Singolare, femminile ♀ #060: Baby Summer Revolution
Ultima newsletter prima delle meritate ferie d’agosto! Ma vi lasciamo con una lista di consigli e soprattutto con l’omaggio a uno dei cult estivi per eccellenza, Dirty Dancing: usciva 35 anni fa, dopo una lavorazione disordinata e nello scetticismo generale, per poi diventare un imprescindibile successo multigenerazionale. Riguardatelo oggi, per scoprirlo più moderno di quel che ricordate.
È altamente improbabile che vi capiti di trovare Dirty Dancing in una top 5 (o anche in una top 50) dei migliori film di tutti i tempi. Eppure la probabilità improvvisamente aumenta, e molto, se provate a fare una classifica dei film più amati. O anche solo dei più visti: quando uscì al cinema, il 16 agosto 1987 (35 anni fa), finì all’11° posto degli incassi globali, sfondando negli Stati Uniti il muro di dieci milioni di spettatori nei primi dieci giorni di programmazione, e andò benissimo anche all’estero, incassando in totale 170 milioni di dollari (il budget iniziale era di soli 5 milioni, decisamente meno della media di un film medio dell’epoca). Uscito in home video, nel 1988 diventò immediatamente il film più noleggiato e fu il primo titolo della storia a vendere un milione di copie VHS. Secondo Wikipedia, ancora nel 2007, a vent’anni dall’uscita, di Dirty Dancing sono stati venduti dieci milioni di dvd (un’ironica e felice chiusura del cerchio, visto che a finanziare il film, rifiutato da uno studio dopo l’altro, era stata una casa di produzione home video alla primissima esperienza col cinema). L’album che raccoglie le canzoni della colonna sonora – tra cui la vincitrice dell’Oscar (I’ve Had) The Time of My Life – è ancora uno dei dischi più venduti di tutti i tempi. I frequentissimi passaggi televisivi, che non accennano a rallentare con gli anni, rendono quasi impossibile, per chiunque, non aver mai visto almeno un po’ di Dirty Dancing, e alcune battute («Nessuno può mettere Baby in un angolo», «Ho portato un cocomero!»…) e alcune immagini (Baby innalzata da Johnny all’apice della coreografia, lei che ride per il solletico durante le prove…) sono impresse indelebilmente nell’immaginario collettivo.
Soprattutto, dicevamo, Dirty Dancing è amatissimo. Sempre Wikipedia c’informa che è stato definito più volte «lo Star Wars delle femmine», anche se a livello tematico è naturalmente più vicino ad altri cult anni 80 come I Goonies e Stand by Me (che, forse anche perché “dei maschi”, han sempre goduto di una reputazione migliore): racconti di un’estate magica e irripetibile, quella che segna il passaggio all’età adulta, quella che cambia irrimediabilmente tutto, per sempre. Con Stand by Me (e Ritorno al futuro, o It…) condivide anche lo sfruttamento del ciclo nostalgico generazionale che negli anni 80 guarda agli anni 50 e 60, cioè il periodo in cui gli spettatori adulti dell’epoca erano bambini o ragazzini: Dirty Dancing è ambientato nel 1963, «prima che uccidessero Kennedy, prima dei Beatles», come spiega la voce narrante di Baby nell’incipit, «e soprattutto quando non avrei mai pensato che al mondo potesse esistere un altro uomo oltre a mio padre». I punti di riferimento storici citati da Baby – e dunque dalla sceneggiatrice Eleanor Bergstein, che s’ispirò alla propria adolescenza e alle vacanze nelle Catskill con i suoi genitori – non ci sembrano scelti a caso: come a far coincidere privato e collettivo, il coming of age della protagonista arriva subito prima di quella che è stata poi cristallizzata come la definitiva perdita d’innocenza di una nazione (l’omicidio di JFK) e di uno dei primi fenomeni di fandom a grandissima prevalenza femminile (la Beatlemania) capaci di sovrapporre la scoperta del desiderio alla scoperta di sé (un discorso di cui avevamo parlato anche a proposito di Red, nella newsletter n. 46).
