Singolare, femminile ♀ #049: All'ultimo sangue
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#049 - All'ultimo sangue
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Nella miniserie The Dropout su Disney+ la showrunner Elizabeth Meriwether mette in scena l'incredibile storia vera di Elizabeth Holmes, ma anche le complessità di affrontare da donna molti ambienti lavorativi e accademici, tra ambizione, sessismo e conformismo.
A dominare la corrente stagione seriale c'è un filone di storie vere tutte accomunate dall'avere per protagonisti miliardari o aspiranti tali che puntano al successo con un mix letale di megalomania e menzogna: storie di truffe, maschere e vuoti pneumatici ai danni di centinaia di migliaia di persone. Rientrano in questa tendenza Inventing Anna, sulla falsa ereditiera Anna Sorokin; WeCrashed, sui fondatori di WeWork Adam e Rebekah Neumann; e The Dropout, dedicato all'inventrice di Theranos (un sistema per ottenere analisi del sangue usando pochissime gocce prelevate dal dito) Elizabeth Holmes. Non si muove lontano da questi territori anche l'ottima miniserie Dopesick, in cui le menzogne e gli insabbiamenti della famiglia Sackler, detentrice di un impero farmaceutico, sono alla base del drammatico e letale diffondersi della dipendenza da ossicodone negli Stati Uniti. I ricchi, avidi, tendenti al sociopatico protagonisti di queste serie sono stati battezzati scamtrepreneur, termine che fonde scam (truffa) e entrepreneur (imprenditore), e uniscono la narrazione incalzante del true crime al commento spesso acuto di un'epoca in cui il vero valore spendibile è la reputazione, un'immagine illusoria costruita, in questi casi, quasi letteralmente sul nulla.
Il caso di The Dropout, la miniserie prodotta da Hulu e in Italia disponibile su Disney+, è particolarmente interessante per come intreccia la parabola tragicamente emblematica di Elizabeth Holmes, creatrice di un presunto dispositivo rivoluzionario per la diagnostica mai realmente funzionante né applicabile, con la realtà del divario di genere nella maggior parte dei campi professionali, usando un personaggio istantaneamente sgradevole per sottolineare storture e complessità di un intero sistema. Holmes, tutt'ora coinvolta nel processo per frode che potrebbe costarle 20 anni di carcere, proviene da una ricca e stimata famiglia, è stata la migliore studentessa della sua classe al liceo, viene ammessa a Stanford, ha davanti a sé non solo un futuro luminoso, ma il sostanziale dovere di costruire quel futuro e renderlo il più luminoso possibile.
Lungi dal semplificare, condannare sbrigativamente o giustificare le azioni di Holmes, la miniserie problematizza e scava nel vissuto della giovanissima imprenditrice proprio a partire dal suo ambiente di provenienza e dalla rete fittissima e inesorabile di aspettative che la circondano, fin da ragazzina. Determinata e stacanovista, Elizabeth si autodisciplina sino al punto dell'ascetismo pur di raggiungere gli obiettivi che si è prefissata, obiettivi che - nel corso degli episodi questa consapevolezza diviene sempre più chiara - non sono mai stati realmente suoi, ma l'hanno sempre circondata e influenzata tramite l'incessante sguardo degli altri. La regia della serie sottolinea questa pressione fin dalla prima inquadratura, che mostra Holmes durante la registrazione della deposizione a seguito della denuncia ricevuta nel 2017: l'occhio della telecamera che la fissa gelido, immortalando la sua incapacità di dare un senso alle azioni scellerate che hanno dato vita a una delle più clamorose truffe nella storia della medicina, è solo l'ultimo di una serie infinita di sguardi che hanno plasmato la sua vita. A partire dallo sguardo di una madre che vuole la felicità della figlia, ma che non riesce a scindere quella felicità dalla reputazione, dal buon nome, dall'apparenza e dal riflesso che la società restituisce: quando Elizabeth è vittima di violenza sessuale nel campus universitario, le suggerisce di rimuovere il trauma, di lasciarsi tutto alle spalle, di essere una donna a cui non è successo niente, forgiando un altro tassello nella personalità di una giovane incapace di accedere a se stessa. E ci sono gli sguardi di tutte le altre donne, dalla docente universitaria che liquida in malo modo la sua proposta per il primo bozzetto di Theranos a quelli delle coetanee più interessate di lei al divertimento e al sesso; gli sguardi degli uomini, non sempre capaci di vedere oltre il suo aspetto di ragazza canonicamente bella (le hanno dato retta «perché è bionda e carina» afferma irato, ma non del tutto nel torto, il dottor Richard Fuisz, l'uomo che si incaponì nel portare allo scoperto la truffa di Elizabeth); gli sguardi sempre più affollati della platea di persone che da Elizabeth e da Theranos si aspettano grandi cose, cose rivoluzionarie, e che finiscono per diventare più importanti della realtà dei fatti.
