Singolare, femminile ♀ #080: Oltre l'hashtag
In sala in questi giorni, Anche io ricostruisce l'inchiesta giornalistica alla base del #MeToo: ne approfittiamo per tracciare una sintetica mappa dei film e delle serie tv che nell'ultimo lustro hanno portato il movimento sullo schermo.
Con l’uscita in sala di Anche io di Maria Schrader è stato impossibile per le testate giornalistiche non titolare “il film del #MeToo”: il biopic firmato dalla regista e attrice tedesca, alla sua prima prova anglofona (avevamo parlato del suo I’m Your Man nella newsletter n. 23), ricostruisce nel dettaglio il lavoro di inchiesta delle reporter del “New York Times” Megan Twoehy e Jodi Kantor che ha portato, nell’ottobre del 2017, alla pubblicazione di uno dei primi articoli sul caso Weinstein, con dichiarazioni di attrici e assistenti molestate e stuprate dal produttore, oltre che costrette al silenzio con ricatti economici e giuridici. Quell’inchiesta, frutto di un impegno lungo e sfiancante delle due giornaliste per convincere le vittime ad andare “on the record”, ovvero a rendere pubbliche le proprie accuse, è stato uno degli atti fondanti del movimento #MeToo, che da ormai oltre 5 anni ha rivelato le condotte abusanti o inappropriate di numerosi personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport e non solo (portando, in alcuni casi, a un processo e alla condanna: Harvey Weinstein sta attualmente scontando una pena di 23 anni per violenza sessuale).
Ma sarebbe errato dire che il #MeToo approda sullo schermo col biopic di Schrader: cinema e serialità hanno intercettato da subito il movimento, dando vita, dal 2017 a oggi, a numerosi titoli che spesso sono caduti sotto l’etichetta, talvolta sbrigativa, di “cinema #MeToo” (Xandra Ellin, su LitHub, l’ha definito addirittura “#MeToo Cinematic Universe”), e che con modalità e obiettivi diversi portano al centro della narrazione gli abusi subiti dalle donne, la problematica questione dell’uscita allo scoperto, magari a distanza di anni o di decenni dalla molestia subita, e il tentativo di creare un fronte comune per provare a cambiare un sistema profondamente altrettanto radicato nell’industria dell’intrattenimento (questo era, d’altronde, lo scopo principale con cui l’attivista afroamericana Tarana Burke lanciò per la prima volta l’hashtag, nel 2006, per incoraggiare le donne a condividere esperienze comuni e a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla pervasività delle molestie sessuali in ambienti lavorativi).
Nel numero di oggi vi proponiamo una sintetica, giocoforza non esaustiva, mappa tematica dei prodotti audiovisivi che su piccolo e grande schermo hanno affrontato l’argomento, in modo frontale o metaforico, con storie vere o “riferimenti puramente casuali”. Una carrellata che fotografa il momento presente e che, ne siamo certe, sarà da aggiornare già nei prossimi mesi: il #MeToo sta diventando un vero e proprio filone, con tutte le opportunità e i limiti che questo comporta, e se da un lato c’è la possibilità di approfondire e problematizzare questioni (come il consenso, la credibilità delle vittime, la cancel culture) che i media hanno spesso liquidato con superficialità, il rischio è anche quello di cavalcare una tendenza appetibile a livello commerciale.
I precursori
Non serve dirlo: di film e serie che affrontano il tema della violenza sulle donne, degli abusi e delle lotte giudiziarie a essi correlate ne esistono ovviamente da decenni e da ben prima del #MeToo. Tuttavia, ci preme mettere l’accento su alcuni titoli che hanno saputo intercettare una tensione, cogliere un posizionamento problematico, e che, arrivando sullo schermo pochi mesi prima dell’effettiva esplosione del movimento, ne sono diventati a loro modo emblematici.
È il caso di un episodio memorabile della seminale serie Girls di Lena Dunham, American Bitch (in onda in America nella primavera del 2017; si vede su SkyGO e NOW), fuori dalla continuità orizzontale delle serie, che vede in campo solo due personaggi: uno scrittore, interpretato da Matthew Rhys, accusato di violenza da alcune donne, e Lena/Hanna, che sull’argomento ha scritto un articolo e incontra il romanziere per concedergli il contraddittorio. Come in una serrata pièce teatrale, vanno in scena tutte le sfumature del discorso sul consenso: quelle donne erano consenzienti e ora mentono in cerca di visibilità? Il carismatico scrittore è consapevole del proprio potere coercitivo, o crede realmente di essere irresistibile? L’episodio resta a oggi un gioiello di scrittura prepotentemente attuale.