L’ambientazione nel 1963 non serve solo uno scopo nostalgico, ma è anche il contesto della sottotrama principale del film, uno degli aspetti che rende – ancora oggi, o meglio: soprattutto oggi – Dirty Dancing un film sorprendente, e più o meno consapevolmente militante: l’aborto clandestino di Penny. Bergstein ha spiegato più volte di averci appositamente costruito sopra il film, così che nessuno potesse pensare di eliminare quella linea narrativa perché “controversa” (la richiesta arrivò, puntuale, da almeno uno sponsor, che infatti poi ritirò i finanziamenti): è per aiutare Penny, rimasta incinta dell’odioso Robbie (rampollo di buona famiglia che fa il cameriere da Kellerman per intessere relazioni sociali con l’abbiente clientela, e che – certamente non per caso – legge Ayn Rand), che Baby prima tradisce la fiducia del padre (chiedendogli i soldi per pagare il “medico” ma tenendogli nascosto il motivo) e poi, soprattutto, impara la coreografia dell’esibizione che Johnny dovrebbe eseguire insieme a Penny proprio la sera dell’operazione, accendendo così sia la parabola “sportiva” (l’allenamento, la fatica, la sconfitta, il trionfo) sia l’intensa vicenda romantica. «Non si può togliere l’aborto di Penny», dice Bergstein: tutte le tessere del domino narrativo cadrebbero, una dopo l’altra. Ma è anche interessante notare che, durante i test screening prima dell’uscita del film, il 39% degli spettatori sostenne di non essersi nemmeno accorto che la sottotrama di Penny riguardasse un aborto clandestino: un dato che probabilmente all’epoca rassicurò i produttori, ma che col senno di poi certifica l’organicità, la verosimiglianza e la naturalezza con cui questo fatto viene raccontato. La scelta di Penny – che è sua, decisa, inevitabile e irremovibile – non viene mai colpevolizzata, né dal film né dai suoi personaggi: quel che Dirty Dancing si preoccupa di mostrare, con la semplicità di qualcosa che per tutti è derubricato a “normalità”, è un sistema di operazioni clandestine, noto a chiunque e dato per scontato, che mette facilmente in pericolo la salute, se non la sopravvivenza, delle donne.
Dirty Dancing è un film musicale e sentimentale che – non mancano di ricordarlo i suoi detrattori - non si risparmia cliché: come nella gran parte dei film di danza, alla base c’è un conflitto sociale che si esplicita durante le prove e poi si ricompone sul palcoscenico, un Romeo e Giulietta di classe sempre efficacissimo nel fornire benzina a storie d’amore impossibili (è la stessa dinamica di Titanic, che sarebbe uscito esattamente dieci anni dopo, diventando uno dei massimi successi della storia del cinema ma faticando pure lui a “farsi prendere sul serio” da molti, a causa della fondamentale componente romantica). Ma, di nuovo, in Dirty Dancing anche la questione di classe è più di un mero pretesto di sceneggiatura: dall’incipit, citato in precedenza, abbiamo omesso una frase, che in originale suona «quando non vedevo l’ora di unirmi ai Peace Corp» e che in italiano è stata tradotta con «quando credevo nell’impegno civile». Baby è figlia di un ricco medico progressista, che nella prima parte del film la preferisce sfacciatamente alla sorella maggiore, apparentemente frivola, più “canonicamente femminile”, interessata solo alla moda e ai ragazzi. Baby è intelligente, informata, appassionata, si preoccupa delle ingiustizie del mondo, vuole fare volontariato, studiare per ottenere un lavoro importante. La storia d’amore con il ballerino Johnny, che lavora come istruttore di danza e intrattenitore allo stabilimento Kellerman (fittizio nel nome, ma precisissimo nella ricostruzione dei luoghi di villeggiatura della cosiddetta “Borsch Belt” sulle montagne Catskill, frequentatissima soprattutto negli anni 50 e 60 dalle élite ebree newyorkesi – la vediamo anche in La fantastica signora Maisel), porta Baby a confrontarsi direttamente con un universo fino a quel momento sconosciuto, significativamente separato dal suo anche nello spazio: i modesti quartieri in cui sono alloggiati i lavoratori di Kellerman sono nascosti alla vista dei facoltosi ospiti, collegati da un vialetto e da una scala, quella che Baby percorre molte volte durante i giorni di prove della coreografia (anche le riprese delle due zone si svolsero addirittura in due stati diversi, in Virginia e in North Carolina: all’epoca di realizzazione di Dirty Dancing, la “Borsch Belt” era già da tempo in decadenza, e la crew del film cercò le sue location lontano dalle Catskill: lo sdoppiamento dei set contribuisce ancor di più a dividere i due mondi/classi sociali). E, a differenza dello staff di camerieri composto da ragazzi “perbene” (come il sopra citato Robbie), a intrattenitori e inservienti working class è fatto esplicito divieto di “mescolarsi” con i clienti, pena il licenziamento in tronco.
