Singolare, femminile ♀ #105: Intrecci veneziani
Comincia la Mostra del cinema di Venezia n. 80 e, come ogni anno dal 2012, verranno presentati nuovi cortometraggi Miu Miu Women’s Tale. La guest star Sara Martin – docente ed esperta di cinema e moda – ripercorre per noi quelli che più l’hanno colpita, regalandoci una “playlist” visibile a tutti sul sito del progetto.
Miu Miu, con il progetto Women’s Tale nato nel 2012, attraverso il quale produce cortometraggi a firma femminile che abbiano al centro il racconto del vestire, ha costruito una nuova modalità di collaborazione tra la moda e l’audiovisivo. Anzi: ci sono un prima e un dopo nel concetto di fashion film e possiamo affermare che Women’s Tale sia il vero e proprio spartiacque. La maison del Gruppo Prada punta sulla libertà dell’espressione creativa delle autrici a cui affida i cortometraggi; il suo obiettivo, oltre chiaramente alla valorizzazione dei capi di moda, è quello di raccontare l’universo femminile nella realtà e nella fantasia, nell’attualità e nel ricordo, in un luogo specifico o in nessun luogo. Da 11 anni a questa parte le opere delle autrici vengono presentate alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nell’ambito delle Giornate degli autori, dove non soltanto il pubblico assiste alle proiezioni dei film, ma vengono anche organizzati degli incontri in cui le donne “del cinema” si raccontano nel ruolo di artiste e in quello di appartenenti al genere femminile (non facciamo un elenco, sono oltre 80 gli incontri organizzati negli anni dalla casa di moda, e sarebbe oltraggioso escludere alcuni nomi per valorizzarne degli altri).
Quest’anno, durante l’80esima edizione saranno presentati i corti Eye Two Times Mouth della regista messicana Lila Avilés e Stane della sceneggiatrice croata Antoneta Alamat Kusijanović; il 3 e il 4 settembre, inoltre, si terrà una due giorni di conversazioni sulla cinematografia femminile coordinata da Penny Martin, durante la quale verrà presentato anche il Miu Miu Women's Tale Committee, che si occuperà di accompagnare lo sviluppo dei futuri cortometraggi e che, accanto alle fondatrici Miuccia Prada e Verde Visconti, comprende Ava DuVernay, Maggie Gyllenhaal e la costumista Catherine Martin. Con Eye Two Times Mouth e Stane, il progetto arriverà a quota 26 opere: piccoli gioielli di cinema, di donne e di moda. Impossibile, in questo spazio, parlare di tutti, però possiamo suggerirne alcuni (sul sito di Miu Miu sono tutti visibili con tanto di interviste e altri contenuti raffinatissimi). Quelli che vi proponiamo non sono necessariamente i più riusciti, ma titoli che per qualche ragione hanno attirato la nostra attenzione, per la loro autonomia creativa e per il loro sguardo femminile sul mondo.
L’attrice, regista e sceneggiatrice Zoe Cassavetes, figlia di John, firma il primo Women’s Tale: The Powder Room (#1). Nell’hotel Claridges di Londra un gruppo di donne dialoga attraverso gesti e sguardi. Vestirsi, prepararsi, osservarsi a vicenda: è un trionfo di bellezza sospesa “nell’attimo che precede l’azione”, quel momento intimo che arriva un istante prima del mostrarsi agli altri.
La location è diversa, siamo in uno yacht, in Muta (#2), della pluripremiata regista argentina Lucrecia Martel che firma il secondo “tale”, ma il racconto è ancora quello, puro e spogliato dall’incedere narrativo, della bellezza femminile. Un elegantissimo equipaggio, vestito con abiti preziosi, si muove furtivo negli spazi angusti della nave e comunica attraverso un linguaggio ermetico, proprio degli insetti: scatti, vibrazioni, battiti di ciglia. Le crisalidi hanno avviato la loro metamorfosi, pronte a diventare sontuose farfalle.
Alice Rohrwacher con De Djess (#9), cambia punto di vista e racconta la storia di un abito impertinente che si muove “a passo uno”, ha dei pensieri propri e sceglie chi sarà la donna giusta per indossarlo. La regista “si cala nei panni” (non è un gioco di parole!) di quell’abito (il numero 328) e, immaginando che questi non possa capire il nostro linguaggio, ne inventa uno nuovo: «È come se la scarpetta di Cenerentola potesse parlare» spiega Rohrwacher. «Tutti la ascolterebbero». La regista, con leggerezza e ironia, coglie l’essenza profonda del vestirsi, che accomuna ogni essere umano, dal momento che ognuno utilizza l’abbigliamento per raccontarsi nel modo esatto in cui vuole mostrarsi al mondo.
