Singolare, femminile ♀ #071: La giusta causa
Ode a Diane Lockhart/Christine Baranski e a una delle migliori serie che probabilmente non state guardando, vivida istantanea dello sgretolamento della democrazia statunitense (e non solo) e dell’allucinata follia in cui ci pare di vivere: parliamo di The Good Fight, nella settimana in cui giunge a conclusione dopo sei stagioni audaci e imprevedibili.
Ci si abitua a tutto, si dice. È il lato oscuro e infido dell’ormai onnipresente “resilienza”: si assorbe il colpo, si va avanti, ci si adatta. Lo illustra spietatamente una miniserie splendida come Years and Years, disponibile (ancora per poco, pare) sulla piattaforma LIONSGATE+ (ex StarzPlay): in un futuro vicinissimo e inquietantemente verosimile, l’apocalisse è una spirale entropica di disastri, un effetto domino di catastrofi che ormai conosciamo fin troppo bene (emergenza climatica, crisi economiche, populismi, violenze, guerre, pandemie), ma l’affollata famiglia Lyons, dopo l’occasionale momento di shock, va avanti con la propria vita, trovando nell’affetto reciproco la propria salvezza e la propria rovina. Non ci si può indignare o preoccupare con la stessa intensità 24 ore su 24, senza contare che poi tutti abbiamo di meglio da fare, le bollette da pagare, l’affitto o il mutuo, le vacanze, le amicizie, gli amori, qualche volta perfino una rara gioia.
No, non si resta indignati 24 ore su 24, ma non per questo la condizione in cui si naviga si fa meno surreale. Sta per finire – per la precisione domani, giovedì 10 novembre, negli Stati Uniti andrà in onda l’ultimo episodio – la serie che, meglio di (quasi?) tutte ha messo in forma narrativa l’esperienza di esistere in questa nostra “timeline oscura”, quotidianamente, negli ultimi sei anni: The Good Fight. Un’esperienza parzialissima, certo, perché i protagonisti, a partire dall’eroina Diane Lockhart interpretata da una straordinaria Christine Baranski, appartengono a un’élite comunque privilegiata, essendo avvocati o investigatori privati che vivono e lavorano nei quartieri altoborghesi di Chicago, muovendosi tra l’arredamento di design del proprio elegante studio, le aule di tribunale, talvolta pure qualche importante evento di e per super ricchi.
Un’annata dopo l’altra, i coniugi Michelle e Robert King – che hanno creato la serie insieme a Phil Alden Robinson, e che ne sono sceneggiatori e showrunner – hanno sviluppato sempre più il proprio gusto per una scrittura metaforico-allegorica, insieme beffardamente ironica e nient’affatto sottile: in quest’ultima stagione, per tutto il tempo, i nostri personaggi agiscono più o meno come niente fosse ai piani altissimi del loro grattacielo, ogni tanto affacciandosi sulle strade in cui, lontanissime, si agitano proteste di piazza sempre più violente. Di cui, peraltro, nessuno sa più con certezza tracciare i confini, o meglio, li misura a partire dalle proprie convinzioni politiche, come un po’ tutto quanto: «Ho sentito che sono i Proud Boys!» dicono quelli di sinistra, «no a me è sembrato proprio di capire che sono Antifa» affermano i simpatizzanti di destra.
The Good Fight non è una serie originale, ma uno spinoff. Discende da The Good Wife, con cui condivide il DNA, l’ambientazione e svariati personaggi, ma che per molti altri versi appartiene a un contesto e a un’era televisivi lontanissimi. The Good Wife, iniziata nel 2009 e conclusasi nel 2016, era uno show generalista apparentemente “vecchio stile”, realizzato sulla più conservatrice delle reti da tv lineare, la CBS. Una serie legal, con il caso di puntata da dibattere in tribunale di volta in volta, una media di 22 episodi a stagione, sette stagioni in totale. La trama orizzontale c’era, e fortissima: l’arco principale riguardava l’evoluzione della protagonista Alicia Florrick, la sua trasformazione da madre di famiglia più o meno inconsapevole a squalo del foro ambiziosissimo e dall’etica malleabile. Un breaking bad senza anfetamine o sparatorie, chiuso nella raggelata levigatezza di uffici sofisticati e nelle maglie della tv generalista, che dunque vieta scurrilità, violenza e sesso espliciti.
