Singolare, femminile ♀ #047: Il mostro è la fanciulla
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#047 - Il mostro è la fanciulla
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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L'uscita di Fresh su Disney+ rimpolpa il filone dell'horror femminista: film in cui le donne dietro la macchina da presa usano i meccanismi del cinema di genere per mettere in scena l'oppressione del patriarcato e le conseguenze del #MeToo. Vi proponiamo dieci titoli da (ri)vedere.
In Fresh, il nuovo horror da pochi giorni sbarcato in streaming su Disney+ dopo essere stato presentato al Sundance Festival 2022, le donne sono carne da macello. Letteralmente: la sceneggiatura di Lauryn Kahn, diretta dall'esordiente Mimi Cave, immagina un circolo di ricchissimi e famelici consumatori di membra femminili; seni, glutei, polpacci, interiora, ogni fettina è messa sul mercato a prezzi stellari dall'aguzzino interpretato da Sebastian Stan, che per offrire alla sua repellente clientela la carne il più fresca possibile tiene in vita le sue prigioniere a suon di anestesia, annullandole pezzo dopo pezzo. Non è una novità: il corpo delle donne è sovente al centro del genere horror, braccato, smembrato, torturato in misura assai maggiore di quanto avvenga con vittime di sesso maschile; sono femminili due delle figure chiave del cinema dell'orrore, la scream queen e la final girl, che rispettivamente stanno a indicare l'attrice habitué dei ruoli di damigella inseguita dal mostro e il personaggio che resta per ultimo nell'inarrestabile caccia sanguinaria del serial killer psicopatico di turno.
La donna nell'horror è però anche villain, mostro, portatrice di un'alterità perturbante o terrificante, spesso da contenere o annientare per ristabilire un ordine di stampo patriarcale: come afferma la critica e studiosa Shelley Stamp Lindsey, un film come Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, giusto per scegliere un titolo cruciale per i temi di cui stiamo parlando, mette in scena col suo bagno di sangue proprio il fallimento della repressione del mostruoso femminile; i poteri di Carrie, innescati dal suo passaggio alla pubertà e quindi dalla comparsa delle mestruazioni, sono letali e incontenibili, socialmente inaccettabili e distruttivi.
Quello che sta emergendo negli ultimi anni, per opera non esclusiva di cineaste e sceneggiatrici, è un nuovo paradigma dell'horror femminista, che rivisita e ribalta entrambi gli stereotipi sul femminile nel genere: da un lato l'orrore post #MeToo, che identifica il patriarcato come villain prismatico e onnipresente e assesta vendette mirate mentre ribadisce la natura sistemica della violenza contro le donne; rientra in questo filone Fresh, cruenta metafora sulla mercificazione del corpo femminile. Dall'altro, un nuovo approccio al mostruoso femminile che ne normalizza e legittima l'alterità, rivendicando il desiderio, la voracità, la non conformità del corpo di donna e la natura cangiante del suo ruolo nella società. Gli esempi che abbiamo scelto in questa, giocoforza, sintetica lista di film usciti negli ultimi sei anni ci sembrano emblematici della tendenza che si sta affermando nel genere, mettendo in fila una galleria di "mostri" femminili che reclamano un'attenzione differente, spesso con la forza di una messa in scena smaccatamente didascalica e "a tesi", per niente sottile nello stendere le proprie strillate metafore e nel far prevalere l’aspetto ideologico su quello artistico, ma efficace nel proporre l'urgenza di un ribaltamento di prospettiva. Un catalogo di fanciulle assetate di sangue, di vendetta o semplicemente di autenticità.
