Singolare, femminile ♀ #067: La voce di una generazione
Così è stata battezzata, giovanissima, Lena Dunham ai tempi in cui ha creato la serie cult Girls; ora la regista torna alla ribalta con due nuovi film, uno dei quali, Catherine Called Birdy, è in streaming su Prime Video e porta sullo schermo un romanzo per ragazzi amato dalle millennial.
C'erano una volta i romanzi per ragazzi e young adult degli anni 80 e 90, che erano già pieni di personaggi femminili forti, anticonvenzionali e ribelli come molta narrativa odierna, ma nessuno se ne lagnava additando la dittatura del politicamente corretto, soprattutto perché quei libri erano distintamente indirizzati alle giovani lettrici, quindi nessun maschio ne veniva disturbato. Un esempio benemerito in Italia è stata la collana Gaia Junior di Mondadori, che per agevolare la ghettizzazione di genere era caratterizzata dal colore rosa-lilla delle coste di copertina, sufficiente a disincentivare i maschietti. Nel catalogo, libri bellissimi firmati dalla grande Bianca Pitzorno, da Margaret Mahy, Patricia MacLachlan, Natalie Babbitt, Astrid Lindgren, Philip Pullman, Christine Nöstlinger, Robert Westall, Penelope Lively, Maria Gripe, e potremmo andare avanti a elencare, ma magari lo faremo in un'altra puntata della newsletter; tra questi, scritto nel 1994 ma edito in Italia nel 1997, c'era Catherine di Karen Cushman, tardivo esordio nella letteratura per ragazzi di una scrittrice e docente di studi museali originaria di Chicago.
La storia di Catherine detta Uccellino (Birdy, in originale), fanciulla figlia di un lord nell'Inghilterra del 1290, costretta a esser data in sposa al più ricco pretendente per rimpinguare le vuote casse del maniero di famiglia, è narrata nel romanzo sotto forma di diario della ribelle e svogliata quattordicenne, insofferente alle attività riservate alle femmine come il ricamo, furiosa per tutte le carriere che in quanto donna le sono precluse (come l'artista, il monaco e il crociato) e sovente autrice di atti sovversivi e di vero e proprio vandalismo in giro per la tenuta. Un personaggio memorabile, irriverente, un po' volgare e cocciuto, capace di parlare alle preadolescenti anni 90 con voce spavaldamente femminista, nonostante l'accurata ambientazione medievale in cui era immersa.
Un romanzo che ha probabilmente segnato l'infanzia di parecchie millennial, tra cui quella di Lena Dunham, l'autrice newyorkese che di Catherine si era assicurata i diritti già dieci anni fa, quando era nelle prime fasi della realizzazione del suo capolavoro, la serie Girls su HBO (in Italia su Sky e Now). Con quello show, vissuto sei stagioni, a soli 26 anni Dunham si era conquistata il non facile appellativo di "voce di una generazione", quella millennial appunto, e con merito: raccontando il femminile (ma non solo: alcuni dei personaggi più memorabili di Girls, a dispetto del titolo, sono ragazzi e uomini) senza filtri né sesso patinato, con un'autenticità urticante e talvolta sgradevole, Lena - tramite il suo alter ego Hanna - fotografava davvero una generazione, tra sindrome dell'impostore, narcisismo e precarietà di mestieri e relazioni, in un'istantanea, insieme esilarante e mortificante, di cosa significava avere tra i 20 e i 30 anni in quell'epoca assai precisa (almeno vista da qui, oggi) che sta tra la crisi economica del 2008 e prima dell'avvento del #MeToo e del COVID-19. Certo, quella di “voce di una generazione” è un'etichetta ingombrante, facile bersaglio di chi ha poi fatto notare quanto l'universo di Girls fosse estremamente bianco e privilegiato, avvolto nella bambagia e nella luce di una New York perennemente estiva o primaverile, concepito da una giovane autrice figlia di genitori ricchi e molto bene inseriti nell'industria, con tutti i contatti giusti per arrivare ad avere carta bianca da HBO.