The Good Fight comincia nel 2016, pochi mesi dopo la fine dello show originale, ma su quella che all’epoca è CBS All Access e che oggi è Paramount+ (da noi però per ora la trovate in anteprima esclusiva su TIMVISION, e le prime stagioni sono anche su Prime Video e RaiPlay): cioè su una piattaforma streaming, dove le regole di ciò che si può dire e fare sono molto meno ferree, e infatti la primissima parola che sentiamo pronunciare nella prima scena è uno squillante (e più che mai comprensibile) «Fuck!». Nel corso delle successive stagioni – quella che domani chiude definitivamente la serie è la sesta – The Good Fight cambia sottilmente pelle, o meglio cambia forma sotto la propria stessa pelle: in ogni puntata c’è almeno qualche scena, in un modo o nell’altro, ambientata in tribunale (anche se sempre più spesso possono essere tribunali finti), ma il caso della settimana non è più l’ancora principale attorno a cui organizzare la narrazione; e, dopo una prima stagione d’adattamento (realizzata prima dell’elezione di Trump e rimaneggiata in corsa per stare al passo con l’attualità), ogni ciclo d’episodi mette in scena una sorta di mini-arco antologico, incentrato ogni volta, però, più che sulle vicissitudini personali di uno o più personaggi, su un escamotage dalla forte connotazione politica. I casi più lampanti sono quelli della quarta stagione, in cui si scopre l’esistenza del misterioso “Memo 618”, un documento che permette ai più potenti tra i potenti di non incorrere in alcuna sanzione legale per le proprie azioni; e della quinta, in cui alle aule ufficiali si affianca quella del tribunale 9 e ¾ (sì, come il binario di Harry Potter) in cui un finto giudice mette in scena finti processi che assomigliano sempre più a reality show (ma ci piace ricordare anche i fantastici corti animati che, durante la terza stagione, ci spiegavano cose come “le fabbriche di troll russi”).
Se già l’Alicia Florrick di The Good Wife era una protagonista per molti versi atipica, la Diane Lockhart di The Good Fight è quasi un unicum televisivo. Per l’età (Christine Baranski, classe 1952, ha compiuto lo scorso maggio i 70 anni) e per “il modo in cui la porta” (perdonateci l’odioso modo di dire): fieramente indipendente ed esplicitamente ambiziosa, senza figli né nipoti, in una relazione duratura, sessualmente attiva ma non completamente convenzionale (sviluppatasi nel corso di The Good Wife), dedita al lavoro e all’attivismo politico. Christine Baranski, la cui popolarità è meritatamente lievitata negli ultimi anni, è stata prima di questo ruolo soprattutto una grande caratterista e interprete di musical (da Chicago a Mamma mia!), oltre che una veterana di Broadway, ha vinto due Tony, e un Emmy come non protagonista negli anni 90, nella serie Cybill. A contraddistinguere Diane, tra le altre cose, c’è la risata, che è poi quella di Baranski stessa: subito “oggetto di culto” (se così si può dire di una risata), immediatamente “memabile”, riesce a riassumere in sé un enorme potere liberatorio e tutta l’incredulità che si manifesta davanti all’assurdità del presente. In The Good Fight le vengono poi affiancate protagoniste altrettanto interessanti e inedite, appartenenti a diverse generazioni, spesso personaggi secondari di The Good Wife che nello spinoff hanno lo spazio per brillare ancor più intensamente: la risoluta Lucca Quinn di Cush Jumbo, la giovane Marissa Gold di Sarah Steele, la determinata Liz Reddick di Audra McDonald (altra leggenda di Broadway: entrambe le serie, girate a New York, sono fitte di guest star celebri e straordinarie, provenienti per lo più dal teatro), l’ambigua Carmen Moyo di Charmaine Bingwa. Ma tutto il cast, dai camei (i giudici bizzarri e gli avvocati avversi, talvolta ricorrenti, sono uno dei tanti piaceri dello show) ai comprimari, è strepitoso: segnaliamo almeno l’Adrian Boseman di Delroy Lindo, l’Hal Wackner di Mandy Patinkin, il Ri’Chard di André Braugher.