L'esordio alla regia della sofisticata attrice britannica, qui anche sceneggiatrice, è un possibile manifesto del nuovo horror femminista: la storia di uno straniero dal passato colmo di violenza e della donna remissiva che lo ospita in casa sua diventa il teatro di una vendetta del genere femminile contro i soprusi e gli stupri, una rivendicazione cruenta del potere del corpo della donna. E la messa in scena del contrappasso definitivo: la maternità, spesso inquadrata nell'horror come incubazione del mostruoso (da Rosemary's Baby in giù), e il dolore del parto diventano la pena da scontare per l'uomo colpevole di violenza sulle donne. (Per altre maternità che problematizzano il ruolo femminile, consigliamo Prevenge di e con Alice Lowe). Disponibile in dvd estero
2) Black Christmas di Sophia Takal
Remake del classico del genere slasher Un Natale rosso sangue del 1974, la versione di Takal lega il copione di puntuali e ripetute morti cruente di giovani universitarie in un campus statunitense con la violenza e il maschilismo inscritti nella cultura delle confraternite. Non più un singolo assassino psicopatico, ma una vera e propria setta di stampo patriarcale decisa a mantenere "l'ordine" nel prestigioso istituto annichilendo la presenza di donne il cui comportamento non fosse consono e remissivo. Didascalico all'ennesima potenza nella messa in scena del suo sottotesto, l'horror di Takal è un pamphlet mirato allo smantellamento della classica chiamata a fare dei distinguo sintetizzata col "not all men"; qui, invece, sono letteralmente tutti gli uomini a congiurare per il mantenimento di un ordine sociale che reprima le istanze femminili fuori controllo. (Per un altro film-manifesto che mira dritto al "not all men", rivedete Una donna promettente di Emerald Fennel). Disponibile su Prime Video Store, Chili, Rakuten, Timvision
«Le stronze come te sono il fottuto problema» sentenzia esasperata una delle protagoniste di fronte alla complicità di una ex vittima con l'aguzzino-macellaio che tiene in piedi il traffico di carne di donna. E il film di Cave, assai debitore dell'horror ironico e impegnato di Jordan Peele, si presenta come manifesto post #MeToo anche e soprattutto nel delineare il fronte femminile delle reazioni alla violenza sistematica. La metafora, come tutto il film, è scoperta e per niente sottile: le donne irretite dal villain sono recluse in una elegante prigione di design, ciascuna nella propria cella senza possibilità di vedere o comunicare con le altre, costrette perfino a mangiarsi (letteralmente) l'una con l'altra, impossibilitate a costruire un'alleanza salvifica. L'intento di Cave è chiaro: mettere in scena un ulteriore livello di violenza, quel patriarcato introiettato che istiga alla rivalità femminile e impedisce di formare una rete, una sorellanza, un fronte unito contro l'oppressore. Non ci sono sfumature, qui: c'è una parte giusta da cui stare e una parte sbagliata, in una iper semplificazione delle dinamiche di potere tra generi che, oltre la messa in scena sanguinolenta, prende posizione politica. Disponibile su Disney+
4) Master - La specialista di Mariama Diallo
Ad aggiungere una prospettiva intersezionale nel filone del nuovo horror femminista c'è il film d'esordio di Diallo, che incrocia le esperienze di due donne afroamericane in un altro prestigioso e tendenzialmente bianchissimo campus universitario (come in Black Christmas e come nella serie Netflix La direttrice, l'accademia diventa sineddoche della società tutta e delle sue dinamiche viziate): da un lato la professoressa Bishop, insignita del titolo di "master", ovvero di docente senior (il titolo italiano La specialista è fuorviante); dall'altro la matricola Amelia, unica ragazza nera nel raggio di chilometri. Entrambe sono sottoposte a uno schema di malcelato razzismo e ipocrisia buonista che si stringe sempre più opprimente, rivelandosi molto più pernicioso e invincibile della sottotrama sovrannaturale che innerva la messa in scena. Le cose non cambieranno mai, è l'amara conclusione del film, che nello schematismo della sua struttura a testi affronta l'appropriazione culturale, la rimozione delle radici, il whitewashing e la violenza subdola del razzismo sistemico. Disponibile su Prime Video
5) Raw - Una cruda verità di Julia Ducournau
Non è la prima volta che in questa newsletter vi parliamo di Ducournau, Palma d’oro 2021 con Titane, e del suo folgorante esordio, per chi scrive senza dubbio uno dei migliori film degli anni 10. La storia di Justine, adolescente che con l'ingresso nella pubertà scopre di avere natura cannibale, è quella di una presa di coscienza e di una rivendicazione della propria identità: famelica di carne e abitata da voracità sessuale, Justine impara a conoscere il suo corpo e il suo desiderio, a legittimarlo, a imporre nel mondo un posto per la sua "mostruosità", senza essere etichettata né reietta. Un magnifico romanzo di (de)formazione in cui far uscire il mostro significa trovare la propria libertà di donna. (Per altre mutazioni puberali che portano a consapevolezza di sé, scoprite il coming of age anfibio di Blue My Mind - Il segreto dei miei anni di Lisa Brühlmann). Disponibile su Rakuten e Timvision
6) Relic di Natalie Erika James
In un recente sondaggio, la regista di American Psycho Mary Harron l'ha indicato come il suo horror preferito; buon risultato per l'esordiente James, che intreccia nel racconto di tre generazioni di donne coinvolte da una misteriosa maledizione molte istanze legate alla rappresentazione del femminile sullo schermo. Su tutte, quella del tabù dell'invecchiamento: socialmente istigate a frenare l'invecchiamento con ogni mezzo, sottoposte a scrutinio se cercano di cancellare i segni del tempo con la chirurgia e al pubblico ludibrio se invece esibiscono i capelli grigi, le donne sono spesso incastrate in un dilemma che annichilisce l'autenticità della terza età. In Relic, l'invecchiamento è il demone, un decadimento che prende possesso del corpo della donna e della casa in cui abita, un'entità con cui, infine, le protagoniste sono chiamate a scendere a patti, abbracciandone l'elemento mostruoso senza più rifuggirlo, accettandolo piuttosto come parte del ciclo vitale. Disponibile su Prime Video.