Tutto vero, ma Dunham è partita dalla prima regola dello scrittore esordiente: scrivi di ciò che conosci, e in Girls ha messo tutta l'arroganza e tutto il dolore della vita che conosceva, tutta la testardaggine nell'esibire il suo corpo, spesso integralmente nudo, e la sua fisicità non conforme ai canoni estetici, tutta la confusione di una generazione cresciuta guardando agli standard impossibili della sicurezza economica dei genitori - non più raggiungibile - e a quelli altrettanto deleteri di una cultura pop consumata a piene mani, sopravvivendo a un'adolescenza innervata di narrazioni sessuofobiche alla Dawson's Creek solo per ritrovarsi a vent'anni a dover affrontare pure l'avvento dei social network e l'obbligo della costruzione di un'immagine pubblica di sé quando ancora non si conosce nemmeno se stessi. Girls, con le sue nevrosi post-alleniane, i suoi corrosivi episodi autoconclusivi, i suoi dialoghi pungenti e la sua schiettezza narrativa, ha fatto la storia della televisione, ha sdoganato un altro modo di rappresentare le donne, e molte delle serie e dei personaggi femminili di cui vi parliamo in questa newsletter ne sono in qualche modo eredi o almeno debitrici.
Dopo la chiusura di Girls nel 2017, Dunham si è parzialmente defilata dalla scena dell'industria audiovisiva, restando comunque uno dei nomi più celebri e spesso più detestati dell'ambiente, complice anche la sua tendenza a esprimersi senza troppi compromessi su Twitter (e nel suo libro autobiografico Non sono quel tipo di ragazza, e nei podcast, e nelle sue rubriche su prestigiosi periodici statunitensi…), scivoloni compresi (quando un'attrice ha accusato di violenza sessuale uno degli autori di Girls, Lena ha archiviato prontamente il suo femminismo dandole della bugiarda; poi ha chiesto scusa, ma il web non dimentica). Le ragioni del semi ritiro erano però anche di salute: da anni affetta da endometriosi, patologia sulla quale ha fatto parecchia opera di sensibilizzazione, nel 2018 ha subito un'isterectomia ed è entrata in rehab per disintossicarsi dalle benzodiazepine, in un percorso di riappacificazione e riappropriazione del suo corpo che ha ben raccontato sui social, ammettendo l'enorme sforzo con cui nel decennio precedente aveva simulato la nonchalance necessaria a incassare le critiche, l'odio dei leoni da tastiera e anche la semplice, reiterata domanda: "Devi proprio spogliarti e mostrarti così tanto?" (una domanda che implica un giudizio, che critica l’eccessiva visibilità di quel corpo e dunque, a conti fatti, la sua stessa esistenza).
Dopo il non brillantissimo remake della serie inglese Camping nel 2018, con protagoniste Jennifer Garner e Juliette Lewis (un esperimento che elevava a potenza, nell'ambiente chiuso di un campeggio tra amici e parenti, tutte le nevrosi e le idiosincrasie già esposte in Girls), Dunham non ha firmato niente per altri quattro anni, fino al prolifico 2022, l'anno del suo ritorno. Ritorno nel segno di una doppietta, quella dei film Sharp Stick e Catherine Called Birdy, apparentemente così lontani l'uno dall'altro da non sembrare nemmeno firmati dalla stessa autrice, se non fosse che nascono proprio dal medesimo intento: quello di raccontare il femminile da ogni angolazione e senza filtro.
