formarlo, un sé, degno di essere vissuto e di cui andare fiero. Un conflitto forse irrisolvibile, al quale da quarant’anni Almodóvar si concede, con dolor y gloria. È qui, in questo disaccordo poetico (e non cinefilo), che credo nasca l’Almodóvar migliore, il meno immediato, l’Almodóvar che va oltre la semplice rivendicazione (benché sacrosanta), l’elementare anarchia, il puro postmoderno.
PIER MARIA BOCCHI
[pubblicato su Film Tv n° 37/2019]
In attesa che arrivi anche in Italia Il potere del cane, ultimo film di Jane Campion già in Concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, l’autrice ne ha parlato al New York Film Festival con la collega Sofia Coppola. Potete recuperare l’incontro qui [in inglese].
È uscito la scorsa settimana per Mondadori La mano sinistra del buio, probabilmente il romanzo più famoso di Ursula K. Le Guin, nonché un testo seminale per la fiction speculativa in generale. In Italia mancava dagli scaffali da parecchi anni, ora la lacuna è colmata da una nuova traduzione di Chiara Reali, che ne ha diffusamente parlato sul numero di ottobre della newsletter Ghinea (ricchissimo! Si parla anche, tra le altre cose, di Sally Rooney e della sua scelta di non far tradurre in ebraico il suo ultimo romanzo).
Oggi, 3 novembre 2021, compie 90 anni la leggendaria Monica Vitti. Il Museo del cinema di Torino la omaggia con Noi Vitti siamo fatte così, un progetto fatto di retrospettive e mostre fotografiche cui collaborano anche, tra gli altri, il Centro sperimentale di cinematografia e MyMovies.it.
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