Singolare, femminile - #019: Madri oblique
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#019 - Madri oblique
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Dal Leone d'oro Happening alla miniserie Scene da un matrimonio, sono tanti i titoli che alla Mostra di Venezia hanno preso di petto una domanda tabù: e se una donna non volesse (più) essere madre?
Si può dire, ed è stato detto, che alla 78ª Mostra di Venezia ha di nuovo (dopo Cannes) «vinto il film di una donna»; si può dire, ed è stato detto nonché usato come titolo, che ha vinto «il film sull'aborto» (nel senso di "a favore" dell'aborto), e non è mancato chi ha visto entrambe le eventualità come derive di un mondo devastato dalla presunta dittatura del politicamente corretto. Ma L'événement, presto in uscita in Italia col titolo Happening - 12 settimane, è prima e soprattutto un film dichiaramente politico, e in questo senso il Leone d'oro che la francese Audrey Diwan ha ottenuto lo scorso 11 settembre si inserisce in una tradizione molto più nutrita e radicata nella storia dei grandi premi cinematografici; politico è il punto di vista dell'autrice da cui il film prende le mosse, Annie Ernaux (il film è tratto dal suo L'evento, in Italia edito da L'Orma), penna femminista che con le sue opere di autofiction da decenni afferma l'urgenza di parlare delle donne con occhi e vocaboli diversi, che possano perforare con la pragmatica schiettezza della sua prosa i tabù circa la sessualità, la maternità, la religione e la militanza. Politico è il punto di vista di Diwan, regista all'opera seconda che sceglie di testare i confini del filmabile per rendere integralmente visibili, in lunghe sequenze non edulcorate, i tentativi della protagonista di indursi l'aborto e, successivamente, la pratica dell'interruzione clandestina di gravidanza, per lei l'unica scelta nella Francia del 1963, dove l'aborto era ancora illegale. L'unica scelta, perché Anne vuole per sé una vita che non contempla, non in quel momento, la maternità: essere madre, contro la propria volontà, implica per lei rinunciare agli studi, all'autonomia, alla carriera e alla sua passione per la scrittura, ovvero rinunciare a tutto ciò che di se stessa conosce, abdicare al proprio futuro in nome di una legge che governa il suo corpo nel presente. Per questo il film ha la tensione battente di un thriller, perché Anne si sta giocando tutto, e nel sottoporsi a una procedura chirurgica clandestina sa di rischiare la vita: ma preferisce rischiarla così che non portando a termine la gravidanza e uccidendo la donna che sa di volere (e potere) essere.
In un paese come l'Italia, dove l'aborto è legale, ma esistono regioni in cui è concretamente impossibile praticarlo a causa della totalità di medici obiettori di coscienza, e dove periodicamente si torna a mettere in dubbio la legittimità della pillola abortiva o di quella del giorno dopo, Happening - 12 settimane è un film di rilevanza e attualità urticanti, pur essendo ambientato oltre mezzo secolo fa, e lo dimostrano le discussioni che ha innescato. Più della crudezza delle succitate sequenze (accompagnate dal consueto ronzio di «malori in sala» e indubbiamente potenti nella messa in scena del dolore), a far discutere (e in certi, più conservatori sguardi anche indignare) è la pervicacia con cui la protagonista sceglie di non essere madre, senza avere su questo il minimo dubbio o tentennamento: sì, Happening è la storia di una giovane donna che interrompe una gravidanza per poter affrontare serenamente i suoi esami universitari, e in questo non dovrebbe sussistere alcuno scandalo. L'idea che la scelta dell'aborto debba implicare, sempre e necessariamente, una sofferenza psicoemotiva è un retaggio culturale irricevibile e duro a morire, nonché uno degli innumerevoli gradini ancora da salire per poter finalmente eliminare l'idea che esista un modo "giusto" di essere donna. E al di là del Leone d'oro c'erano, in questa edizione di Venezia, numerosi titoli in cui si affrontava con intelligenza e sguardi obliqui un rapporto conflittuale con la maternità, in ritratti di donna che - in modalità e con sentimenti diversi - fuggono o rivalutano il ruolo di madre; un filo rosso curiosamente lungo e diffuso in tutte le sezioni della Mostra, con film (e serie) che ci mettono davanti alla domanda ingiustamente tabù: e se una donna non volesse (più) essere madre?
In La santa piccola, per esempio, audace esordio di Biennale College firmato da Silvia Brunelli, va in scena quasi una versione fantasy/grottesca di Happening/L‘événement: come in I baci mai dati, una bimba diventa prescelta dalla Madonna e idolatrata come una santa in miniatura dai vicini di casa, e fra le richieste di miracoli riceve pure quella di una ragazza in procinto di trasferirsi a Milano per studiare da estetista, che supplica la Madonna, per interposta bimba, di farla abortire e liberarla da una gravidanza indesiderata che ostacola il suo futuro; tutto il film è il ritratto, acerbo ma a tratti acuto, di una società ipocrita e inchiodata al culto del denaro e del conformismo, e il ribaltamento insito in questo "miracolo" è una trovata bizzarra e potente.
