Singolare, femminile ♀ #075: Il meglio del 2022: serie tv
Dieci serie a firma femminile per riassumere al meglio il 2022. Sitcom e black comedy, drammi e dramedy, biografie e fantasie: una lista – assolutamente non esaustiva – che è soprattutto un invito a recuperare, magari proprio in questi giorni di Feste e vacanze, storie appassionanti, voci inedite, sguardi nuovi.
Non si sfugge: con l’arrivo di dicembre, oltre alle decorazioni natalizie e agli scambi di auguri, spuntano ovunque le classifiche del “meglio dell’anno”. C’è chi le prende come un gioco e chi maledettamente sul serio, chi si annota religiosamente le visioni fin dal 1° gennaio per arrivare preparato al countdown dicembrino e chi si precipita all’ultimo a recuperare titoli imperdibili prima di Capodanno. Partecipiamo anche noi, questa settimana con una playlist seriale, la prossima con una selezione cinematografica di produzioni create o co-create da firme femminili: un modo per fare il punto dell’anno appena trascorso, per scattare una fotografia al presente e tracciare una mappa d’orientamento nell’oceano sconfinato di visioni, magari aiutando qualcuno a scoprire il suo prossimo show o film preferito. Per questo non c’interessa elaborare una graduatoria impossibile: vi presentiamo le nostre scelte in ordine alfabetico.
Abbott Elementary creata da Quinta Brunson
Ve l’abbiamo già segnalata, come consiglio di visione estivo, prima che conquistasse tre Emmy (su sette nomination) alla cerimonia 2022. Per Abbott Elementary è facile rischiare di passare inosservata, o di essere sottovalutata: in un panorama (apparentemente) sempre più lontano dalle formule collaudate della tv generalista, è una workplace comedy dall’impostazione sitcom molto classica e dalla ormai stravista confezione mockumentary. Ma, ambientata in una scuola pubblica di Chicago malconcia e sottofinanziata, con un cast di attori comici in perfetta alchimia, riesce a illuminare la tragicommedia quotidiana di un ambiente comune ma poco rappresentato, e a rivelarsi – come le migliori commedie, soprattutto quelle ambientate sul posto di lavoro – un divertente e intelligente ritratto universale. Su Disney+
Bad Sisters creata da Sharon Horgan, Dave Finkel, Brett Baer
Eva, Ursula, Bibi, Becka e Grace: cinque sorelle, profondamente legate, cresciute senza genitori, e ora ancora più unite… da un omicidio. Quello del terribile Jean Paul (Claes Bang, che dopo The Affair e Dracula veste con odiosa perfezione la parte di uomo orribile), crudele, manipolatore, oppressivo, maniaco del controllo, marito di Grace – incastrata in un ruolo ancillare – ma abilissimo a rovinare l’esistenza anche al resto della famiglia. Bad Sisters si apre sul suo funerale, e in breve scopriamo che le sorelle che si stringono attorno alla vedova hanno molto a che fare con quella morte improvvisa. Tanto che un assicuratore, a loro insaputa, comincia a ficcanasare. Tra flashback (pieni di tragicomici tentativi d’omicidio falliti) e flashforward (l’indagine, le conseguenze, i segreti che vengono alla luce) la black comedy irlandese co-creata e interpretata da Sharon Horgan (Catastrophe, Divorce), diretta da un terzetto di registe (Dearbhla Wlash, Josephine Bornebusch, Rebecca Gatward), è un brillante esercizio di catarsi e un inno alla sorellanza. Segnalato anche all’interno del podcast di Film Tv Pablo. Su Apple TV+
Derry Girls st. 3 creata da Lisa McGee