Come la serie racconta molto bene, il primo vero passo di falsificazione nel progetto viene compiuto in vista di una importante dimostrazione del funzionamento del dispositivo: la notte prima dell'evento la macchina si rivela totalmente fuori controllo e non c'è la possibilità che funzioni correttamente; Elizabeth sceglie di simulare, di fatto falsificandolo, il risultato delle analisi del sangue per la dimostrazione, pur di rispondere alle aspettative e alla marea di occhi che ora sono puntati di lei. Occhi che lei per prima cerca e desidera, mettendosi sempre più in vista, incastrandosi da sé in un sistema di visibilità ambita e opprimente, una gabbia infallibile come i trasparenti ma omertosi uffici di Theranos, pareti di vetro dove tutto è teoricamente in vista, ma il reale fallimento dell'azienda multimiliardaria è in realtà accuratamente sepolto sotto un sistema di controllo assillante. Elizabeth cerca lo sguardo e l'approvazione altrui in modo lacerante, fino a perdere completamente di vista se stessa e la realtà.
Questo smarrimento è veicolato anche dalla trasformazione fisica di Holmes: interpretata da un'Amanda Seyfried sensazionale, alla miglior prova della sua carriera, Elizabeth è un pesce fuor d'acqua sin da ragazzina. «Perché corre in quel modo?» si chiedono dagli spalti vedendola muoversi senza grazia in una gara di atletica giovanile, e il suo essere incapace di adattarsi alla maggioranza, di lasciarsi andare alle abitudini delle coetanee, di essere "normale" è parte della sua ossessiva motivazione a eccellere. La diversità di Elizabeth e le sue bizzarrie, perfettamente incarnate dalle movenze sgraziate e ingombranti del corpo attoriale di Seyfried e dal suo impressionante lavoro sul timbro vocale, non sono assimilabili a livello sociale, e la giovane donna finisce per incanalare la sua energia nella realizzazione di un progetto che le consenta di eccellere e di dimostrare il suo valore a dispetto dell'emarginazione: in questo senso il personaggio di Holmes diviene emblematico di un oscillamento tutto femminile tra il desiderio di realizzarsi e di essere visibile per ciò che si è realmente e il terrore di non essere accettate se non ci si adegua alle aspettative altrui. Così da studentessa stacanovista prova a trasformarsi in party girl, con risultati disastrosi; cerca di eccellere all'università ma poi decide di piantare in asso gli studi per diventare imprenditrice (dropout è proprio il termine che si usa per uno studente che abbandona anzitempo il percorso universitario); si presenta a importanti appuntamenti di lavoro spettinata e senza l'abbigliamento adeguato, ma poi decide di sopprimere la sua diversità e adottare una sorta di "divisa", lo chignon e il dolcevita nero con cui è stata immortalata innumerevoli volte. In questo senso la serie si presta a interessanti livelli di lettura; Elizabeth è in un certo senso la versione reale, tragica e anche terrificante della New Girl che era finora la più celebre creatura della showrunner Meriwether: eccentrica e "spostata", diversa e curiosa, affascinante a suo modo, Holmes è la dimostrazione che, al di fuori di una sitcom, a una donna non è concesso essere eccessivamente lontana dall'ortodossia, a differenza di quanto è permesso agli uomini.