Da donna trofeo loliteggiante a supereroina risorta e assetata di vendetta, quella di Jennifer è la parabola di una donna non più disposta a essere punita per il solo fatto di essere se stessa. Disinibita e seducente, la giovane amante di un ricco uomo sposato diventa preda dei suoi scagnozzi, stuprata e martoriata ma destinata a trasformarsi in un essere quasi sovrannaturale e indistruttibile. La bellezza sensuale e invincibile di Matilda Lutz, l'azzurro dei suoi occhi e il rosa shocking dei grandi orecchini a perforare i toni della terra e del sangue da cui riemerge, sono una dichiarazione d'intenti: Jennifer non deve annullare la sua femminilità per trasformarsi in angelo della morte, è legittimata a essere una creatura sessuata e seduttiva anche nella sua missione di cruenta eliminazione dei suoi aguzzini; punita per la sua gioia sensuale e mortificata per la sua libertà, si riconquista a suon di sangue e di piombo (trasformandosi, dunque, nello stereotipo maschile del predatore) il diritto di essere tutto quel che le pare. Disponibile su Timvision
L'esordio della britannica Rose Glass è stato uno degli horror più apprezzati del 2019, per merito della potenza delle sue interpreti (Morfydd Clark e Jennifer Ehle) e di una messa in scena potente e stratificata. Al centro del film è l'infermiera a domicilio Maud, mite e devota, sessualmente inibita, che si sottopone a martiri e flagelli autoimposti per espiare le sue precedenti colpe, mortificando il suo corpo con punizioni e privazioni. Incastrata nell'inesorabile dicotomia tra "santa" e "puttana", Maud non trova vie di mezzo per esprimere la propria identità, condannata dallo sguardo altrui a rientrare in categorie di femminile predeterminate, e fallendo nel tentativo di abitarle con appagamento, sino all'autodistruzione. Una metafora potente dell'oppressione che la riduzione a stereotipo opera sul femminile. (Per altro orrore sul ruolo di accudimento cui la donna è relegata, rivedere la maternità problematica di Babadook di Jennifer Kent). Disponibile su Prime Video Store, Chili, Rakuten, Timvision
9) The Scary of Sixty-First di Dasha Nekrasova
Probabilmente il più smaccato e slabbrato fra i titoli di questa playlist, l'esordio dietro la macchina da presa dell'attrice e creatrice di podcast di origina bielorussa Nekrasova è stato premiato come migliore opera prima alla Berlinale 2021 ed è un incubo lisergico sugli orrori del #MeToo. Al centro del film l'appartamento del titolo, appartenuto al miliardario newyorkese Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere dopo essere stato condannato per abuso sessuale e traffico internazionale di minori. Le due protagoniste si trovano invischiate nella bizzarra vertigine sovrannaturale che emana dall'abitazione, posseduta da un Male che non è un demone ma la permanenza delle malefatte di uno dei nomi centrali coinvolti dal #MeToo: solo in seguito all'ondata di accuse e al coinvolgimento di Weinstein le imputazioni contro Epstein sono state reimpugnate, nel 2018, conducendo alla sua incarcerazione. Quello di Nekrasova è un pamphlet provocatorio che mette in campo le teorie cospirative, le fake news e altre piaghe mediatiche contemporanee, ritraendo un mondo dove le violenze perpetrate ristagnano e si ripetono senza soluzione di continuità. Disponibile in dvd estero
10) She Dies Tomorrow di Amy Seimetz