I teen drama americani ci hanno raccontato che la “maturità” si raggiunge partecipando al ballo della scuola, con un bel vestito elegante, possibilmente mano nella mano con la propria cotta. Quest’esilarante teen comedy nordirlandese, durata solo tre brevi stagioni da sei episodi ciascuna (più il gran finale, di durata doppia rispetto ai canonici 22 minuti), tanto coinvolgente da aver “preso possesso” della città di Derry in cui è girata e ambientata, e da esser diventata un culto globale che ha conquistato perfino Martin Scorsese, ci dice invece la verità: “maturità” è (tra le altre cose) andare a votare, per la prima volta, prendersi la responsabilità di un compromesso storico che provi a gestire le contraddizioni, le ingiustizie e le cicatrici per trasformarle in pace, e dunque in futuro. Gli anni Novanta dei Troubles, degli attentati, delle bombe e dei posti di blocco, sfondo costante alle disavventure sguaiate e vitalissime delle cinque Derry girl, si chiudono con il Good Friday Agreement e un addio pressoché perfetto, tra lacrime, risate e la solita, splendida, colonna sonora. Su Netflix
The Dropout creata da Elizabeth Meriweather
È stato l’anno delle serie sugli “imprenditori-scammer”, sul mito del successo spogliato di tutta la sua doratura propagandistica grazie alla rimessa in scena di storie strappate direttamente dalla cronaca recente e reinterpretate in chiave narrativa (Inventing Anna, WeCrashed, Super Pumped, Joe vs Carole…). The Dropout, coordinata dalla Meriweather di New Girl, è quella che (forse anche grazie all’occhio per la dissacrazione surreale di un’autrice comedy) è riuscita meglio a dettagliare il suo messaggio, costruendo nel frattempo anche una storia appassionante. Merito, in grandissima parte, della protagonista Amanda Seyfried (premiata con l’Emmy) e della sua interpretazione di Elizabeth Holmes, l’aspirante imprenditrice che ispirandosi a Steve Jobs diventò per qualche tempo “la più giovane miliardaria d’America”, solo per poi rivelarsi rovinosamente un bluff, un vuoto riempito d’incompetenza, egomania, illusioni di grandezza e truffe criminali. Per approfondire, rileggete la newsletter n. 49. Su Disney+
The Good Fight st. 6 creata da Michelle King, Robert King, Phil Alden Robinson
È stato anche un anno di addii (la già citata Derry Girls, ma anche la sempre ottima Better Things di Pamela Adlon, e Gentleman Jack, cancellata dopo due stagioni), e forse la serie che ci mancherà di più è The Good Fight, cui abbiamo dedicato un numero della newsletter proprio in occasione del finale. Con la sua conclusione ci tocca salutare (probabilmente: mai dire mai!) anche uno dei personaggi migliori dell’ultimo decennio televisivo: la Diane Lockhart interpretata da Christine Baranski, già co-protagonista della serie madre The Good Wife e qui divenuta star assoluta. Miscelando ironia, sangue freddo, sacrosanta furia e una giustificabilissima passione per gli allucinogeni, ci ha aiutato ad attraversare questi anni assurdi e paradossali, cercando assieme a noi un barlume di lucidità nel vortice incontrollato di follia. La sua inconfondibile risata, lo sappiamo, saprà venirci ancora in soccorso alla bisogna, meglio di qualunque supereroe. Su TIMVISION
Ragazze vincenti: La serie creata da Abbi Jacobson, Will Graham
Ragazze vincenti, film del 1992 diretto da Penny Marshall e interpretato da Geena Davis, Lori Petty e Tom Hanks, è diventato, negli anni, un autentico cult movie, nascondendo sotto la superficie leggera una storia inedita e una complessità inattesa. Si basava su un fatto vero: durante la Seconda guerra mondiale, con la stragrande maggioranza degli uomini al fronte, il mondo del baseball professionista si aprì finalmente alle donne, istituendo l’All-American Girls Professional Baseball League. La co-autrice di Broad City Abbi Jacobson riparte da lì, dall’eredità del film – protagonista della serie è la stessa squadra, le Rockford Peaches – ma anche dai lati della Storia taciuti al tempo, o lasciati sottintesi. La serie da A League of Their Own (in italiano Ragazze vincenti: La serie) non è un vero remake, ma un altro racconto dello stesso contesto: uno che al percorso di emancipazione femminista affianca la scoperta di un universo queer sepolto e la linea narrativa parallela (proprio perché, ancora, a tutti gli effetti “segregata”) di una giocatrice afroamericana. Il risultato è uno show capace, allo stesso tempo, di “far stare bene” e strappare un po’ il cuore, una storia di sorellanza e scoperta di sé, un’educazione sessual-sentimentale e una parabola sportiva. «Non si piange nel baseball», ma voi per sicurezza portatevi il fazzoletto. Su Prime Video
