Singolare, femminile ♀ #149: Brat Girl Venice
La nostra consueta carrellata post Venezia illumina i titoli e i nomi al femminile che hanno segnato questa edizione della Mostra del cinema, dai premiati April e Vermiglio alla vincitrice della Coppa Volpi Nicole Kidman, passando per i lavori inetichettabili di Marie Losier e Laura Citarella.
Nell'addentrarci in questo piccolo percorso attraverso i nomi e i volti di donna che hanno segnato l'81ª Mostra del cinema di Venezia ci piace tenere al nostro fianco un aforisma pronunciato in uno dei film che abbiamo più amato di questa edizione (parca di colpi di fulmine eppure piena di lacerti di cinema stimolante e di riflessioni urgenti): è L'attachement di Carine Tardieu, che a nostro parere non avrebbe sfigurato in Concorso, e in cui la protagonista Valeria Bruni Tedeschi, proprietaria di una libreria femminista, a un certo punto ribatte a una battuta sarcastica dicendo che «non esistono le persone femministe. Esistono gli stronzi e le persone per bene». Una battuta che esprime una visione del mondo che sentiamo affine a quella di questa newsletter, e che ci fa da sponda per scandagliare i titoli - non solo girati da donne - che quest'anno in Laguna hanno dato voce, anche in modo problematico, alla rappresentazione del femminile.
Siamo fatte così
E no, non intendiamo «dolcemente complicate», ma piuttosto "fatte così" in senso anatomico, perché tra i film più interessanti di questa Venezia ci sono quelli che hanno messo al centro del discorso e dell'inquadratura il corpo della donna, il desiderio, l'invecchiamento, la fertilità, la sessualità. A partire dal tanto chiacchierato Babygirl, scandalo annunciato (e frainteso) che in molti hanno - ingiustamente - trovato risibile, e che in effetti vuole essere anche ironico, smantellando i cliché del thriller erotico per dar vita, piuttosto, a una vera e propria satira erotica, una commedia romantica dai risvolti sadomaso, una riflessione sui rapporti di potere, sul #MeToo, sul ruolo delle donne che si gioca tutta sul corpo divistico, esposto e mai così vulnerabile, della magnifica Nicole Kidman, che per il ruolo ha vinto la Coppa Volpi (senza poterla ritirare, perché proprio quel giorno è stata colpita dal terribile lutto della morte della madre).
Nel film Kidman è Romy, una CEO di successo afflitta dal non aver mai raggiunto l'orgasmo col proprio (pur fantastico, innamorato, brillante) marito, perché nella loro relazione non c'è spazio per le fantasie sessuali di dominazione e umiliazione che la donna vorrebbe esperire. Riesce ad attuarle con un giovane stagista della sua azienda, con tutti i rischi che questa relazione clandestina comporta, scoprendo finalmente le potenzialità del suo desiderio e i confini del suo piacere, ma mettendo in pericolo la sua vita privata e la sua carriera. La carne al fuoco è tanta, e non solo in senso letterale (le scene erotiche sono relativamente "caste", ma non è questo il punto del film): Halina Reijn, già autrice di una rilettura sarcastica dello slasher con Bodies Bodies Bodies, qui costruisce intorno al corpo e all'aura di Kidman un discorso molto stratificato sulle gabbie sociali che stringono le esistenze delle donne, a partire dal dover scegliere tra essere se stessa e avere successo, tra piacere e carriera, tra godimento e famiglia; affrontando anche i pregiudizi che circondano il desiderio femminile, messi alla berlina in una scena chiave del film, dove i rapporti sadomasochistici vengono etichettate come mera «fantasia maschile», e il personaggio di Harris Dickinson (esponente di una generazione che finalmente inizia a liberarsi da tante sovrastrutture circa il sesso) sottolinea sommessamente che «non è più così, la vostra è un'idea datata della sessualità».
Nel film è la stessa Romy, prima ancora di suo marito e della sua cerchia, a considerarsi «malata» per il fatto di aver voglia di sperimentare il sesso BDSM; sono questioni culturali radicate a costringerla a mantenere il controllo del proprio corpo, a non lasciarlo andare sotto alcun punto di vista, dall'ossessione della forma fisica (il trucco esaspera i lineamenti chirurgicamente corretti di Kidman, e la diva si mette in gioco anche in una scena dove si fa infiltrare il botox) alla necessità di non mostrare le proprie "perversioni", pena la perdita di tutto ciò per cui si è lottato. È solo dopo una lunga serie di sessioni, sia erotiche sia di impietosi confronti con le persone che ama e con quelle che la odiano, che Romy riesce finalmente ad accettare le parti di sé che lei per prima, ma pure la sua famiglia e la sua azienda, non riuscivano a concepire: in questo senso Babygirl, lungi dall'essere un giochino pruriginoso e provocatorio, mette in campo questioni cruciali sulla percezione della donna, soprattutto della donna "di potere" nella società contemporanea, e lo fa con lucidità e ironia tagliente.