Agnès Varda con Les 3 boutons (#10) assegna a un oggetto la parte da protagonista. «Signorina Jasmine! C’è un pacco per lei!»: un postino consegna a una giovanissima contadina un meraviglioso abito da grande soirée ma è così grande che la ragazza ci entra dentro come se fosse una caverna che la traghetta in un mondo fantastico e reale allo stesso tempo. Sono la vita di campagna e quella della haute couture, è la scoperta di sé di una ragazza che preferisce la vita bucolica al sogno di un abito lussuoso, ma che per ogni bottone che si stacca da quell’abito-porta ottiene un sapere in più, da custodire per giocare, crescere e capire. «È come giocare con la realtà» dice la grande autrice francese. «Un gioco che si chiama cinema!».
In Hello Apartment (#15) dell’attrice enfant prodige Dakota Fanning è, invece, un loft di Brooklyn il centro del racconto. Qui Ava costruisce la sua storia, s’innamora, balla, si diverte e poi piange, soffre e accumula ricordi che il suo appartamento custodisce per lei, come una macchia di vino, un graffio nel pavimento, un buco nel muro (coperto da un grande specchio che la ragazza userà per trovare il suo look nelle diverse fasi della vita). La casa è una parte importante della vita della giovane donna che fra le sue mura diventa adulta.
Somebody (#8) è il titolo del film di Miranda July, senza dubbio il più surreale (distopico? Utopico?) tra quelli prodotti dalla maison. Al centro del racconto, una applicazione – vera, gli spettatori hanno potuto provarla durante l’evento organizzato alla Mostra del cinema – che permette di far recapitare a chiunque un messaggio utilizzando uno sconosciuto come intermediario. Per esempio: Jessica lascia Caleb, e tocca a Paul, un uomo seduto in un parco accanto al ragazzo, portare la cattiva notizia; Victoria è seduta da sola in un ristorante, in attesa di Jeffrey. Sarà la cameriera a inginocchiarsi e leggere dall’app la richiesta di matrimonio dell’uomo, con tanto di bacio appassionato alla pronuncia del «sì»; Yolanda e Blanca, due amiche vestite allo stesso modo, come due gemelline, si rappacificano dopo una lite grazie a una vecchia passante. Il corto illumina la stranezza, ma anche la tenerezza, del bisogno odierno di comunicare attraverso un terzo incomodo; il dispositivo che è ormai parte integrante del nostro corpo e, allora, tanto vale dargli un compito importante, quello del dialogo che facciamo ormai fatica a sostenere.
Dal presente – o futuro prossimo – siamo traghettati nel passato della Grande depressione con Shangri-La (#21) di Isabel Sandoval. California: una donna filippina di seconda generazione confessa a un prete la sua fantasia d’amore con un uomo bianco, quando le relazioni interraziali sono proibite per legge. Il confessionale è una sorta di DeLorean (la macchina del tempo di Ritorno al futuro) fra le mani di Sandoval, che fa viaggiare nel tempo la giovane donna, interprete di tanti ruoli quanto sono gli abiti (Miu Miu, naturalmente) che indossa. «Considero i costumi un’espressione del potenziale della protagonista in quanto donna», spiega l’autrice, «che immagina se stessa come una guerriera, una principessa o una dea».
La regista britannica Lynne Ramsay abbandona l’universo della finzione con Brigitte (#18). Il documentario racconta il lavoro di Brigitte Lacombe, una delle fotografe ritrattiste più famose al mondo nonché fotografa di scena degli Women’s Tale. Scopriamo assieme a Ramsay il mestiere di chi, da dietro l’obiettivo, deve immortalare un soggetto nella sua intima bellezza. Un cast di donne e sorelle di sangue e di vita, un capovolgimento scherzoso di ruoli dove lo spettatore si trova a chiedersi “chi sta dirigendo chi”. Il film offre la rara opportunità di osservare un mestiere che consiste nel mostrare, ma non si dà mai a vedere.
