Singolare, femminile - #001: Cuore selvaggio
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#001 - Cuore selvaggio
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Ai premi Oscar di quest’anno, per la prima volta, c’erano due registe nella cinquina dei candidati alla miglior regia. Nessuna delle due se n’è andata a mani vuote. Focus su Chloé Zhao (miglior regia e miglior film per Nomadland) e Emerald Fennell (miglior sceneggiatura originale per Una donna promettente).
All’inizio di Songs My Brothers Taught Me, il lungometraggio d’esordio di Chloé Zhao - disponibile su MUBI -, il protagonista Johnny spiega quant’è difficile addomesticare un cavallo (che in inglese si dice breaking a horse: già “addomesticarlo” significa in qualche modo “romperlo”): bisogna stare attenti a non «spezzarne lo spirito. Tutto ciò che è selvaggio ha qualcosa di cattivo dentro di sé. E devi lasciargliene un po’, dentro, perché gli servirà per sopravvivere, fuori». Johnny è un teenager lakota sioux, vive nella riserva di Pine Ridge ma sogna un altrove. Brady, il protagonista di The Rider (on demand su Chili e Rakuten Tv), è un cowboy che non può più cavalcare: si è spaccato la testa durante un rodeo e se sale ancora in sella rischia la vita. Fern, interpretata da Frances McDormand in Nomadland (in sala e su Disney+), è, come spiega lei stessa in una battuta che diventa immediatamente slogan, «houseless, not homeless», “senza casa, non senzatetto”. Il cinema di Chloé Zhao, che ha soli tre titoli all’attivo (e il quarto, gli Eterni della Marvel, vedremo quanto davvero sarà suo) ma già un corpus compatto, innegabilmente d’autrice, si muove in una terra di confine, accidentata e sdrucciolevole, in uno “spazio” tra due opposti, spesso inconciliabili, non componibili. È un cinema western, certo, e non solo per l’ambientazione. Fatto dell’immensità di paesaggi sconfinati, filtrati (lo ammette lei stessa) dall’immaginario cinematografico che inevitabilmente li accompagna e che l’ha segnata da bambina, fotografati (dal compagno Joshua James Richards) nell’obliqua luce dorata di albe o tramonti (cioè altri confini), e in Nomadland pure sottolineati dalla musica dolciastra di Ludovico Einaudi, sembra costeggiare un sentimentalismo scivoloso, a maggior ragione perché sceglie di raccontare storie dal margine, che un certo automatismo (non solo) giornalistico tende a circondare di pietà. (E il discorso con cui Zhao ha accettato l’Oscar alla miglior regia, uno spericolato elogio della bontà, non fa che rimarcare, quasi a sfregio, questo sospetto).
Ma a guardarlo più da vicino, a immergersi nella vastità dei suoi paesaggi (che sono orizzonti ma anche volti), il lavoro di Zhao è frutto di una continua e faticosa contrattazione, di un frenetico movimento oscillatorio all’interno di un limite precario: la stessa tecnica di auto/non fiction che fin qui ha scelto di adottare – il processo di scrittura avviene insieme agli attori non professionisti, che prima le si raccontano a camera spenta, poi si ri-rimettono in scena attraverso le loro stesse parole, da lei riscritte – è emblematica di questo, di una negoziazione che non è solo quella tra il reale e la sua rappresentazione, ma anche tra i dilemmi etici che quest’operazione comporta. È come un’opera di addomesticamento, appunto, che cerca (non sempre riuscendoci, ovviamente) di non rompere lo spirito di ciò cui mette la briglia cinematografica. E coglie così una duplicità sfuggente, irriducibile. In Songs My Brothers Taught Me prende forma direttamente nei due protagonisti: Johnny, che vuole fuggire, e Jeshaun, che vuole che lui resti. In The Rider si riassume in Brady, nella sua consapevolezza disperata («i cavalli sono fatti per correre nella prateria, i cowboy per cavalcare»; e lui, un cowboy che non può più cavalcare, che senso ha?), nella drammatica necessità di dover riconfigurare la sua identità in uno scenario ribaltato. E in Nomadland è la tensione ostinata tra un senso di libertà pura, assoluta («c’è una grande forza nella solitudine» ha detto la regista in una conversazione online con Olivia Wilde) e la fatica, la paura, la desolazione che quella stessa libertà comporta. Non a caso il film è stato accusato di non schierarsi abbastanza, o peggio di romanticizzare una situazione tragica, non additando il nemico nel gigante Amazon, non ribadendo le sofferenze dei suoi nomadi, ma anzi illuminando l’inaspettato calore di una comunità che per essere tale non ha bisogno di radici, ma del loro contrario. Come se non fosse abbastanza chiaro che la cornice di Nomadland è quella di un fallimento totale e irreversibile, quella di un capitalismo talmente funzionale da riuscire a riassorbire e ri-sfruttare i suoi stessi “effetti collaterali”, i suoi stessi “scarti”. Come se non fosse proprio quella scintilla selvaggia, quella ricerca testarda di un’alternativa (una filosofia altrettanto americana, che soffia dal trascendentalismo alla Beat Generation), quel tenace filo che lega inaspettatamente solidarietà e sopravvivenza a certificare l’esistenza di un’ipotesi migliore.