Gira intorno al desiderio represso, in modi assai differenti, anche il bellissimo Vermiglio di Maura Delpero, in sala dal 19 settembre e insignito del Leone d’argento dalla giuria presieduta dalla divina Isabelle Huppert: ambientato nel paesino montano da cui prende il titolo, è il ritratto di una famiglia numerosa, capitanata da un austero e colto insegnante, che nei mesi della fine del secondo conflitto mondiale si ritrova a fare i conti coi propri segreti e con le proprie voglie represse. La sorella maggiore scopre il sesso con un soldatino siciliano rimasto bloccato in Trentino; quella adolescente si masturba dietro l'armadio innescando una lunga serie di penitenze per espiare il peccato; la più piccola rivela inconsapevolmente gli album pornografici del severo babbo, e la regia di Delpero, aggirando ogni automatismo da film storico festivaliero, scivola con grazia da un punto di vista all'altro, permettendoci di vedere il mondo con gli occhi di ciascuno dei personaggi. Sino a un colpo di scena finale che allunga lo sguardo dalla cima al fondo dello Stivale, raccontando di un'Italia appena liberata ma tutt'altro che unita, nel segno di un dolore tutto femminile.
L'altra regista inserita nel palmarès è la georgiana Dea Kulumbegashvili, già autrice di Beginning e a Venezia con l'opera seconda April (Premio speciale della giuria), film dallo stile estremamente rigoroso (formato 4:3, lunghissime inquadrature quasi fisse o con lentissimi movimenti di macchina) che racconta un mese nella vita dell'ostetrica e ginecologa Nina, la cui carriera è a rischio dopo un parto che si è concluso con un bimbo nato morto. Nina ha molti segreti, e il più pericoloso è che esercita clandestinamente nei villaggi nei pressi dell'ospedale, aiutando le donne a interrompere gravidanze indesiderate, toccando con mano le esistenze oppresse di ragazze date in moglie giovanissime, di spose cui viene impedito qualsiasi metodo anticoncenzionale, di donne terrorizzate, abusate, impossibilitate a far sentire la propria voce. Nina ha anche un mostro dentro di sé, una creatura indefinita e vorace, che di notte la spinge a vagabondare in auto per cercare fugaci incontri sessuali con uomini sconosciuti; un letterale "mostruoso femminile" che occupa lo schermo con la sua irregolare anormalità. A pochi anni dalla vittoria del Leone d'oro di La scelta di Anne (sugli stessi temi, anche se ambientato nella Francia anni 60 e non nell'odierna Georgia, vedi newsletter n. 19), però, il dispositivo soffocante edificato da Kulumbegashvili ci chiede di interrogarci sui limiti di questa rappresentazione, che ha una ormai lunga tradizione (da 4 mesi 3 settimane 2 giorni di Mungiu alla succitata Diwan): una lunga sequenza incentrata sull'aborto praticato a una giovane donna sordomuta presenta uno studiatissimo, estenuato fuoricampo che anziché normalizzare l'operazione la rende invisibile, dunque indicibile, pericolosa, anch'essa mostruosa. Un equilibrio complesso che rischia però di demonizzare alcuni aspetti della vita riproduttiva della donna, e per il quale consigliamo di tornare al cruciale doc di Claire Simon Our Body (ne avevamo parlato nella newsletter n. 118).
Concludiamo questo piccolo focus sui film che hanno messo al centro il corpo della donna con due prodotti di segno opposto: in Concorso l’ultra confezionato biopic Diva futura di Giulia Steigerwalt, co-prodotto da Netflix, pop, colorato e ironico, e alle Giornate degli autori l’abrasivo e spontaneo doc di Marie Losier Peaches Goes Bananas. Il primo è un film sorridente e un pizzico superficiale che racconta la fulminante carriera di Riccardo Schicchi e delle pornodive da lui letteralmente create: Moana Pozzi, Ilona Staller, Eva Henger, ripercorrendo la costruzione di un immaginario erotico e un'idea spesso fraintesa, ma tutto sommato genuina, di sensualità giocosa e devota al corpo femminile. Il film pecca di ingenuità e probabilmente di generosità nel ritratto femminista e fanciullesco di Schicchi, ma è comunque interessante per come apre il discorso sulla pornografia, scansando e smontando con grazia i pregiudizi sulla presunta natura svilente della produzione (e della sua fruizione).