Ed è in grandissima parte attorno alla questione di classe che si consuma il percorso di crescita di Baby, la presa di coscienza che la traghetta verso l’età adulta (sottolineata, platealmente, nel riprendersi il nome al posto del soprannome: all’inizio è lei stessa a dire «tutti mi chiamavano ancora Baby e non mi dispiaceva affatto», mentre «Miss Frances Houseman» la chiama significativamente Johnny quando, nel finale, la invita a essere finalmente se stessa, davanti a tutti, sul palco). Ed è lì che avviene il necessario e definitivo strappo con la figura paterna: non è un semplice atto di ribellione giovanile, quello di Baby, ma un’accusa precisa d’ipocrisia classista, dichiarata tra lacrime insieme di scusa e d’orgoglio («Mi spiace di aver mentito, papà, ma l’hai fatto anche tu: mi hai sempre detto che siamo tutti uguali e con gli stessi diritti, ma ti riferivi a quelli come te»). È, in fondo, una messa alla prova dei suoi ideali: la determinazione ad aiutare gli altri (che non necessita per forza l’arruolamento nei Peace Corp), a infischiarsene della reputazione e delle convenzioni sociali, a rendere autentico e adulto (dunque rischioso) un impegno che nell’adolescenza era solo teorico. Contro il sistema, Baby e Johnny si schiantano, ed è anche quella una perdita d’innocenza. «Non si può vincere contro di loro» è l’amara conclusione di Baby in quello che potrebbe essere il triste finale della storia, se non fossimo in un film: il ritorno di Johnny, il trionfo finale, il simbolico “abbattimento” delle barriere sociali con la working class che avanza ballando dalle ultime file, invadendo il confortevole spazio dei ricchi, ha il sapore speranzoso, vagamente onirico ma esaltante dell’utopia.
E poi, sì, il coming of age di Baby è anche, e soprattutto, un risveglio sessuale. Di certo anche il titolo ammiccante (con l’ancor più pruriginoso sottotitolo italiano “Balli proibiti”) ha contribuito, in misura quasi uguale, al successo del film e alla sua sottovalutazione critica e reputazionale. Eppure non c’è davvero nulla di pruriginoso, in Dirty Dancing: i “balli sconci” del titolo sono l’esplosione di vitale sensualità ed energia giovanile dei lavoratori dello stabilimento, direttamente collegata alla diffusione del rock’n’roll, e in netta contrapposizione all’impomatato e sanificato aplomb vecchio stile di Kellerman (e infatti, alla fine, è il patriarca Kellerman stesso a riconoscere l’incombente fine di un mondo al passato). Qualcosa che Baby non ha mai visto prima, e che nella prima scena in cui appare assume anche quella sfumatura d’esagerazione un po’ distorta che restituisce la sensazione adolescente di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo, di adulto, di “proibito”. Quando Baby impara a ballare e si allena insieme a Johnny (e, in molti momenti, anche a Penny: pure il rapporto tra le due, sebbene appena accennato, è per diversi aspetti inedito), la danza corrisponde alla presa di consapevolezza del proprio corpo, nello spazio e in relazione agli altri, e quindi, infine, del proprio desiderio. Se è la storia di una seduzione, è la storia di una seduzione reciproca, e in cui è Baby a prendere l’iniziativa, a rassicurare Johnny, a esprimere indiscutibilmente la volontà di fare sesso con lui. E se in una scena successiva, sarà Johnny a confessare un passato anche sessualmente traumatico (in cui, ancora una volta, il tema s’intreccia con quello di classe), il sesso in Dirty Dancing è inquadrato sempre in una luce positiva, gioiosa, liberatoria. È un romanzo di formazione che non teme di dire quanto la scoperta del sesso sia cruciale per la crescita di molte persone.