Il più sottile e minimale tra i titoli che abbiamo elencato, il più potente per molti versi nel mettere in scena uno dei veri orrori della condizione femminile: quello di non essere credute. Opera seconda dell'attrice e produttrice Seimetz, She Dies Tomorrow è un horror senza sangue né effetti speciali, la storia di un misterioso e subdolo contagio che prende possesso delle vittime rendendole repentinamente convinte di trovarsi in procinto di morire, senza scampo e senza possibile guarigione. Un'epidemia di paranoia, invisibile e non dimostrabile nei fatti, la cui prima vittima è una giovane donna, certa del suo destino senza scampo ma impossibilitata a dimostrare al prossimo la sua condizione: non viene creduta, la sua angoscia viene sminuita, viene considerata pazza o isterica. Il propagarsi del contagio appare come una metafora del propagarsi del #MeToo, una vera e propria onda che, a dispetto della quantità di donne coinvolte e di abusi dichiarati, ha dovuto costantemente confrontarsi con accuse di falsità, isteria, caccia alle streghe e così via; quello di Seimetz è un horror strisciante e rarefatto in cui si rispecchia la realtà. Disponibile in dvd estero
ILARIA FEOLE
Il 15 aprile 2012 andava in onda negli Stati Uniti la prima puntata della seminale serie HBO Girls, creata e interpretata da Lena Dunham: per celebrare il decennale di un prodotto cruciale nell’influenzare la rappresentazione del femminile negli anni a venire, vi riproponiamo il Serial Graffiti apparso su Film Tv n° 24/2020.
ehi, Girls!
Tutti odiano Lena Dunham. La odiano tanti spettatori adulti, che non ne capiscono scelte e atteggiamenti e ai quali oggi forse risponderemmo senza pietà «ok, boomer». La odiano molti suoi coetanei, cioè i millennial, quelli che non ci stanno a farsi rappresentare così, narcisisti, viziati e ignavi, e a sentirsi dire che proprio quest’antipatica tizia newyorkese è «la voce della loro generazione». La detestano gli spettatori non bianchi, perché Dunham fotografa una Manhattan di un candore quasi uniforme, e anche perché le ininterrotte lamentele e le futili traversie delle quattro protagoniste di Girls sono l’apoteosi dei white people problem. La odiano i maschilisti perché è orgogliosamente femminista, a partire dalla sfacciataggine inevitabilmente politica con cui esibisce in tutta la sua impenitente nudità un corpo non conforme alle regole dello schermo; e la odiano alcune femministe, perché il suo attivismo vagamente improvvisato incappa spesso in poco difendibili scivoloni. La odiano i giovani aspiranti artisti, che l’accusano di esser favorita dal nepotismo: classe 1986, figlia del pittore Carroll Dunham e della fotografa Laurie Simmons, sponsorizzata da Judd Apatow - che era rimasto impressionato dal suo lungo d’esordio Tiny Furniture, premiato agli Independent Spirit Awards -, nel 2011 a soli 25 anni Lena ottiene dalla prestigiosissima rete via cavo HBO il via libera per realizzare una serie tv a partire da quello che lei stessa definisce «il peggior pitch di sempre». Che era in realtà poco più di una paginetta, senza trama né personaggi, solo una via di mezzo tra un’infuocata filippica sulle “giovani d’oggi” (di allora) e l’accorata denuncia di un’invisibilità: «Sono bellissime e insopportabili. Sono iper-consapevoli ed egoriferite. Sono le vostre fidanzate, le vostre figlie, le vostre sorelle e le vostre impiegate. Sono le mie amiche, e non le ho mai viste in tv». È la stessa Dunham, all’inizio di quella paginetta, a rivendicare la discendenza di Girls da Sex and the City, qualcosa che poi il marketing utilizzerà per promuovere una serie obiettivamente diversissima da tutto quel che c’era attorno, in quel momento, in tv, fatta eccezione forse per Louie di Louis C.K., che sul canale concorrente FX negli stessi anni rivoluzionava il medium in modo simile e parallelo a Girls. Cioè sperimentando con le potenzialità, i limiti e le forme della comedy da mezz’ora a episodio, applicando alla tv i modi produttivi e stilistici del mumblecore, indagando protagonisti egocentrici e sgradevoli ricalcati sui rispettivi autori-attoricreatori, al punto da rendere quasi impossibile scindere la persona dal personaggio; e utilizzando una comicità straniante, critica e