La fantastica signora Maisel st. 4 creata da Amy Sherman-Palladino
L’anno in cui Midge Maisel ritorna, dopo un’attesa prolungata dalla pandemia, è l’anno del fallimento: non di Amy Sherman-Palladino, però, che anzi ha dovuto rimaneggiare un’intera stagione, adattandola in corsa alle esigenze della situazione sanitaria, “rinchiudendola” in location meno numerose e più ristrette, e riuscendo a fare di necessità virtù. Il fallimento (ne abbiamo parlato nella newsletter n. 45) è quello di Midge, che ha visto la propria ascesa fermarsi proprio quand’era sul punto di (letteralmente) decollare, e che ora si chiude nella cornice più improbabile, quella di uno strip club illegale. Oltre alle consuete sceneggiature brillanti, al cast più che mai in forma e all’iperbolica regia, la quarta stagione di La fantastica signora Maisel ha allineato idee sovversive e interessanti (come la lenta trasformazione, anche scenografica, del teatro per spogliarelli in luogo di liberazione e orgoglio, o il contraddittorio confronto-scontro tra Midge e le donne della sua vita, soprattutto sua madre). E poi, beh, ha anche portato al culmine in modo impeccabile una love story che sobbolliva fin dalla prima annata. Non vediamo l’ora che arrivi la quinta e ultima stagione, per scoprire la conclusione del percorso di Midge, anche se, possiamo già scommetterci, ci mancherà. Su Prime Video
Pachinko creata da Soo Hugh
Una storia di migrazioni, imperialismo e discriminazione in cui, per una volta, la prospettiva occidentale è ai margini (ma comunque ben presente, come un’ombra: d’altronde la serie è una co-produzione statunitense-coreana, e i suoi autori sono quasi tutti nordamericani di origini coreane). Tratta dall’omonimo romanzo di Min Jin Lee (edito in Italia da Piemme), la serie coordinata da Soo Hugh (già co-autrice di The Terror) e co-diretta da Kogonada (celebre regista di videosaggi, ma anche dell’apprezzato film After Yang), è un’epica familiare in grado di scivolare attraverso il Novecento, tra piccoli drammi personali e tumultuosi eventi storici, aggrappandosi alla determinazione della protagonista Sunja (interpretata, nella versione anziana, dalla premio Oscar Youn Yuh-jung), che dalla Corea occupata dai giapponesi negli anni 20 e 30 si trasferisce a Tokyo, nella comunità di immigrati coreani, costantemente oggetto di soprusi e razzismo. A Pachinko avevamo dedicato la newsletter n. 48. Su Apple TV+
Somebody Somewhere creata da Hannah Boss, Paul Thureen
Siamo a Manhattan – no, non a Manhattan, New York: a Manhattan, Kansas. Nella provincia americana che più provincia non si può, nel bel mezzo del paese e di una crisi esistenziale: quella della protagonista Sam – una strepitosa Bridget Everett – che, nel mezzo dei suoi 40 anni, è tornata nella cittadina in cui è nata e cresciuta per stare vicino alla sorella malata. Ma ora la sorella è morta, l’altra sua sorella è un grumo di risentimenti e frustrazione, l’unica a tenere a Sam sembra essere la nipote adolescente. Finché non stringe amicizia con un collega di lavoro ed ex compagno di liceo, Joel, che la introduce al proprio giro di amici e risveglia in lei la passione per il canto. Prodotta dai fratelli Duplass (Jay dirige tre episodi su sette), Somebody Somewhere – in onda su HBO, ancora inedita in Italia – è quel tipo di dramedy che lascia lo spettatore incerto sul confine tra la risata a denti stretti, la commozione e la presa d’atto di un’insondabile disperazione. Ormai un sottogenere a sé, ma che sa produrre ancora gemme: come questa, appunto, che ritrae con sincerità e vicinanza un’America proletaria e rurale ancora troppo poco vista, e una donna, insieme unica e ordinaria, con autenticità.