Sharp Stick, inedito in Italia al momento, è stato presentato al Sundance 2022 ed è una commedia erotica e satirica su una donna di 26 anni, vergine e molto naïf, che dopo aver subito un'isterectomia a 15 anni è cresciuta senza riuscire a sperimentare il sesso e a conoscere il proprio corpo. La relazione con un uomo sposato innesca una bramosia di conoscenza, prima che di piacere fisico, che la spinge a tentare di praticare ogni possibile atto sessuale esistente dopo averli attentamente studiati nei film porno. Lena Dunham, che si ritaglia anche il ruolo tragicomico - e come sempre, apertamente autoironico - della moglie dell'uomo infedele, mette a segno un coming of age cruento e abrasivo, femminista nel percorso di liberazione della protagonista (la bravissima Kristine Froseth) ma impietoso nel mettere in scena un ventaglio di femminili ottusamente avvolti in diverse forme di ambivalente e spesso ipocrita empowerment, dalla madre Jennifer Jason Leigh, libertaria in zona new age e autoassolutoria, alla sorellastra Taylour Paige, succube dei balletti TikTok. Un film scritto con grande intelligenza, capace di provocare quel fastidio di cui Dunham è diventata precoce maestra, e accolto in modo semi disastroso dalla critica statunitense.
Catherine Called Birdy, da pochi giorni disponibile su Prime Video anche in Italia, non potrebbe sembrare più diverso: tratto dal succitato romanzo per ragazzi, pensato come film per famiglie e giovani spettatori, è la storia, nelle parole di Dunham, "di una quattordicenne medievale a cui vengono le mestruazioni e con un debole per suo zio", un pitch per il quale si aspettava che i produttori scuotessero sconfortati e sconcertati il capo per la sua incapacità di leggere il mercato audiovisivo. Niente sesso qui, niente corpi esposti nella campagna britannica ricostruita con inclinazione hipster-floreale; compare giusto qualche tampone artigianale per il sangue mestruale e un certo gusto nel cercare la perfetta bestemmia (la preferita di Catherine, già nel romanzo, è "pollici d'Iddio"). Ma nelle mani di Dunham, e grazie all'interpretazione della portentosa Bella Ramsay di Il trono di spade, Catherine diventa un'eroina-teppista dallo spirito incendiario e quasi situazionista, feroce come un'indemoniata ma rapida e acuta come una piccola stand-up comedian. E d'altronde anche il suo - come quello di Girls, come quello tardivo di Sharp Stick - è un coming of age in piena regola, di fanciulla che si affaccia terrorizzata all'età adulta e ai doveri che essa comporta, nel suo caso una notevole limitazione delle sue già scarse libertà. Il diario di Catherine si sostanzia nella voce narrante anticlimatica e impietosa dell'eroina, che punteggia la narrazione con le sue osservazioni scorbutiche e sapide; una via di mezzo tra Lucy Van Pelt e Fleabag, irosa, gelosa, con scarso amore per l'igiene e nessuna intenzione di cedere ai pretendenti proposti dal padre (Andrew Scott in un ruolo di divertito mestiere), che allontana prontamente con ogni stratagemma possibile (in questo e altri aspetti molto affine alla pur più elegante Rosaline, protagonista del film in uscita il 14 ottobre su Disney+ e ispirato al personaggio del primo amore di Romeo nonché cugina di Giulietta).
Scurrile e senza peli sulla lingua, Catherine ribalta il punto di vista su ogni consuetudine della sua epoca, mettendo in luce ciò che di quelle regole ancora persiste nella società odierna, e quindi risuona anche per le preadolescenti di oggi: le norme che separano nettamente le attività maschili da quelle femminili, la necessità per una donna di essere anche moglie e madre, l'inesorabile bisogno di rispondere alle aspettative sociali altrimenti si finirebbe per non esistere, se non ai margini. Catherine detta Uccellino, invece, si prende di prepotenza la ribalta, perché a differenza delle Girls e della vergine di Sharp Stick lei non prova vergogna per ciò che è; né, tantomeno, per ciò che non è. Questo è il suo potere, questo il suo messaggio per le lettrici di ieri e le spettatrici di oggi, che Dunham fa suo, per mettere tra le righe del romanzo di formazione anche note non irrilevanti sull'ossessione sociale per la fertilità femminile (incarnata qui dal personaggio di Billie Piper, costretta a gravidanze continue e ridotta alla funzione riproduttiva), tema assai caro all'autrice anche e non solo per le sue vicende personali, sul quale è tornata di recente anche in un bell'articolo dedicato all'anniversario della morte di Marilyn Monroe (e antecedente il "rumore" di Blonde). Il suo intento, dichiarato e auspicabilmente raggiunto, era soprattutto quello di far innamorare anche gli spettatori più giovani di un personaggio che per le millennial è stato così amato: creare un'eroina in cui identificarsi, fuori dagli schemi, balorda e cocciuta, sprizzante autenticità, senza vergogna. Magari, la voce di un’altra generazione. ILARIA FEOLE
Fanciulla medievale che le tenta tutte per scappare ai pretendenti… cosa ci ricorda? Probabilmente andrebbero d’accordo con Catherine la Merida di Ribelle – The Brave e, soprattutto, la protagonista del recente action di Disney+ The Princess, principessa senza nome che pur di non sposarsi col manigoldo di turno sfodera la spada e mena botte da orbi. Vi riproponiamo la recensione da Film Tv n. 30/2022.