Se, per rubare la famosissima frase di Calvino, «un classico non finisce mai di dire quel che ha da dire», Dirty Dancing – nato da un copione autobiografico rifiutato all’infinito, filmato in appena 40 giorni a temperature estreme (caldissime o freddissime), con un budget risicato e una coppia di protagonisti che sul set non andava granché d’accordo, e di cui un celebre produttore disse, dopo aver visto il primo montaggio, «bruciate i negativi e incassate l’assicurazione» – può serenamente far parte della categoria. Nel bene, e anche nel “male”: è un film del 1987, ambientato nel 1963, i cui temi sono più rilevanti che mai nel 2022, mentre la Corte suprema cancella il diritto all’aborto, il divario di classe diventa giorno dopo giorno una voragine sempre più incolmabile e la possibilità delle donne di vivere liberamente la propria sessualità è costantemente messa in discussione. 35 anni dopo, però, nessuno può più mettere Dirty Dancing in un angolo: è pronto a re-visioni instancabili, al sapore di nostalgia e rivoluzione. ALICE CUCCHETTI
Consigli per l’estate
Singolare femminile va in vacanza per quattro settimane, ci rivedremo il 31 agosto pronte per la Mostra del cinema di Venezia (nel cui Concorso, quest’anno, ci sono cinque registe: Alice Diop con Saint Omer, Joanna Hogg con The Eternal Daughter, Susanna Nicchiarelli con Chiara, Laura Poitras con All the Beauty and the Bloodshed e Rebecca Zlotowski con Les enfants des autres). Vi lasciamo però con una manciata di consigli, per passare il tempo d’agosto, ovunque voi siate. Dopo aver rivisto Dirty Dancing, naturalmente.
I consigli di Ilaria Feole
Un film da recuperare
Alice di Jan Švankmajer (on demand su Prime Video)
Virginia Woolf disse che «i due libri di Alice non sono libri per bambini; sono gli unici libri in cui torniamo bambini. Trovare tutto così strano che niente è più sorprendente; essere spietati, essere senza cuore, eppure così sensibili che basta un’ombra a oscurare il mondo. Questo è essere Alice». La versione in tecnica mista, live action e stop motion, del genio ceco del surrealismo Švankmajer rende giustizia al lato oscuro dell’immortale opera di Carroll, trasformandolo in un viaggio cupo e sensuoso, un coming of age sui generis, popolato di invenzioni, fantasmagorie e incubi, anche grazie alle collaborazione della consorte, poeta e pittrice surrealista Eva Dvořáková.
Una serie da seguire
Irma Vep creata da Olivier Assayas (su Sky, NOW dal 3 agosto 2022)
Assayas riprende il suo film del 1996, memorabile omaggio alla divina Maggie Cheung, e gli cambia pelle, cucendolo stavolta addosso all'attrice in crisi Mira (Alicia Vikander, una gioia ritrovarla sullo schermo, sempre più brava), chiamata a essere protagonista del metafilm remake di I vampiri. Mira/Irma/Musidora, fantasma e proiezione, donna imprendibile e non etichettabile, diva e schiva, bisessuale, razionale e passionale, è uno studio del femminile acuto e avvolgente, in una miniserie che è anche fra le cose più ironiche e godibili di questa estate seriale.
Una serie di cui fare binge watching
Enlightened creata da Laura Dern e Mike White (SkyGO, NOW)
Se il ritorno in ufficio dopo la pausa estiva vi sgomenta, consolatevi con le vicende tragicomiche di Amy Jellicoe, impiegata di una grande azienda di ritorno da un pesante burnout e decisa a diventare “un agente del cambiamento”. La straordinaria Laura Dern dà vita a un personaggio disperato eppure vitalissimo, emblema di una società che ha smarrito le coordinate per navigare il mondo del lavoro; uno spaccato urticante dell’ipocrisia e del cinismo in cui ci muoviamo quotidianamente (oggi più che mai: la serie risale a dieci anni fa ed è fin troppo profetica).
Un libro - anzi due - da leggere in un pomeriggio
Virginia Woolf, Sul cinema, Mimesis
A proposito della succitata Woolf: in questo libro assai tascabile, le riflessioni della gigantessa della letteratura intorno a un’arte di cui era quasi coetanea, la settima. Ispirato dalla visione di Il gabinetto del dottor Caligari, nel 1926, il saggio racconta di un’esperienza entusiasmante, ma vede anche nell’allora giovane cinema un “parassita” delle altre arti: uno sguardo inedito da una delle grandi menti del Novecento.
Katherine Mansfield, Il pino, i passeri, io e te, Elliot
Di Woolf amica, collega e un po’ rivale, la neozelandese Mansfield è stata una tra le penne più originali di inizio Novecento, autrice di folgoranti racconti pieni di acume e sguardi obliqui. Di recente pubblicazione, questa piccola raccolta è dedicata ai suoi primi lavori, i racconti “giovanili” (ovvero i primi di una vita troppo breve: Mansfield morì di tubercolosi a soli 34 anni), da sorbire per riscoprire un’autrice unica, amatissima, tra gli altri, dal maestro della nouvelle vague Alain Resnais.