Restando in territorio seriale, colpisce il tempismo di L’altra Grace, tratto dalla Margaret Atwood di Il racconto dell’ancella: con Mary Harron alla regia e Sarah Polley alla sceneggiatura, la miniserie andata in onda nell’autunno 2017, nelle stesse settimane in cui il #MeToo prendeva forma, racconta la storia vera di una domestica accusata dell’omicidio del suo datore di lavoro, nel 1843, ponendo l’enfasi sulla questione delle parole delle donne: ignorate, non credute, sottoposte a ogni tipo di scandaglio (facile trovarne l’equivalente nella quantità di modi con cui le denunce delle vittime vengono accolte: se la sono cercata, hanno aspettato troppo a denunciare, vogliono solo ottenere fama/soldi).
Infine, un film #MeToo che ha precorso i tempi: Elle di Paul Verhoeven, presentato a Cannes nel 2016, ritratto feroce e fiero di una donna (la magnifica Isabelle Huppert) imprendibile, che rifugge tutti i cliché, compreso quello di vittima, quando viene aggredita e stuprata da un estraneo che si introduce in casa sua. Costellato di momenti perturbanti che si muovono intorno e oltre i confini dell’idea di consenso (prima dell’aggressione fisica, la protagonista viene umiliata dai colleghi col suo volto incollato digitalmente in una sequenza pornografica digitale), il film lavora contro i luoghi comuni in modo provocatorio, scartando programmaticamente gli psicologismi facili e costruendo una riflessione chirurgica sulle dinamiche del potere e della vendetta.
I documentari
Territorio esemplare per testare i limiti del cinema #MeToo è quello del documentario: da un lato è il dispositivo ideale per “metterci la faccia”, per far valere tutto il peso e l’urgenza di uscire allo scoperto e di incoraggiare altre vittime a fare altrettanto; dall’altro, questo avviene spesso in assenza di contraddittorio, e alcuni recenti prodotti si sono dimostrati eticamente scivolosi, amplificatori per la personalità e la sofferenza, legittima, di celebrità molto in vista, ma sovente frutto di narrazioni opinabili.
L’esempio deteriore è la miniserie Allen v. Farrow (su SkyGO e NOW), legata a doppio filo al movimento: il figlio di Mia, Ronan Farrow, è stato (insieme alle succitate Kantor e Twohey) uno dei primi autori di articoli (sul “New Yorker”) di denuncia di Weinstein e degli abusi sistemici a Hollywood. Per il giornalista si tratta, anche, di un fatto personale, perché ha sempre sostenuto la colpevolezza di Woody Allen, accusato da Mia Farrow di aver molestato la figlia adottiva Dylan nel 1992. Assolto all’epoca in tribunale, Allen è diventato negli Usa persona non grata solo parecchi anni dopo, proprio a causa di una lettera aperta di Ronan Farrow che nel 2014 ha riportato alla ribalta i fatti, affermando la colpevolezza del regista a dispetto della sentenza.
La miniserie è apertamente schierata con Farrow e la sua famiglia, costruendo un’immagine dell’Allen predatore in modo grossolano e spesso irricevibile; più sfumata, e certamente supportata dalle denunce di numerose altre donne, ma altrettanto egoriferita è l’attacco di Evan Rachel Wood a Marilyn Manson nella miniserie doc Phoenix Rising (su SkyGO e NOW). Plagiata in giovanissima età dalla rockstar, Wood ha subìto violenze fisiche e psicologiche terrificanti, e ha deciso di uscire allo scoperto ufficialmente nel gennaio del 2021, diventando una delle portavoce più eloquenti e determinate del #MeToo. Il doc testimonia la sua battaglia, insieme a quella di un impressionante numero di altre donne su cui Manson ha esercitato un sistematico abuso di potere, ma la narrazione edificata in complicità con la documentarista Amy Berg (quella di Janis) scivola a tratti nell’enfasi personalistica di un progetto di rinascita ed empowerment più intimo che collettivo.
Sempre nell’ambito dell’industria musicale, Surviving R. Kelly e On the Record documentano gli abusi del cantante R. Kelly (dichiarato colpevole nel 2021 di crimini sessuali) e del produttore Russell Simmons (accusato da 20 donne ma non sottoposto a procedimenti giuridici), mentre Atleta A (su Netflix) ricostruisce la figura da incubo di Larry Nassar, medico della nazionale di ginnastica artistica statunitense trovato colpevole nel 2018 di abusi su centinaia di atlete (tra cui la campionessa Simone Biles) e condannato a un totale di 175 anni di carcere.