Starstruck creata da Rose Matafeo
Passare una notte di passione con uno sconosciuto, soprattutto se nel bel mezzo dei festeggiamenti di Capodanno, è qualcosa che può capitare. Scoprire che quello sconosciuto è una star famosissima è invece decisamente inusuale; ritrovarsi in una relazione sentimentale con lui, tra mille equivoci, incomprensioni, ostacoli e paparazzate, è la premessa di Starstruck, commedia british creata per la BBC dalla neozelandese Rose Matafeo, che ne interpreta anche la protagonista Jessie (Nicola Cupperi aveva parlato di Matafeo comica millennial qui). Mescolando ispirazioni da screwball comedy vecchia Hollywood con il tono sessualmente esplicito e senza filtri della serialità contemporanea, Matafeo – che interpreta una ragazza molto sicura di sé, in divertente contrapposizione alle insicurezze del suo celebre amante – realizza un gustoso aggiornamento della commedia romantica, in due stagioni apprezzatissime in patria e non solo. Dal 9 dicembre su RaiPlay
ALICE CUCCHETTI
Ogni dieci anni la rivista del British Film Institute “Sight & Sound” coinvolge critici cinematografici di tutto il mondo in un sondaggio per stilare una classifica dei migliori film della storia del cinema. Dopo Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1952), Quarto potere di Orson Welles (1962, 1972, 1982, 1992, 2002) e La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock (2012), quest’anno in vetta c’è Chantal Akerman con Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles. Ripubblichiamo il pezzo sul film scritto per Film Tv n. 40/2020 da Mariuccia Ciotta, in occasione della distribuzione della serie tv Mrs. America (che, nel finale, citava direttamente il capolavoro di Akerman).
Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles
Avvolge il tempo Jeanne Dielman (citato in Mrs. America) in un piacere ipnotico, tempo iperrealistico in agguato nel lungo corridoio buio, e che promette, dietro il «nulla accade», qualcosa di sconvolgente. La tensione si insinua dappertutto, ogni gesto di Delphine Seyrig è un allenamento al dopo, la caffettiera gigante - spietata e simbolica clessidra -, l’infarinatura della carne, l’abbottonatura della vestaglia... Rituali da sacerdotessa o da La moglie di Craig, 24 ore della vita di Harriet/Rosalind Russell a spolverare e smacchiare ferocemente la casa, il suo regno-rifugio contro il mondo esterno. Tre giorni, invece, servono a Jeanne per caricare l’arma del dissenso, e se Chantal Akerman è in debito con Godard e il New American Cinema - Snow, Brakhage, Warhol - lo è ancor di più con Dorothy Arzner e il suo film del 1936. Akerman filma gli interstizi dell’azione, capovolge il diktat di Hitchcock, punta l’obiettivo sui tempi morti, descrive passo dopo passo in 201’ la noia e la ripetizione del lavoro domestico, antidoto all’angoscia e all’ossessione della morte, eco forte della madre sopravvissuta ad Auschwitz. Sì, eppure c’è qualcos’altro dietro «il più grande capolavoro femminile della storia del cinema» (“New York Times”). Non solo Simone de Beauvoir e il suo «peler les pommes de terre» nella cucina-prigione (articolo uscito su “Les temps modernes”). Jeanne Dielman infrange i codici del discorso, e non proprio al seguito del cinema sperimentale newyorkese. Akerman respinge