The Princess
Se avete in odio i remake in live action dei classici Disney, e se guardate con sospetto ogni tentativo di gender swap (la pratica di rifare titoli celebri cambiando il genere di alcuni personaggi), The Princess potrebbe convincervi che, volendo, si può fare. Anche se, tecnicamente, non è né l’una né l’altra cosa, non essendo un remake di niente: ma l’ambientazione e l’estetica richiamano sfacciatamente e volutamente il Medioevo fantasy in cui si muovono tante principesse Disney, e la protagonista che mena durissimo e si esprime prevalentemente a calci volanti è l’ovvio contraltare femminile di una stragrande maggioranza di eroi action maschili. Non fatevi poi ingannare dalla presenza di The Princess su Disney+: il progetto è originariamente Fox, nato quando lo studio non era ancora stato assorbito dalla Casa di Topolino, e negli Stati Uniti è uscito su Hulu. L’innominata principessa del titolo, interpretata da una volenterosa Joey King determinata a far da sé quasi tutti gli stunt - com’è d’obbligo per quello che è ormai un vero e proprio filone, come dimostra qui il nome di Derek Kolstad (John Wick, Io sono nessuno) in produzione -, si risveglia rinchiusa nella stanza più alta di un’altissima torre, imprigionatavi da un nobilastro fascio-misogino che ha preso possesso del castello con sgherri e mercenari e vuole obbligarla a sposarlo per diventare re. Piuttosto che gettare la treccia dalla finestra in stile Raperonzolo, la principessa fa partire un The Raid al contrario, dall’alto verso il basso: meno stupefacente del cult indonesiano, ma indiavolato ed entusiasta, asciutto quanto basta a non farsi appesantire dai flashback, tamarro e divertente, violento quando serve. Si può fare.
ALICE CUCCHETTI
Parte il 15 ottobre e fino a dicembre, a Brescia, il ciclo di incontri dedicato alle Bad Girls – Le cattivissime del cinema di tutti i tempi (e di tutti i generi): dalle vamp alle villain disneyane, passando per le dark lady, gli appuntamenti sono curati da Emanuela Martini, Pier Maria Bocchi, Luca Malavasi, Barbara Rossi e Ilaria Feole. Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria.
Si intitola Queer Picture Show ed è un progetto ideato dalla regista Irene Dionisio e dalla drammaturga Francesca Puopolo: uno spettacolo multimediale per raccontare il new queer cinema con un attore sul palco (Giovanni Anzaldo) ed estratti da pellicole di Gus Van Sant, Todd Haynes, Derek Jarman, Bruce LaBruce. Appuntamento il 13, 14 e 15 ottobre all'Off Topic di Torino.
Inaugura il 16 ottobre a Parma la mostra Filmmakher – 24 registe illustrate: da Alice Guy-Blaché a Kelly Reichardt e Laura Samani, il mondo delle donne dietro la macchina da presa è rivisitato attraverso lo sguardo di nove illustratrici italiane, alla scoperta di affinità e connessioni.