disperata, che prima fa ridere con l’imbarazzo di seconda mano e poi punge, e lascia l’amaro in bocca, rivelandosi quell’impietoso specchio scuro in cui noi spettatori non vorremmo vederci mai. Da Sex and the City, però, Dunham (con la co-showrunner Jenni Konner) voleva anche marcare una fondamentale differenza: sì, anche qui quattro ragazze cercano se stesse (e fanno molto sesso) a New York, ma al contrario di Carrie & Co. annaspano in un limbo esistenziale, sociale e storico allora inesplorato. In quella che col senno di poi (cioè oggi) è la rassegnata cifra della generazione millennial, ovvero una precarietà che dilaga a ogni livello del vivere, dalla quale non si scorgono vie di fuga, e quindi ci si ferma, immobili, incapaci di evolvere, ripetendo inesorabilmente le stesse scelte sbagliate. In realtà - dopo aver ispirato migliaia di articoli d’opinione sulle testate specializzate d’oltreoceano (e c’è chi sostiene che un certo commento tagliente e polemico all’intrattenimento sia nato proprio con Girls) - in sei stagioni le ragazze sono, effettivamente, cambiate, scivolando loro malgrado nell’età adulta: proprio come accade nella vita vera, questo non vuol dire necessariamente che siano cresciute, men che meno che si siano trasformate in persone migliori. Nel frattempo, però, la scrittura e la messa in scena di Dunham (ben più precise e raffinate, fin dall’inizio, di quanto tanta critica volesse concederle) hanno fatto scuola: piegando al proprio volere e ribaltando i cardini della commedia romantica (le feste, i matrimoni improvvisati, i gesti eclatanti, le grandi dichiarazioni, le rincorse appassionate: tutti dolorosamente smascherati dall’insincerità, dall’egoismo, dalla patetica ossessione del mettersi in scena), restituendo la fatica e la frustrazione al coming of age, liberandosi della necessità stringente di seguire una trama definita e così assecondando l’esperienza ondivaga e spiazzante delle protagoniste, confezionando praticamente in ogni stagione un episodio-gioiello a sé, acuminato, autosufficiente ed essenziale come i migliori cortometraggi (ricordiamo almeno il 2x05, One Man’s Trash; il 5x03, Japan, e il 6x03, American Bitch), rappresentando il sesso senza pudori o prurigini ma in tutto il suo imbarazzante, spesso disgustoso, quasi mai davvero soddisfacente realismo. Lo prova il fatto che Girls ha spalancato l’era della sadcom, le serie dal breve formato e dalla fortissima impronta autoriale che negli scorsi anni 10 sono state il territorio più libero e proficuo della tv: show come Please Like Me, Looking, Love, Insecure e I Love Dick, ma anche capolavori come Atlanta e Fleabag, e poi Transparent, Easy, One Mississippi, Master of None, BoJack Horseman, Ramy, Vida, High Maintenance, l’hipsterissima Search Party e le (ancora inspiegabilmente) inedite Broad City, Better Things e Shrill... Lena Dunham non sarà stata la voce della sua generazione, ma a quante voci, e di quante generazioni, ha finito, inaspettatamente, per aprire la strada!
ALICE CUCCHETTI
Torniamo su uno dei film che più abbiamo amato in questa stagione cinematografica, Spencer di Pablo Larraín, per proporvi la bella analisi di Daniela Brogi su Doppiozero, ricca di suggestioni.
È aperta e visitabile fino all’8 maggio Stanze - Sul custodire e il perdere, la prima mostra italiana interamente dedicata all’opera della grande cineasta Chantal Akerman. Curata da Rita Selvaggio, l’esposizione è alla Casa Masaccio - Centro per l’arte contemporanea di San Giovanni Valdarno (Arezzo).
La figura dell’indovino cieco come guida per un futuro che vada oltre il genere: da qui parte Tiresia, il nuovo podcast di Silvia Pelizzari dedicato alla letteratura queer. Otto episodi, uno ogni mercoledì, disponibili i primi cinque.
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