l’essenzialismo, il definirsi «femminista, lesbica, ebrea, regista donna» (a proposito della furia virile delle “quote rosa” nei festival) e sfugge alle categorie di genere. Il suo maggior interesse riguarda il tempo, sia per la controffensiva al cinema classico sia per l’alterità al ritmo della produzione e del profitto. Rivoluzione non parziale di uno sguardo di donna, ma leva per sovvertire l’ordine delle cose che nel film danno segni di ribellione... Oggetti che cadono, si rompono, si spostano. L’inquadratura frontale e il silenzio, quasi un film muto, sono un sottrarsi a un mondo più vasto dello schermo hollywoodiano, quello di Jeanne è un totale “uscire di scena”. Lei uccide. Il cliente - fa la bella di pomeriggio per mantenere l’odioso figlio - si è intromesso nel suo spaziotempo, le ha provocato un orgasmo. Così la diva della nouvelle vague con grazia prende le forbici e le affonda nella gola dell’uomo steso sul letto. Jeanne è ripresa di spalle allo stesso modo di quando lava i piatti. «Il gesto si intuisce appena, non è in evidenza in alcun modo... Una ripresa in una stanza vuota può avere la stessa intensità di un omicidio» (Chantal Akerman, Ilaria Gatti e Alessandro Cappabianca, Fefè Editore). La forza di questa messa fuori fuoco ricorda la sequenza di Piccole volpi di Wyler, quando in fondo all’inquadratura, nella lunga prospettiva, muore senza soccorso Herbert Marshall, in primo piano una glaciale Bette Davis. Ovvio citare anche Bresson, Dreyer... Van Sant. Il tempo è un problema al centro del nuovo cinema e delle serie tv. In che modo farlo scorrere? Ellissi, fermoimmagine alla maniera di Lav Diaz o estensione illimitata con capovolgimenti narrativi? Akerman torna “di moda”, allestisce la sua cucina al pari di un palcoscenico, piazza la camera bassa e fissa e riprende la donna. Teatro domestico per dire che Jeanne, immobile, le mani insanguinate, interpreta la stasi come azione. Oppure, al contrario, la vedremo china e sconfitta a sbucciare le sue patate, punizione eterna per le fuorilegge del proprio sesso.
MARIUCCIA CIOTTA
Su Vimeo e YouTube è disponibile gratuitamente (in francese con sottotitoli in inglese) Autour de Jeanne Dielman, un documentario che segue il dietro le quinte del film, evidenziando il metodo di lavoro di Chantal Akerman e il rapporto di collaborazione con la protagonista Delphine Seyrig e con la crew. Sempre a proposito della classifica di “Sight & Sound”, sul “New York Times” trovate una vera e propria guida a Jeanne Dielman, che contiene anche diversi link a recensioni, analisi e a un’intervista a Chantal Akerman [in inglese].
Sul “Guardian” [in inglese] un articolo ripercorre la storia di come è stato raccontato e di come sono cambiati il discorso e la messa in scena dell’aborto nelle serie tv americane. Su L’Essenziale, invece, un approfondimento sul primo processo pubblico per stupro in Italia, ripreso anche dalla Rai e ricostruito nel libro Mai più sole.
Sulla piattaforma Another Screen, fino al 4 gennaio è visibile, gratuitamente, la rassegna Iran from Iran, una selezione di cortometraggi realizzati da filmmaker donne e non-binary, dal 1979 ai giorni nostri, che restituiscono la figura femminile nella società iraniana e il costante filo di resistenza, acceso ben prima delle proteste di questi mesi.