Le serie
La serialità è stata ricettiva nel cogliere le onde del #MeToo e incorporarle nelle proprie narrative. Sono tante le serie longeve - un esempio: Grey’s Anatomy, che nel 2018 ha messo un suo personaggio già defunto al centro di uno scandalo di molestie - che hanno inserito storie di abusi e denunce in episodi dedicati, facendo del #MeToo il classico tema da “puntata di impegno sociale”, come negli anni 90 era frequente per gli episodi di sitcom dedicati alla tossicodipendenza; preferiamo però concentrarci sulle serie che hanno dedicato interi archi narrativi alla questione, problematizzandola o affrontandola sotto angoli differenti.
Alcuni titoli sono figli naturali del #MeToo, a partire dalla serie Apple The Morning Show, ambientata negli studi televisivi di un programma di approfondimento giornalistico il cui conduttore (Steve Carell, in controcasting) viene accusato di molestie. Le donne che lavorano al programma affrontano il peso di una responsabilità condivisa: quante volte hanno fatto finta di non vedere? Quanti piccoli gesti apparentemente “innocui” hanno condonato perché “si è sempre fatto così”?
Anche Unbelievable, su Netflix, prende di petto la questione, ponendo fin dal titolo l’accento sulla faticosissima lotta delle donne per essere credute quando denunciano un abuso, come accade alla vittima di stupro interpretata dalla sempre ottima Kaytlin Dever; e l’eccellenza nel filone è certamente la folgorante I May Destroy You (su SkyGO e NOW), che destruttura il revenge movie in un percorso di progressiva consapevolezza che prende le mosse da una violenza sessuale e si apre a delta su molteplici e meno rilevabili forme di violazione del consenso.
Rilevante l’arco narrativo in The Good Fight (ve ne abbiamo parlato nel n. 71 della newsletter), dove viene raccontato l’insabbiamento dello scandalo postumo legato alle molestie dell’ormai deceduto fondatore dello studio legale; rispecchiando nell’episodio quanto accaduto nella vita reale al boss dell’emittente della serie CBS, Les Moonves, aperto sostenitore del #MeToo poi costretto alle dimissioni nel 2018 in seguito ad accuse di abusi.
Si svolgono nel mondo dello spettacolo le trame #MeToo di Glow, la bella serie Netflix sulle lottatrici di wrestling, una delle quali è penalizzata dal produttore dopo aver negato favori sessuali; di The Boys, la serie sugli (anti)supereroi di Prime Video, dove una delle eroine/showgirl subisce la violenza di un collega ed è costretta al silenzio; e soprattutto di BoJack Horseman, l’indimenticabile serie animata Netflix ambientata a Hollywoo (senza D).
Punteggiata nel corso delle stagioni di episodi che affrontano in modo complesso la questione del consenso, nella quinta annata la serie mette in scena l’aggressione di BoJack sul set ai danni di una collega, che arriva quasi a strangolare mentre è in preda agli effetti di potenti antidolorifici. L’arco narrativo si chiude con l’inesorabile vittoria del sistema, e l’attrice è costretta a negare pubblicamente il proprio trauma per non interferire con la produzione: la responsabilità, sottolineano gli autori della serie, non è meramente nelle mani dell’“uomo cattivo”, ma di un intera mentalità su cui l’industria ha basato la sua sopravvivenza.
I biopic
Siamo partite da Anche io, biopic attualmente in sala, e citiamo altri due prodotti biografici che hanno ricostruito il medesimo caso legato al #MeToo: quello delle denunce rivolte da donne dipendenti di Fox News contro il CEO dell’emittente Rogers Ailes, che hanno portato nel 2016, un anno prima dell’effettiva esplosione del #MeToo, alle sue dimissioni.
Ailes si è sempre dichiarato innocente, ed è morto nel 2017; la sua scomparsa è plausibilmente uno dei fattori che hanno reso più facile a livello legale portare sullo schermo la sua vicenda, messa in scena nel 2019 con due angolazioni differenti: nel film di Jay Roach Bombshell - La voce dello scandalo, interpretato da Margot Robbie, Nicole Kidman e Charlize Theron, e nella miniserie The Loudest Voice - Sesso e potere, dove Ailes è interpretato da un ributtante Russell Crowe.