L’altra candidata all’Oscar per la miglior regia, in un’edizione che avrebbe fatto la storia anche solo perché la prima ad avere ben due registe nella cinquina, non potrebbe aver fatto un film, all’apparenza, più diverso da Nomadland. La britannica Emerald Fennell, già autrice di libri per bambini, attrice celebre nella tv inglese (tra le protagoniste di Call the Midwife ma anche Camilla nella quarta stagione di The Crown), showrunner della seconda stagione di Killing Eve, ha lasciato il red carpet della Notte delle stelle comunque impugnando una statuetta, quella per la sceneggiatura originale del suo Una donna promettente (nelle sale italiane, finalmente, dal 13 maggio). Laddove Nomadland sembra (sembra) privo di rabbia, Una donna promettente pare strabordarne: è un film sulla cultura dello stupro ed è intriso di quella rabbia femminile negata e soffocata nei secoli dei secoli. Ma anche Una donna promettente si dibatte – con molta più ferocia rispetto a Nomadland – in un territorio dicotomico, non ricomponibile, doloroso e frustrante: la protagonista Cassie (Carey Mulligan, anche produttrice, come pure Frances McDormand per Nomadland) è intrappolata in un trauma che non le lascia via d’uscita, con la sua routine di vendicatrice che non è mai davvero catartica (né per lei, né, soprattutto, per noi). Una donna promettente è variopinto e sfacciato quanto Nomadland è lieve e lirico, ma se c’è un’altra cosa che hanno in comune è che sono entrambi film di genere, e che entrambi utilizzano il genere come impalcatura mentre dall’interno lo decostruiscono, lo rielaborano, lo riscrivono. Del western di Zhao si è detto, mentre quello di Fennell è un film di vendetta, anzi, un rape & revenge. Un sottofilone che fin dalle origini si è mosso tra empowerment e exploitation, tra chi sosteneva fosse l’uno e chi l’altro (e a volte è stato l’uno, a volte l’altro, molto più spesso entrambi): sotto la superficie colorata, pitturata meticolosamente come le unghie multicolori di Cassie, anche Una donna promettente è un film da sfogliare, una superficie dopo l’altra, proprio perché è una fantasia che sfalda a contatto con la realtà. All’opposto di Nomadland e della sua indomabile speranza, quello di Fennell è un film coraggiosamente disperato: ci servono entrambe, la fiducia e la furia, per dare fuoco alla lotta. ALICE CUCCHETTI
Emerald Fennell e Phoebe Waller-Bridge si sono conosciute sul set di Albert Nobbs, un film in cui recitavano entrambe piccole parti, e sono rimaste amiche. Quando, dopo aver creato e coordinato la prima stagione di Killing Eve, Waller-Bridge ha deciso di cederne le redini restando solo produttrice, ha scelto di passare il timone a Fennell. Dall’archivio di Film Tv, ecco la recensione di quella seconda annata.
Killing Eve
[stagione 2]
Riassunto delle puntate precedenti: Villanelle ammazza gente, per soldi ma con gusto; Eve Polastri le dà la caccia, per lavoro ma con crescente fascinazione; Villanelle ricambia. Nel finale della prima stagione, il sanguinoso “primo appuntamento” fra le due protagoniste della serie sviluppata dalla geniale Phoebe Waller-Bridge era stato probabilmente il più bizzarro momento erotico televisivo del 2018; la seconda annata riparte da lì. Ridotto il ruolo produttivo di Waller-Bridge (ormai richiestissima, chiamata pure a rifinire la sceneggiatura del prossimo 007), subentra una nuova showrunner, Emerald Fennell (autrice di romanzi per ragazzi ma più nota come attrice, per esempio in Call the Midwife), incaricata di sviluppare la complessa relazione fra la killer psicopatica e l’agente MI6 che scopre di avere un lato oscuro. Lo fa con intelligenza, sacrificando parzialmente la componente più action (restano comunque alcuni cruentissimi momenti da antologia, su tutti l’esecuzione in vetrina nel quartiere a luci rosse di Amsterdam) ma rendendo sempre più avvolgente e totalizzante la relazione pericolosa fra Villanelle e Eve, messa in scena nella sua disarmante componente erotica come nella sua complicata valenza psicoemotiva: la letale sicaria è pur sempre una psicopatica, e ciò costringe Eve a fare i conti con la possibilità di amare (e di riconoscersi in) una persona disturbata. La regia si fa più attenta alle sfumature (merito anche di new entry come la svizzera Lisa Brühlmann, regista di Blue My Mind) e il thrilling un po’ più allentato; l’intrattenimento resta altissimo, merito soprattutto di un trio d’attrici impagabili: Jodie Comer, Sandra Oh e la meravigliosa Fiona Shaw. ILARIA FEOLE
[pubblicata su Film Tv n° 24/2019]
Be Kind Rewind è una youtuber che analizza la storia del cinema attraverso le vittorie agli Oscar delle attrici protagoniste. Di tanto in tanto si distacca dal suo format, come per esempio nel suo ultimo video che mette a confronto le 7 registe nominate agli Oscar in 93 edizioni. [in inglese]
Sempre a proposito di confronti tra registe/sceneggiatrici nominate (e vincitrici, almeno per la sceneggiatura) agli Oscar: ecco una bella conversazione tra Emerald Fennell e Sofia Coppola. [in inglese]
La vittoria agli Oscar di Chloé Zhao è stata censurata in Cina, il suo paese natale. Come funzionano le dittature (quelle vere)? Ecco qui. [in italiano]
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