Alla fine di questa selezione, parzialissima e assolutamente soggettiva, aggiungiamo qualche parola sul film di Lila Avilés, Eye Two Times Mouth, che arriva in questi giorni all’80esima Mostra del cinema (il film di Antoneta Alamat Kusijanović sarà invece una sorpresa in anteprima mondiale in Laguna). Fil rouge di questo progetto è la trasformazione e l’evoluzione della donna. Il bruco che diventa crisalide e poi farfalla: la protagonista qui è Luz, appassionata di canto lirico che affronta un’audizione per Madame Butterfly in un grande teatro di Città del Messico. Il tema ricorrente del film è ispirato al proverbio giapponese «il minimo battito d’ali di una farfalla può essere sentito dall’altra parte del mondo». E l’essenza di questo modo di dire sta, a ben vedere, anche in ognuno dei Women’s Tale di Miu Miu. SARA MARTIN
Sara Martin tiene da anni su Film Tv la rubrica Il filo nascosto, incentrata sul rapporto tra cinema (e tv) e moda, e sul n. 6/2021 ha scritto per noi un approfondimento sul filone dei fashion film, particolarmente utilizzato da molte maison durante la pandemia (causa assenza forzata di sfilate in presenza). Ve lo riproponiamo. E se vi appassiona il tema, non potete perdere il libro, scritto sempre da Martin, L’abito necessario.
Lost in fashion
Il fashion film non è certo una novità. Negli ultimi anni, però, con l’utilizzo massivo del web nella comunicazione della moda, è diventato uno strumento privilegiato sia per le maison più note sia per i marchi emergenti e di nicchia. Per non parlare del periodo attuale, in cui le sfilate, avendo chiuso forzatamente le loro porte, hanno dovuto trovare forme alternative e creative per mostrare al pubblico non solo le creazioni delle diverse stagioni, ma anche – e soprattutto – l’immaginario che ogni casa di moda vuole trasmettere agli ipotetici acquirenti. Indietro nel tempo, la reciproca influenza fra moda e cinema ha assunto diverse fisionomie. La moda, simbolo riconosciuto e riconoscibile della cultura riprodotta nei film, è un codice fondamentale della rappresentazione cinematografica. Parliamo di “moda nel cinema” in riferimento agli abiti che costruiscono un’ambientazione e un personaggio, in un’interpretazione simbolica dell’abbigliamento scelto e studiato per caratterizzare i personaggi. Nel riprodurre forme, modelli e linguaggi, il cinema assume da sempre una doppia funzione di contenitore e produttore di moda: riflette la storia della moda e produce in modo autonomo fenomeni “di moda”. Se alle origini della settima arte gli attori si vestivano in maniera autonoma, già a partire dall’affermazione dello star system hollywoodiano è emersa la figura professionale del costumista, e da lì il cinema ha assunto un ruolo di veicolo dell’industria della moda, dettando leggi e stili, influenzando gusti e tendenze in ogni ambito sociale. Solo a partire dagli anni 50 circa, però, si è venuta a consolidare una relazione stretta tra l’industria della moda e quella cinematografica, e gli stilisti hanno intravisto la possibilità concreta di servirsi del mezzo audiovisivo per veicolare le loro creazioni. È con il film di Billy Wilder Sabrina (1954) che osserviamo la prima collaborazione importante dello stilista Hubert de Givenchy con il mondo del cinema (e in particolar modo con Audrey Hepburn, che vestirà anche in Cenerentola a Parigi e Colazione da Tiffany, per poi non separarsene più). Prima di Givenchy, Chanel e Schiaparelli non erano riusciti nell’intento: solo Dior si era imposto, in un’unica occasione importante, portando la sua firma sugli abiti indossati da Marlene Dietrich nel film di Alfred Hitchcock Paura in palcoscenico (1950). La nascente industria della moda italiana intuisce prima di tutti le potenzialità di questo legame ed è anche grazie al cinema, infatti, che il made in Italy esplode nel mondo (Emilio Schuberth e le Sorelle Fontana ne sono i più importanti esempi). A partire dagli anni 60, invece, dopo il declino dei grandi studi, i film fanno spesso ricorso ad abiti confezionati, dovendo rinunciare in parte all’artigianato delle sartorie cinematografiche, e affidano un ruolo sempre più importante agli stilisti. Questo offre un reciproco vantaggio: pubblicità per la griffe e costi ridotti dei costumi per la produzione. I matrimoni fra gli stilisti e l’industria hollywoodiana sono straordinari. Pensiamo per esempio ad Armani che veste Richard Gere in American Gigolò (1980), imponendo nell’immaginario collettivo il suo stile, consolidato poi negli abiti realizzati per The Untouchables - Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma e per Ving Rhames in Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino; oppure a Cerruti, che ha vestito Michael Douglas sul set di Basic Instinct (1992) e Gere nei panni del protagonista di Pretty Woman (1990); o ancora alle sorelle Fendi che hanno realizzato, insieme a Salvatore Ferragamo, le pellicce e le calzature della protagonista di Evita (1996) di Parker, cambiando radicalmente l’immagine dell’icona pop Madonna. Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo: Gaultier, Gucci, Krizia, Prada, Valentino, Versace e molti altri marchi con i loro abiti hanno contribuito a costruire personaggi indimenticabili nel cinema e contemporaneamente hanno ottenuto una visibilità senza precedenti per le loro creazioni. Più di recente i ruoli si sono anche felicemente invertiti, come nel caso di Tom Ford, passato dietro alla macchina da presa con i due film A Single Man e Animali notturni, o di Luca Guadagnino e David Lynch, che hanno firmato servizi fotografici di moda per la carta stampata. Un rapporto dunque complementare e articolato, capace di assumere forme assai diverse, quello fra il mondo della moda e il mondo del cinema. Oggi il fashion film, frequentemente nella forma del cortometraggio (ma non sempre, pensiamo per esempio a Gaspar Noé, che ha realizzato un medio di 50 minuti per Saint Laurent, o a Gus Van Sant, che ha girato una webserie per Gucci), è una vera e propria palestra di reciproca creatività. Nella sua totale libertà espressiva, ha il solo obiettivo di valorizzare l’immagine di un brand o di una collezione dando libero spazio alla fantasia del suo autore, interprete del messaggio profondo che la casa di moda vuole comunicare. Il fashion film può avere una struttura astratta, sperimentale o estremamente classica. Grazie a YouTube, ai canali social e, in generale, alla comunicazione via web - ben più efficace della pubblicità in tv o di quella affidata alla carta stampata e alle riviste di settore -, le case di moda, da oltre un decennio, non possono più fare a meno di questo strumento di narrazione. Già nel 2012 Miu Miu ha portato alla Mostra di Venezia Women’s Tales, in cui diverse registe hanno offerto il loro punto di vista sulla femminilità; nel tempo Prada - vera pioniera del film di moda - ha coinvolto diversi registi tra cui Roman Polanski e Wes Anderson; la collaborazione tra H&M e Erdem è stata immortalata da un film diretto da Baz Luhrmann; Dolce & Gabbana si sono affidati a Giuseppe Tornatore per rappresentare la tradizione italiana a cui guardano le loro creazioni, recentemente Matteo Garrone ha firmato due splendidi film per le nuove collezioni di Dior. Insomma, il numero delle collaborazioni tra registi cinematografici e marchi di moda è molto più ampio di quanto si possa immaginare, soprattutto nell’ambito dei marchi giovani e di nicchia, che fanno un uso più virale dei brevi film e sperimentano generi e forme con maggior audacia (come nel caso delle sorelle Mulleavy di Rodarte, che si sono cimentate anche con l’horror coinvolgendo diverse star hollywoodiane, o della francese Olympia Le-Tan, affidatasi alla regia di Spike Jonze per un film in stop motion dal titolo Mourir auprès de toi). Ci troviamo di fronte a un universo in costruzione continua, da indagare ma anche da fruire con gioia e leggerezza, sentimenti che la moda porta da sempre con sé e che fanno molto bene anche al cinema, in tutte le sue forme. SARA MARTIN
Con la preapertura dedicata a Gina Lollobrigida, è cominciata la Mostra d’arte cinematografica n. 80, cui dedichiamo anche questo numero della newsletter sui Miu Miu’s Women’s Tales. Tra i tanti eventi collaterali di quest’anno, segnaliamo il panel moderato da Ilaria Feole, martedì 5 settembre dalle 10 alla Casa della Critica, intitolato Dal chiodo alla parola – Per una formazione di cinema al femminile. Lo stesso giorno, in Sala Laguna alle 10.30, Giornate degli Autori e 100Autori organizzano il convegno Me Too 2023 – Le donne alla conquista di un cinema libero. Durante la Mostra verrà poi consegnato alla virologa Ilaria Capua il Women in Cinema Award.
A proposito di intrecci tra moda e cinema, se vi capita di intercettare il nuovo spot del profumo Yves Saint Laurent con Austin Butler, sappiate che l’ha diretto Julia Ducournau.
Lo scorso 10 agosto ci ha lasciate Michela Murgia, e per quanto la notizia fosse attesa nessuna di noi era davvero preparata. Tra i tanti ricordi fioriti in questi giorni, vi segnaliamo quello di Francesca Coin sull’“Essenziale” e (per gli abbonati al “Corriere”) quello di Rosi Braidotti su La27Ora.