Ma è Diane, più di ogni altro personaggio, a esprimere una condizione esistenziale in cui ormai ci sembra di identificarci sempre più spesso: perché se è vero che nessuno resta in uno stato d’indignazione o di panico 24 ore su 24, se è vero che la vita continua anche dopo un assalto al Campidoglio o la cancellazione del diritto all’aborto, è altrettanto vero che la furia e la frustrazione continuano a scorrere sotterranee, ci consumano un poco alla volta, ci erodono da dentro, sciolgono lentamente ai margini tutti il senso che faticosamente ci eravamo costruiti per riuscire a sopravvivere.
Come nell’imprescindibile sigla, una delle migliori degli ultimi anni, dove su rilassanti note di pianoforte vediamo al ralenti l’esplosione di oggetti d’uso quotidiano, con effetto insieme esaltante e catartico (qui un approfondimento sulla sua realizzazione). Una serie d’ambientazione legale si rivela così il miglior format possibile per testare la tenuta del mondo: perché le sue fondamenta sono le leggi, le regole, i riti, anche quelli ufficiosi, i fatti, anche quelli manipolati. In un panorama popolato non solo di “fake news” ma direttamente di “alternative facts”, in cui il terreno di certezze condivise dalla stragrande maggioranza si riduce alla velocità della luce, lo spazio dell’aula di tribunale è quello in cui meglio può rivelarsi un’evidenza ineludibile: quella che chiamiamo “civiltà” è una faticosa negoziazione quotidiana costruita su accordi reciproci, ma basta pochissimo, basta che abbastanza “contraenti” decidano di non rispettare il patto siglato perché tutto si sgretoli in un cumulo di macerie (e in un’esplosione di violenza che, come la Storia sempre dimostra, colpisce sproporzionatamente i più deboli).
La scrittura di The Good Fight, però, sa agguantare, per la maggior parte del tempo, anche un’ironia miracolosa: non il sarcasmo da meme, il cinismo intriso di superiorità che in troppi utilizziamo, più o meno inconsapevolmente, come meccanismi di difesa, come prese di distanza, come – quelli sì – anestetizzanti; ma la leggerezza di chi riesce a – di chi vuole – tenere sempre in primo piano la surrealtà della situazione, l’assurdità del ritratto che sta dipingendo perché sa che proprio quell’illogicità è parte fondante del quadro e anche, forse, una possibile via di sopravvivenza da cavalcare.
Già nella seconda stagione, la prima realizzata durante la presidenza Trump, e da subito impegnata a rappresentarne, con slanci spericolati, l’esperienza surreale, Diane comincia a fare microdosing, cioè ad assumere una limitatissima quantità di allucinogeni come tranquillanti (una pratica che negli ultimi anni si è fatta sempre più diffusa, anche tra insospettabili). L’intuizione geniale degli autori è quella di raffigurare, attraverso il punto di vista di Diane, un mondo irrazionale al punto che diventa impossibile distinguere i momenti frutto delle allucinazioni psichedeliche da quelli reali, e realmente accaduti. Vale anche per noi spettatori, che più volte nel corso della visione, ci troviamo a cercare su Google alcuni dei dettagli dei telegiornali che Diane tiene in sottofondo, perché neppure noi riusciamo a capire – o a ricordarci: il flusso delle “news” è ormai talmente folle e frenetico da sembrare un blob indistinto – cosa sia successo davvero e cosa sia un’invenzione delle show. E se in quell’annata Diane decideva che l’unica cosa che poteva fare in un mondo impazzito era lottare per conservare la salute del suo pezzetto di realtà, nell’ultima stagione la ritroviamo di nuovo sotto allucinogeni, questa volta somministrati sotto supervisione medica, da un affascinante dottore che sostiene di aver sviluppato questa straordinaria, e sicurissima, tecnica di controllo dell’ansia e della depressione.