Scene da un matrimonio
Ma sfogliando il palmarès veneziano saltano all'occhio altre due storie di maternità complesse e anticonformiste: premiato per la luminosa prova di Pénélope Cruz Madres paralelas di Pedro Almodóvar, che della maternità e del concetto di responsabilità familiare fa il fulcro del suo mélo intimo e storico insieme. Ana e Janis sono madri single; la prima è rimasta incinta dopo uno stupro di gruppo, la seconda ha una relazione con un uomo sposato, entrambe decidono di crescere la propria bimba in un nucleo monogenitoriale, con il supporto e l'affetto di una rete amicale e relazionale quasi esclusivamente femminile. Entrambe si trovano a domandarsi «chi sono io?» in relazione a quella maternità inattesa, ed entrambe (senza svelare troppo di una trama dai tanti colpi di scena) si vedono negare, a un dato momento, il proprio status di madre. Per Janis, però, non diventa mai un modo di ridefinirsi: fotografa acclamata, ha bisogno del suo lavoro per essere pienamente se stessa, e per rispondere davvero a quella domanda va all'indietro, scava nel passato e nell'albero genealogico, alla ricerca delle sue radici. Solo fatta pace col passato potrà aprirsi al suo presente, rifondare un'idea di famiglia fuori dall'eteronormatività, dove i ruoli non siano gabbie, e dove essere madre non abbia nulla a che vedere con il dna.
Anche The Lost Daughter, premiato per la sceneggiatura che Maggie Gyllenhaal ha tratto da La figlia oscura di Elena Ferrante, è il ritratto spigoloso di una donna che a un certo punto della sua vita ha deliberatamente abbandonato il suo essere madre, per vivere altre parti di sé, altre vite possibili, lasciandosi indietro le due figlie piccole. Jessie Buckley (nei flashback) e Olivia Colman danno vita al personaggio di Leda, brillante accademica la cui funzionalità si "inceppa" quando capisce di non poter essere relegata all'esclusivo ambito genitoriale; le conseguenze di questa rottura, di questo inaudito strappo alla norma, continuano a essere pagate anche dopo decenni, e durante una vacanza in Grecia Leda, ormai riconciliata con la possibilità di essere tante e diverse versioni di sé, si trova a riflettere sul dolore e sulla prigione di essere madre, sulle profondità di un amore, quello materno, che non smette di sgorgare e intasa il suo corpo in modo quasi malevolo, ostinato oltre la sua lucidità. Contesa tra il senso di colpa verso le figlie e il senso di colpa per la libertà di cui si è privata, Leda è una donna lacerata, tormentata da segni (macchie, insetti, pigne volanti) che sembrano tacciarla di qualcosa di indicibile. Eppure, lo dice chiaramente alla giovane madre Dakota Johnson, quel tempo lontana dalle figlie è stato «amazing», fantastico. Lo dice amaramente, perché sa che è vero, e sa che nessuno le crederà mentre lo dice: come si può essere felici senza i propri figli?
Nel gioco di specchi e di assonanze che talvolta i festival cinematografici creano, abbiamo visto altre due madri abbandonare casa e prole in altrettanti titoli: Madeleine Collins di Antoine Barraud, presentato alle Giornate degli autori, e Scene da un matrimonio, miniserie HBO diretta da Hagai Levi, Fuori concorso. Due testi audiovisivi stratificati e interessanti, anche per il modo in cui approcciano la figura della "madre lavoratrice": entrambe le protagoniste (in Madeleine Collins la nostra amata Virginie Efira, in Scene da un matrimonio la sempre bravissima Jessica Chastain) sono professioniste affermate che viaggiano molto per lavoro e sono meno presenti in casa rispetto al consorte, entrambe arrivano a un punto di rottura in cui la loro vita si biforca inesorabilmente. «Non posso più farlo» dichiara, distrutta, Mira in Scene da un matrimonio, riferendosi alla forzatura del restare in un matrimonio dalle crepe evidenti, in un ruolo di madre e di moglie che ormai confligge irrimediabilmente con la vitalità che ha scoperto in altri luoghi e con altre persone. Qualcosa si è spezzato, in modo abbastanza drastico da convincerla a fare la valigia e partire senza dire addio alla sua bambina. La miniserie prosegue oltre questo punto, senza mai poter essere scambiata per una critica all'emancipazione femminile o al modello di donna che coniuga maternità e carriera; la scrittura di Levi, puntuta e impietosa verso i suoi personaggi, dipinge piuttosto un sistema sociale in cui la possibilità di questo doppio ruolo sia vista ancora con sospetto (dall'esterno) e vissuta con più o meno conscio senso di colpa (dall'interno), una libertà ancora troppo fragile davanti ai modelli femminili cui siamo continuamente esposti. La rottura in Madeleine Collins è ancora più drammatica, fino a sconfinare cinematograficamente nel noir: Judith diventa hitchcockianamente una donna che visse due volte, mettendo in pratica una bigamia e una doppia vita che non è schizofrenia, ma una parossistica, estrema dichiarazione della sua necessità di non essere ridotta a un solo nome, a una sola figura, a un solo ruolo. Scartando una dopo l'altra le identità che qualcun altro le ha assegnato, Judith/Margot/Madeleine reclama per sé una possibilità che nessuno contempla: in fondo, il succo di questo affascinante mélo è che non esista davvero la chance per la protagonista di sfuggire alle aspettative connesse ai ruoli sociali, e che per sottrarsi a esse non si possa che rinunciare alla propria identità, in questo caso anche anagrafica.