Un libro illustrato da sfogliare
Marion Fayolle, L’uomo a pezzi, Gallucci
Cantrice ironica dei rapporti di coppia, Fayolle disegna nelle sue tavole dense di ironia le contraddizioni, i vizi e i tabù del sentimento e del sesso, trasformando piccoli dettagli di vita quotidiana in suggestive allegorie. Il corpo maschile e quello femminile sono trasfigurati, sezionati, riconfigurati in prolungamenti di idee, oggetti, tensioni. Un piccolo manuale d’amore che trova nella precisione delle sue immagini surreali un modo inedito di dire sensazioni ineffabili ma universali.
I consigli di Alice Cucchetti
Cinema on the road
American Honey di Andrea Arnold (su Prime Video) e Visages Villages di Agnès Varda e JR (in dvd)
Se quella voce che vi sussurra all’orecchio «via via, vieni via di qua» la sentite tutto l’anno, saltate sui furgoncini protagonisti di questi due film semplicemente bellissimi, verso l’America di Andrea Arnold e delle sue mag crew (ragazzini senzatetto che girano il paese cercando di vendere abbonamenti a riviste) o verso la Francia rurale o costiera, ascoltata con empatia e ridisegnata con amore da Varda e dall’artista JR. Film, entrambi, frutto di una giustapposizione autentica e poetica tra realtà e finzione, capaci di scovare meraviglia in luoghi disperati, entrambi frammenti vivi e pulsanti di viaggi che sembrano destinati a non fermarsi mai.
Un film da scoprire
Cameraperson di Kirsten Johnson (in dvd estero)
Se amate i diari di viaggio, se siete quel tipo di persone che fotografano, riprendono, registrano tutto: questo inedito memoir della direttrice della fotografia Johnson, oltre vent’anni di cinema documentario alle spalle, è un puzzle stupefacente di quelli che, solo all’apparenza, sono scarti di riprese. Ma che in realtà illuminano i margini, scovano significati, c’interrogano sul senso dei nostri gesti, sulla nostra presenza nel mondo, sulla responsabilità delle immagini che ogni giorno catturiamo e consumiamo.
Una novità seriale
Abbott Elementary, creata da Quinta Brunson (su Disney+)
Se non vedete l’ora di tornare a scuola, ma anche se non vedevate l’ora di andarvene: la commedia mockumentary creata da Brunson è esilarante come le migliori sitcom e insieme illuminante – come le migliori sitcom, in effetti. Ambientata in una scuola elementare pubblica e sottofinanziata di Chicago, segue in ogni episodio i tragicomici e inevitabilmente fallimentari tentativi della protagonista di migliorare le cose. Rivedersi è facilissimo, che si frequentino ancora istituiti scolastici oppure no. E anche capire che la resistenza, come sempre, è l’unica soluzione.
Un binge watching in riva al mare
Grace and Frankie di Marta Kauffman (su Netflix)
Sognate una vita in vacanza? Quella di Grace e Frankie, interpretate dalle divine Jane Fonda e Lily Tomlin, ci assomiglia – abitano in una bellissima casa su una spiaggia californiana – ma il via all’avventura lo dà una scoperta sconcertante: i rispettivi mariti delle due (gli altrettanto splendidi Martin Sheen e Sam Waterston) sono amanti da decenni e ora hanno deciso di fare coming out e sposarsi. Si è conclusa quest’anno una delle più longeve serie Netflix, che con passo leggero e divertente racconta una commovente storia di sorellanza e di emancipazione – oltre a ricordarci che le avventure non terminano con la terza età.
Un romanzo da recuperare
I figli del diluvio di Lydia Millet, NN edizioni
Una voce narrante spesso collettiva (alla Il giardino delle vergini suicide, ma qui è sempre chiaro che il punto di vista è femminile), una vacanza in riva al mare in cui i figli – i bambini, gli adolescenti – e gli adulti sembrano esistere presto in due mondi distinti, sempre più inconciliabili. Poi arriva la tempesta, una tempesta senza fine, e spazza via tutto. A volte tocca vette metaforiche allucinate alla madre!, altre ha il piglio appassionante e molto pratico di un’avventura per ragazzi, in ogni caso non perde mai la potenza quasi cinematografica: un titolo imperdibile della narrativa sul cambiamento climatico, e non solo.