Altrettanto ludico, ma molto più ancorato al reale, il ritratto di Losier della cantante canadese Merrill Nisker, in arte Peaches, icona punk e femminista da oltre trent'anni sulle scene con concerti e spettacoli che esaltano l'autenticità senza compromessi dell'essere donna, libera, queer, tra sfilate di vulve giganti, seni prostetici, testi dedicati all'orgasmo e alla vaginoplastica. Losier, col suo consueto stile partecipato ma non invasivo, ha filmato Peaches per 13 anni (il film è una sorta di spinoff del suo capolavoro The Ballad of Genesis and Lady Jaye, durante le cui riprese regista e artista si sono conosciute), nell'intimità e sul palcoscenico, raccogliendo la sua energia anarchica e urticante, il suo legame con la sorella affetta da sclerosi multipla, e soprattutto il suo rapporto col proprio corpo in mutamento, facendo del documentario anche un prezioso ritratto di una donna che osserva il proprio invecchiamento e lo elabora in arte liberatoria.
Parlando e sparlando
Quest'anno Venezia era affollata di film-forum: opere incentrate sul dialogo e sullo smantellamento dei cliché tramite il confronto tra i personaggi, una sorta di educazione sentimentale diffusa, disseminata in capitoli tra loro diversissimi in opere da tutte le sezioni. Lo è, a suo modo, anche il vincitore del Leone d'oro La stanza accanto, tratto dal romanzo Attraverso la vita della scrittrice statunitense Sigrid Nunez: un film commovente e limpido sulla fine di una vita, sulla fine del mondo, sull'apocalisse quotidiana, che si muove col passo nitido e sicuro di un maestro nel raccontare il legame tra due donne (Tilda Swinton e Julianne Moore, fenomenali) alle prese con la malattia e l'eutanasia. In Concorso c'erano altri due bellissimi titoli costruiti su personaggi femminili e queer a confronto con l'amore, il sesso, il senso della vita: Trois amies di Emmanuel Mouret e Love di Dag Johan Haugerud, opere speculari fatte di vignette dialogiche in cui i sentimenti non esondano ma scorrono, la razionalità non diventa nemica ma alleata della passione, per appianare le differenze, comprendere l'altro, mettersi in ascolto.
Lo stesso avviene, in modo programmatico, in Coppia aperta quasi spalancata di Federica Di Giacomo, alle Giornate degli autori, che usa l'omonima pièce di Dario Fo e Franca Rame per costruire un film ibrido, tra doc e fiction, che esplori con sguardo lucido le possibilità delle non-monogamie etiche: Chiara Francini, con grande autoironia, interpreta se stessa, ovvero un'attrice teatrale che, pur portando in scena la succitata opera, reagisce in modo reazionario e un po' bigotto di fronte alle esperienze reali di chi ha provato davvero a uscire dal modello di coppia eteronormato; dall'altro lato, la regista filma nella vita di tutti i giorni un autentico nucleo poliamoroso (una donna con due compagni, tutti sotto lo stesso tetto) per mettere in luce sia le difficoltà di portare nel mondo reale una soluzione familiare anticonvenzionale, sia la solidità e l'affidabilità di una rete di legami che permette a tutti di essere se stessi e di convidere responsabilità e affetti. Documentando una riunione di individui poliamorosi, sollecitati da una esplosiva Francini versione primadonna e "boomer", la regista chiama lo spettatore a mettere in discussione i propri pregiudizi sul tema, e a prolungare questo dibattito oltre la durata del film.