Un rapido confronto con la succitata figura di Adam Neumann in WeCrashed parla chiaro: laddove il fondatore di WeWork era amato e osannato anche per il suo gusto eccentrico nel vestire, per la sua abitudine di presentarsi scalzo e di porsi come carismatico pazzoide, Elizabeth Holmes per finire sulle copertine di "Forbes" e "TIME" deve conformarsi, smussare gli angoli, normalizzarsi. Seppellirsi nell'uniforme di total black e capelli raccolti che le permette di assumere quella parvenza di professionalità che ci si aspetta da una donna al comando; una parvenza che, nel suo caso, è tutto ciò che ha, mancandole interamente la sostanza. Conformarsi o non esistere è una scelta iniqua, e la forza di The Dropout è nel raccontare questa realtà indipendentemente dalla mancanza di valore della carriera imprenditoriale di Holmes; per una Elizabeth che ha scalato la vetta rivelandosi frode totale ci sono però migliaia di donne con autentica professionalità da offrire che restano incagliate nelle medesime maglie.
E proprio su questo aspetto la miniserie offre un altro sguardo obliquo: come affermano i cartelli conclusivi, affermarsi nell'imprenditoria delle startup è diventato ancora più difficile per le donne dopo il clamoroso caso di Elizabeth Holmes. La misoginia e il sessismo che informano quell'ambiente sono stati solo acuiti dalla meteora disastrosa di Theranos, e la narrazione di The Dropout non manca di sottolineare con cupissima ironia che proprio quel sentimento maschilista ha, in fondo, condotto al legittimo e auspicabile svelamento delle malefatte di Holmes. A muovere le accuse contro l'azienda di Elizabeth è stato, infatti, il personaggio interpretato da William H. Macy, l'inventore e imprenditore Richard Fuisz, animato da un'ira e da un'aggressività che hanno, certo, pure qualche base di etica e di desiderio di giustizia per un prossimo ingannato, ma che indubbiamente affondano le radici nel fastidio provocato dal successo e dall'autonomia di una giovane donna (presunta) brillante, capace di diventare la più giovane miliardaria d'America e di affermarsi in un campo dominato dai maschi. La parabola di Elizabeth Holmes, oltre e al di là della criminalità delle sue scelte, è dunque quella di un femminile incastrato in logiche senza apparente via di scampo, sottoposto allo scrutinio di una società che non attende altro che il momento per coglierla in fallo; un esempio che porta su scala globale e miliardaria lo stesso tipo di pressioni e di aut aut che molte donne affrontano quotidianamente in ambito professionale. Quella di The Dropout è una narrazione che, senza condonare né giustificare gli atti incoscienti di Elizabeth Holmes, mette davanti allo spettatore un paradosso ineluttabile: se Holmes non avesse ingannato tutti, forse negli ultimi cinque anni avremmo avuto molte più startup e invenzioni create da giovani donne; ma se non ce ne fossero, da sempre, state così poche, forse Holmes non avrebbe avuto il patologico bisogno di eccellere sino a falsificare la sua stessa esistenza. ILARIA FEOLE
Da pochi giorni si è conclusa definitivamente, su Disney+, la bellissima dramedy creata (insieme a Louis C.K.) e interpretata da Pamela Adlon, Better Things. Cinque stagioni da non perdere, con ritratti femminili autentici, esilaranti, struggenti. Vi riproponiamo la recensione della prima annata, da Film Tv n° 40/2021.