Il senso non potrebbe esser più cristallino: assumere volontariamente una dose omeopatica di follia irrazionale ci pare ormai l’unico modo di affrontare l’irrazionalità folle del mondo. È una resa, anche, voluttuosa e suadente, come tutte quelle che assediano, come irresistibili tentazioni, i nostri protagonisti (e dunque noi), anche qui con vertiginosa escalation: nel penultimo episodio, un milionario dell’high tech, omologo degli Elon Musk e dei Jeff Bezos, si offre di comprare, letteralmente, il partito democratico, per riformarlo dall’interno, con i soldi, l’influenza e la sistematica violazione della privacy che il suo impero informatico gli consente (come già The Good Wife, anche The Good Fight è tra le più precise rappresentazioni dell’invasività tecnologica contemporanea); nello stesso tempo, scopriamo che la comunità afroamericana, stanca della sistematica oppressione anche istituzionale subita da secoli, ha costituito un’organizzazione clandestina che persegue ed “elimina” i suprematisti bianchi con la determinazione e l’efficacia che la Legge ufficiale non sembra intenzionata ad applicare. Audace e incosciente, The Good Fight macina idee (finisce domani, sì, ma è un rarissimo caso di serie che, alla sesta stagione, non ha davvero esaurito tutte le cartucce), le mette alla prova, ci mette alla prova: quanto è semplice solleticare il germe di fascismo che silenzioso sonnecchia in ognuno di noi? L’abilità dello show è quella – oggi così rara – di rifiutare l’equiparazione tra le parti avverse (no, destra e sinistra non sono e non saranno mai uguali) e allo stesso tempo illuminare le radici comuni ai modi di fare dell’uno e dell’altro schieramento, il contagio di un virus che non risparmia nessuno. È una strada accidentata, complessa, faticosissima, e spesso irta di vicoli ciechi, di risate isteriche, di disperazione. Ma ci ricorda che, sì, la vita continua. È la lotta, soprattutto la lotta (vogliamo chiamarla resistenza?), che deve fare altrettanto. ALICE CUCCHETTI
Prima di The Good Fight, c’era The Good Wife, la serie madre, con Julianna Margulies nei panni della protagonista Alicia Florrick. Alla serie avevamo dedicato un Serial Graffiti sul n. 33/2015, che vi riproponiamo.
La zona grigia
Non sottovalutatela: esattamente come la sua protagonista, la serie legal The Good Wife, sembra innocua, semplice e rassicurante. Ma le apparenze ingannano.
Non si dovrebbe mai prescindere dal contesto. Impossibile se si parla di The Good Wife. È indispensabile, per esempio, sapere che i grossi network americani (quelli che, per semplificazione, definiremmo “free” o “generalisti”) hanno regole, ragioni e meccanismi produttivi molto diversi dalle reti cable: prevedono oltre una ventina di episodi l’anno, scritti e girati nel corso della stagione tv, soggiacciono più delle reti pay alla dittatura dei rating d’ascolto, agli introiti pubblicitari, alle interferenze della vita reale. Programmano spesso serie con una struttura più verticale, i cosiddetti procedurali, e le tengono in vita il più possibile, in barba a credibilità, coerenza artistica, sopportazione. The Good Wife va in onda sull’emittente statunitense più tradizionalista di tutte, la “corazzata” CBS, quella degli infiniti CSI, NCIS, Criminal Minds, e su Rai2, in Italia (oggi, che si è conclusa, trovate le stagioni su Paramoun+, Now e TIMVISION, Ndr), eppure con i colleghi di palinsesto c’entra molto poco: sotto la maschera del procedurale giudiziario (per altro esplorato da punti di vista spesso inediti e imprevedibili), traccia l’evoluzione di Alicia Florrick da casalinga e madre di famiglia ad avvocata, imprenditrice, candidata procuratrice distrettuale. E, naturalmente, il suo contesto: colleghi di lavoro, clienti, politici. Un mosaico progressivamente più ambiguo, fatto di zone grigie e ambivalenti, dove l’aula di tribunale e i corridoi dello studio legale sono territorio d’elezione per la messa in scena di narrazioni sul filo della legge, in barba alle ostentate trasparenze di vetri onnipresenti e luci cristalline. L’origine di The Good Wife, d’altronde, sta proprio in un allargamento del quadro, in un’incursione nel fuoricampo: guardando le immagini dell’ennesimo scandalo politico-sessuale statunitense, quello del governatore di New York Eliot Spitzer, la co-creatrice Michelle King (che scrive e coordina lo show insieme al marito Robert) si è domandata cosa succedesse nella testa di quelle mogli che (come la più famosa di tutte: Hillary Clinton) restano solidali a sostenere i mariti, sotto i riflettori, sul podio con loro, ma un passo indietro. Plurilaureate, professioniste affermate, volitive e intelligenti; la fittizia Alicia Florrick, nella prima sequenza di The Good Wife, è una di loro, poi torna a esercitare la professione d’avvocato, e nella sesta stagione, a un certo punto, si trova al centro di un’inquadratura opposta e speculare: lanciatasi in politica, con il marito a supportarla, appena un passo indietro. Più d’uno l’ha paragonata a una versione al femminile di Walter White, solo che qua non ci sono spaccio e cartelli di narcotrafficanti (tranne per l’occasionale presenza del boss criminale Lemond Bishop), ma la sfiancante lotta quotidiana tra scelte giuste e sbagliate, un percorso che edifica, subdolamente, un dettaglio alla volta, cinismo e ipocrisia. Nel mezzo, lo show - prodotto anche da Ridley Scott e dal fratello Tony, fino alla morte di quest’ultimo - non ha mai smesso di farsi commento, quasi live, del contesto in cui è nato, riecheggiando, e talvolta anticipando, eventi politici e sociali autentici, indagando le mutazioni del panorama mediatico e soprattutto tecnologico (la rivista statunitense “Wired” l’ha definita la serie più competente in materia), confezionando episodi di scrittura impeccabile al ritmo di 22 l’anno. Ah, sì, tangenzialmente, ha raccontato anche una tormentata storia d’amore e pessimo tempismo, per poi troncarla nel modo più crudele e coraggioso, ribaltando aspettative, dinamiche e, appunto, contesto. Dunque, come recita la tagline, «Non fatevi fregare dalle apparenze»: recuperatela.
ALICE CUCCHETTI
La notte di Halloween del 1992, sulla BBC nel Regno Unito va in onda Ghostwatch, un horror in found footage talmente realistico che tantissimi spettatori si convincono che sia tutto vero, e scatenano il panico. A realizzarlo, la regista Lesley Manning: Nanni Cobretti l’ha intervistata su i400calci.com in occasione dell’anniversario dell’evento.
Sulla ricchissima Ghinea di ottobre, due interessanti e approfonditi saggi: Cristina Resa riscopre l’horror Celia di Ann Turner, Simona Iamonte analizza il lavoro dell’artista iraniana Shirin Neshat. Sulla versione internazionale di Jacobin (dunque in inglese) un articolo sulla nostra amata Angela Lansbury e sulla sua fiera fede politica socialista.
A Lecce, dal 12 al 19 novembre, il Festival del cinema europeo incontra la cinematografia ucraina; tra i lungometraggi in concorso, l’anteprima italiana di How Is Katia? di Christina Tynkevych. A Roma, dall’11 novembre, MART 2022 dà vita a un nuovo percorso di arte pubblica in largo Giuseppe Varetti, dove accanto ai murales dedicati ai grandi uomini della scienza sono stati aggiunti nuovi lavori dedicati alle scienziate, a partire dalla vita della fisica Laura Bassi. Infine, a Monza, il 12 e 13 novembre c’è la settima edizione di Il faro in una stanza, festival letterario dedicato a Virginia Woolf.