Chiudiamo col nostro film nume tutelare di questa edizione, il succitato L'attachement di Carine Tardieu, in Orizzonti: un gioiello di scrittura brillante e cesellata, che mette in campo questioni ponderose con la levità di una commedia sentimentale. La protagonista, Valeria Bruni Tedeschi, è una libraia femminista, single per scelta, felice della propria autonomia e libertà, che si ritrova a fare da babysitter al bimbo dei vicini di casa; eventi tragici e poi tragicomici si succedono rapidamente, stringendo questo legame in modi imprevisti, costruendole intorno una galassia di personaggi che vivono l'amore, la maternità, la coppia in modi diversissimi dal suo, senza cercare di "convertirla" (la sceneggiatura, tratta dal romanzo L'intimité di Alice Ferney, scansa ogni ovvietà; no, l'eterna nubile non s'innamora, né le scatta il desiderio di maternità, ed è piuttosto corroborante trovare un film così scevro di cliché), ma aprendo lo sguardo alle infinite possibilità del nostro essere animali sociali.
Donne (de)generi
Sin qui abbiamo parlato di commedia, di dramma, di sesso e di sentimenti: concludiamo il percorso con una manciata di titoli firmati da donne che hanno sconfinato in territori altri, giocando con le possibilità del mezzo cinematografico, a partire dal ritorno in Concorso della greca Athina Rachel Tsangari, che con Harvest ha costruito un universo dalle regole imprevedibili. Il film si ambienta in un villaggio pseudo medievale in una Scozia fuori dal tempo, dove l'avvento di alcuni stranieri scompiglia l'ordine costituito innescando un crescendo di sospetto e di violenza; una donna è accusata di stregoneria, mettendo a repentaglio l'annuale elezione della "regina del raccolto", titolo di cui viene insignita la fanciulla più bella, e la reazione a catena porterà al disintegrarsi delle norme sociali conosciute. Come sempre Tsangari ragiona sui rapporti di forza e sulle dinamiche di potere, portando al paradosso la nostra accettazione delle convenzioni sociali, dando vita a un'opera a tratti ostica ma molto suggestiva, dominata dal corpo attoriale nervoso e magnetico di Caleb Landry Jones.
Alle Giornate degli autori si è visto l'interessante To Kill a Mongolian Horse, esordio di Xiaoxuan Jiang, regista cinese cresciuta in Mongolia: la storia di un padre alcolizzato e di un figlio dal futuro incerto è il pretesto per raccontare il dissidio tra modernità e tradizione che tanto cinema asiatico festivaliero ha portato sullo schermo, ma l'autrice aggiunge uno sguardo quasi da western a questo racconto di cavalieri "da circo" (il protagonista si esibisce a cavallo inscenando le lotte dei guerrieri mongoli per un pubblico pagante) e di territori sconfinati, dove il gelo e la neve mietono vittime. Dall'Asia, e per la precisione dal Vietnam, arriva anche il vincitore della Settimana della critica, Don't Cry, Butterfly della giovane Dương Diệu Linh, che usa il realismo magico per raccontare la crisi di una donna di mezza età, tradita dal marito e condannata dalla società per non essere stata capace di "gestire" il proprio consorte e il proprio matrimonio: tra demoni che infestano la sua casa, rituali propiziatori che coinvolgono le secrezioni vaginali, e sequenze oniriche dalle luci flou, il film inquadra con precisione una serie di incubi e vessazioni quotidiane del femminile, scegliendo una chiave tra il grottesco e l'horror.
Chiudiamo la nostra ricognizione con uno dei gioielli "nascosti" di questa edizione: tra le autrici delle annuali Miu Miu Women Tales (a questa serie di cortometraggi, giunta a quota 28 titoli, abbiamo dedicato la newsletter n. 105) c'era anche la nostra amata Laura Citarella, regista argentina parte del collettivo El Pampero Cine, che con El affaire Miu Miu (lo trovate su YouTube) ha declinato il fashion film sui toni di un giallo paradossale ed esilarante. Il corto si ambienta in quella Trenque Lauquen che ha dato il titolo al fluviale capolavoro della regista, e vede protagoniste un trio di investigatrici («ho cercato di trovare anche un maschio, un poliziotto normale» dice afflitto uno dei personaggi in apertura del film) alle prese con la scomparsa di una modella di Prada. Della donna non restano che vestiti e accessori, ovviamente griffati Miu Miu, che disegnano un giallo nonsense, ludico e ondivago, giocando anche con l'usurata idea dell'inafferrabile "mistero del femminile", e portando in scena un trio di protagoniste irresistibili, caotiche e pronte a mettere in discussione la propria idea di femminilità. ILARIA FEOLE
Prima di Harvest bisogna andare indietro fino al 2015 per trovare il precedente lungo di Athina Rachel Tsangari, il notevole (e divertentissimo) Chevalier, che ora è disponibile su MUBI. Vi riproponiamo la recensione dal n. 45/2016 di Film Tv.