Mai come quest'anno, dunque, il tema della maternità è stato affrontato alla Mostra in modo obliquo e fuor di cliché, dissezionato con sguardi (sia maschili sia femminili) ora chirurgici, ora passionali, in ogni caso accomunati dalla volontà di dare alla narrazioni del femminile uno spessore nuovo. ILARIA FEOLE
Happening (L’événement) è un film debitore, nell’estetica claustrofobica, nella crudezza delle sequenze sull’aborto, nella struttura da thriller, del film Palma d’oro 2007 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu. Vi riproponiamo la recensione di Emanuela Martini.
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni
Due ragazze in una stanza d'albergo. Una stanza grigiastra, seriosa, "vecchia". Com'è grigio e opaco, sottilmente inquietante, quasi tutto quello che circonda le protagoniste, le strade della città, soprattutto ma non solo di notte, la hall e il ristorante dell'albergo, persino i corridoi del pensionato studentesco nel quale vivono. Gabita e Otilia dividono la stessa stanza, Gabita è incinta e non vuole il bambino, Otilia l'aiuta ad abortire, raccoglie i soldi, trova il "contatto" giusto, prenota la camera nella quale, in silenzio, si svolgerà l'operazione, l'assiste. Il rischio è la galera: negli anni 80 di Ceausescu l'aborto è illegale, le interruzioni di gravidanza clandestine prosperano, le donne muoiono. Ma, nonostante le strumentalizzazioni di cui è stato oggetto al momento della presentazione al Festival di Cannes (dove ha vinto la Palma d'oro), 4 mesi 3 settimane 2 giorni ("l'età" del feto) non è principalmente un film sull'aborto: è un film su una società poliziesca e chiusa, ingiusta e sospettosa, talmente disperata che persino un atto come un aborto finisce per perdere qualsiasi connotazione morale. Un aborto è un "fatto", un intervento fisico, per svariati motivi pericoloso, descritto in un lungo, freddo piano sequenza da colui che lo attuerà, il signor Bebe (Vlad Ivanov, un attore magnifico). Infatti sono le peregrinazioni, i gesti frettolosi e segreti di Otilia (l'amica, la vera protagonista), la sua ricerca affannosa di un pacchetto di Kent (un bene prezioso, che servirà a tacitare un'inserviente), le sue dimenticanze (quel documento di identità lasciato prima in camera e poi alla reception, in un paese totalitario e poliziesco), persino le sue ansiose diversioni (poco più di un'ora trascorsa a casa del fidanzato), a rappresentare la vera traccia narrativa del film. "Fare", perché non ci si può permettere il lusso di interrogarsi sulle scelte. Un'immagine, scomoda ma concreta, ci dice a che punto di alienazione disumanizzante sia arrivata la società rumena in quegli anni. Un'immagine che non va assolutamente scambiata per un giudizio morale di Cristian Mungiu (anche sceneggiatore del film) sulle sue protagoniste. 4 mesi 3 settimane 2 giorni è lucido, duro e giusto, costruito con il ritmo e la tensione di un thriller.
EMANUELA MARTINI
[pubblicato su Film Tv n° 35/2007]
Nel palmarès veneziano premiata anche Jane Campion, Leone d’argento per la regia di The Power of the Dog: la regista neozelandese sarà al centro dell’omaggio del Festival Lumière di Lione dal 9 al 17 ottobre, con retrospettiva completa e masterclass aperta al pubblico.
Presentato a Venezia il progetto The Purple Meridians, che si propone di creare una sinergia tra 18 registe provenienti da Italia, Spagna e Turchia per superare la discriminazione di genere nell’industria audiovisiva. In programma nelle prossime settimane workshop e tavole rotonde, con tappe a Sguardi altrove e al Torino Film Festival.
Dal 16 al 19 settembre 2021 a Milano e online sulla piattaforma Nexo+ il 35° MiX - Festival internazionale di cinema LGBTQ+ e cultura queer; tra le ospiti di quest’anno, Liliana Segre (premio More Love), Veronica Pivetti e Francesca Michielin (rispettivamente Queen of Comedy e Queen of Music).
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