Better Things
Dopo un cold open che in pochi secondi ci precipita in una delle mille situazioni surreali della vita di una madre single di tre figlie, partono le note e le prime struggenti parole di Mother di John Lennon, forse la cosa più dolce mai scritta sul più fallimentare dei rapporti genitore/figlio. Fin dalla sigla sappiamo già che Better Things non è un ritratto idilliaco della maternità, e che quelle parole vergate in verde fluorescente alla fine del pilota («dedicato alle mie figlie») hanno il sapore di una gratitudine venata di onesta esasperazione: Sam Fox, attrice cinquantenne con un passato nelle sitcom anni 80 e un presente di ingaggi poco memorabili, fa la madre a tempo pieno per Max (16 anni), Frankie (12) e Duke (8), con tutte le gioie e i dolori che tre meravigliose, intransigenti, insopportabili fanciulle in crescita comportano. Pragmatica e schietta, autoironica e incapace di perdersi in sentimentalismi o ipocrisie, Sam è l’alter ego trasparente di Pamela Adlon, creatrice, interprete, sceneggiatrice e occasionalmente regista dello show, pure lei volto televisivo da decenni; ha esordito adolescente in L’albero delle mele, ha doppiato cartoon col suo peculiare timbro graffiato e da noi è più nota per i ruoli in Californication e Louie. Di quest’ultima Better Things è parente stretta: amica e sodale di Louis C.K., Adlon ha creato la sua serie autobiografica a quattro mani con il geniale e controverso stand-up comedian, concependola quasi come una versione al femminile (e sulla costa opposta: non New York, ma Los Angeles) di Louie, di cui, soprattutto in questa prima stagione (che giunge in Italia con cinque anni di ritardo e quando ormai C.K. è stato licenziato da FX in seguito a plurime accuse di molestie sessuali), si ritrovano l’ironia cupa e l’andamento jazzistico della narrazione, che sutura con effetto dissonante (ora esilarante, ora totalmente spiazzante) lacerti casuali della quotidianità di Sam/Pamela. Come in Louie, il ritratto impietoso e spassoso dell’ambiente di lavoro (innumerevoli set cinematografici e televisivi dove si accumulano situazioni nonsense) si alterna a quello di una vita privata in cui l’incrollabile senso pratico di Sam è messo alla prova da amiche in crisi, da uomini ebbri del proprio ego, da colleghi svaporati (l’immancabile David Duchovny nei panni di se stesso) e soprattutto da guai familiari dove alle tre succitate eredi si aggiunge l’anziana madre (interpretata dalla grande attrice britannica Celia Imrie), che vive nella casa accanto e si produce in spettacolari disastri senili. Ma a rendere Better Things davvero unica (sempre di più nel corso delle annate, che nel frattempo si accingono a diventare cinque) è la volontà di mettere in scena un femminile autentico e senza filtri, che piazza al centro dell’inquadratura un tipo di donna (over 40, dalla bellezza e sensualità non canoniche e dall’attitudine ruvida e non accomodante) solitamente invisibile o relegato a spalla (Adlon ne sa qualcosa) e fa del suo corpo e del suo sguardo la misura della narrazione, ribaltando con nonchalance cliché e pigrizie intellettuali. Di cose migliori, in tv, non se ne sono viste tante.
ILARIA FEOLE
A Inventing Anna e al filone seriale degli scamtrepreneur è dedicato questo approfondimento di Link - Idee per la tv, a cura di Lorenzo Peroni.
Escono in sala questa settimana due begli esordi registici italiani al femminile: Settembre di Giulia Louise Steigerwalt e Tapirulàn di Claudia Gerini. Alle registe emergenti abbiamo dedicato un servizio sul numero di Film Tv in edicola, mettendo in fila 10 nomi di autrici da tenere d'occhio.
Parte il 10 maggio a Milano Sguardi altrove, il festival dedicato alla regia femminile per la direzione artistica di Patrizia Rappazzo, con Drusilla Foer come madrina, omaggi a Lina Wertmüller e Letizia Battaglia, l'anteprima del doc Phoenix Rising (il doc sulle accuse di abuso rivolte da Evan Rachel Wood a Marilyn Manson) e un programma denso di eventi e proiezioni.
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