Chevalier
Prendere un gruppo, togliere un sesso, vedere l’effetto che fa. Sei uomini in barca, sei adulti in carriera, uno yacht per soli maschi tipo bianco, benestante, europeo, eterosessuale. Marinai sulle acque dell’Egeo, come eroi greci d’un tempo lontano. Le sproporzioni sono dovute: la loro è solo e soltanto una settimana di svago, non c’è nessuna epica in Chevalier, nessun mito, solo uomini. Antropologa di microcosmi a tre passi dal vero (dalla camera d’albergo nel futuro di The Slow Business of Going alla magione sulle Cicladi The Capsule, passando dalle rovine di Attenberg), Athina Rachel Tsangari sceglie uno spazio limitato, e mette alla prova il comportamento dei suoi personaggi. Sei, ma non in cerca d’autore: in cerca di sopraffare il prossimo loro, per il semplice gusto macho di farlo, per l’assurda gioia maschile della gara perenne. L’autrice li scruta, li deride con affetto, cerca di comprenderne le dinamiche, le regole di comportamento. Come un sir Richard Attenborough (l’Attenberg deformato del titolo precedente) per gli esseri umani. I sei uomini decidono di competere in un gioco: lo chiamano Chevalier, nome che indica codici d’onore lontani, e consiste nell’individuare «il migliore di tutti». Ognuno dei partecipanti è insieme giudice e giudicato. Lo spettro del giudicabile è totale: dal tasso dei trigliceridi alla capacità di montare un mobile Ikea, dalla postura del sonno al vigore di un’erezione. Ovvio, no? Non è un jeu de massacre: è una gara che potrebbe essere infinita (e che contagia anche la servitù), un contest dalle regole imprecise, continuamente contrattate, ma rispettate. Perché a Tsangari non interessa solo la stupidità del gioco, ma soprattutto quel che lo governa. La sua possibilità di esistere, di trovare un equilibrio, nonostante tutto. Ed è questo tacito patto tra i rivali, questo rispetto reciproco, l’apice assurdo, umanissimo, del film. Che è una satira sul maschio alfa, una commedia che attenta alla figura virile a suon d’infantilismo e narcisismo, una prova d’idiozia. Ma anche di senso per la democrazia: e se il film fosse un’allegoria del governo? E se tutto quello scommettere fosse un’esatta metafora economica? Quel che è certo è che Chevalier è uno studio sul linguaggio come territorio di scambio e guerriglia, balletto comico di corpi e tensioni, gaudio della parola screwball. Cosa rarissima nel cinema contemporaneo: una grande commedia. Oggi come oggi, è sufficiente. GIULIO SANGIORGIO
A proposito di Diva futura e icone porno: in occasione del trentennale della prematura scomparsa di Moana Pozzi, domenica 15 settembre alle ore 18:30 al Cinema Massimo di Torino il Fish&Chips Film Festival la celebra con Fantastica Moana!, un talk a cura di Francesca Pellas (autrice di Tutto deve brillare - Vita e sogni di Moana Pozzi, Blackie Edizioni) e Sofia Torre (esperta di Porn Studies e autrice del saggio Cagne di paglia, Einaudi). Ad accompagnare l’incontro, i materiali d’archivio provenienti dalle Teche Rai e la proiezione di Fantastica Moana di Riccardo Schicchi. Info qui.
Come ogni anno, nel palmares veneziano c’è posto anche per il Queer Lion, che in questa edizione è stato vinto dalla regista colombiana Mónica Taboada-Tapia per il suo documentario Alma del desierto, sulla lotta di Georgina Epiayu, donna transgender di etnia Wayuu, per il riconoscimento legale della sua identità. Alle Giornate degli autori ha vinto invece la brasiliana Marianna Brennard con Manas, che sarà programmato a Milano nella rassegna Le vie del cinema dal 19 al 27 settembre.
C’è tempo fino al 20 settembre per partecipare alla call Pitch Sconfinato! 2024 - Sguardi femminili sulla contemporaneità, dedicata ad autrici con progetti di documentari in fase di sviluppo. I cinque progetti candidati ritenuti più interessanti saranno invitati al Pitch Sconfinato! 2024, che si terrà sabato 19 ottobre 2024 all’interno di Meet the Docs! Forlì Film Fest. Tutte le info qui.