In entrambi casi improntati sullo star power dei protagonisti e sulla loro mimesi a base di trucco e protesi (Crowe si trasforma in Ailes, mentre in Bombshell, dove Ailes è un personaggio secondario, è Charlize Theron a sottoporsi alla trasformazione, replicando un’impressionante Megyn Kelly), i due prodotti non escono dai confini di una confezione da grande pubblico, corretta e un po’ enfatica, più ironica e pop in Bombshell, più sensazionalistica in The Loudest Voice. Lo stesso Anche io punta a una ricostruzione appassionata, ma sempre a rischio di scivolare nella banalizzazione della fiaba sull’orco cattivo e non esente da un vago effetto “pubblicità progresso” che annacqua la lotta e semplifica gli angoli problematici o contraddittori. Il biopic è d’altronde la forma più smaccatamente commerciale di questo filone, e se è vero che il cinema #MeToo è (anche) un modo con cui l’industria cerca di lavarsi la coscienza mettendo sullo schermo i panni sporchi, questo è particolarmente vero per le laccate ricostruzioni biografiche, che isolano con precisione i soliti sospetti (singoli uomini, singole case di produzione) evitando di allargare lo sguardo sull’intero sistema - di cui gli stessi produttori di questi titoli sono inevitabilmente parte.
Il genere
Al filone sempre più nutrito dell’horror femminista, che ha saputo intingere nel genere le istanze del #MeToo in modo variamente sagace, sfacciato o survoltato, abbiamo dedicato un numero della newsletter, il 47. E la declinazione horror/thriller si presta particolarmente bene, come accade coi temi politici più caldi, alla questione dei soprusi e della vendetta delle donne: dal gaslighting messo in atto dal villain di L’uomo invisibile (protagonista Elisabeth Moss, icona della femminilità vessata grazie a The Handmaid’s Tale) al revenge movie in cruenti toni pastello di Una donna promettente (con la Carey Mulligan di Anche io e co-prodotto da Margot Robbie).
Nel 2022 si sono aggiunti all’elenco due horror complementari: Barbarian (su Disney+) in cui il mostruoso femminile scaturisce dalla crudeltà predatoria dell’uomo (e in cui uno dei protagonisti, l’attorucolo interpretato da Justin Long, è in stallo professionale dopo l’accusa di molestie da una collega), e Men di Alex Garland, in cui viceversa il mostruoso è tutto maschile, una matrioska di stalker/invasori tutti diversi ma tutti con la medesima faccia (quella dell’attore britannico Rory Kinnear), che simboleggiano una perversa ineludibilità del sopruso maschile, un trauma destinato a ripetersi in un loop grottesco, colpevolizzando la donna per non essere stata abbastanza accudente o abbastanza disponibile.
Citiamo anche il “#MeToo medievale” di The Last Duel di Ridley Scott, film che ha lavorato sulla differenza di sguardo anche dietro le quinte: diviso in tre atti, propone la medesima storia del (presunto) stupro di una donna raccontata da tre punti di vista differenti; Matt Damon & Ben Affleck (anche co-protagonisti) hanno sceneggiato i due segmenti maschili, Nicole Holofcener quello femminile. Il gioco perverso del “he said she said” (che dà il titolo originale ad Anche io) si incarna qui nelle prospettive di tre persone differenti, che dipingono la donna come tentatrice, consenziente, vittima: nessun altro è testimone dell’atto, ma il segmento finale non lascia dubbi, dichiarando che la versione della donna stuprata è «la verità».
Gli autori
Anche ai festival si sono moltiplicati i titoli legati alla rappresentazione del #MeToo, delle evoluzioni nelle dinamiche di potere e delle ripercussioni sull’immaginario collettivo del movimento.
Particolarmente rilevante è il tesissimo, purtroppo ancora inedito in Italia The Assistant di Kitty Green, in cui un’eccellente Julia Garner lavora come assistente in una grossa casa di produzione: non ci sono nomi, né loghi, e del boss-predatore non viene mai mostrato il volto, ma il riferimento a Weinstein è scoperto. L’assistente del titolo è la testimone dell’andirivieni di giovanissime attrici che inizia con riluttanza a collegare a uno schema di sfruttamento sistematico operato dal produttore su ragazze vulnerabili: il suo orrore sta nella consapevolezza che il suo silenzio equivale alla complicità, e la messa in scena con toni quasi da thriller psicologico scelta da Green restituisce la tensione insopportabile del sentirsi parte integrante di un sopruso.
Altri autori hanno scelto punti di vista fortemente provocatori, che illuminano angoli bui del discorso mediatico sul #MeToo: è il caso di Todd Field, il cui Tár (esce il sala il 9 febbraio ed è candidato a sei Oscar, tra cui quello per la mostruosa, in tutti i sensi, Cate Blanchett) mette in scena un classico caso di abuso di potere, ma facendolo incarnare a una donna, l’immaginaria direttrice d’orchestra superstar Lydia Tár. Il film gioca con tutti i cliché predatori, manipolatori e vili classicamente associati a personaggi maschili, ma assegnandoli alla vorace, seducente, narcisista Tár/Blanchett, che plagia giovani musiciste rovinandone poi la carriera se rifiutano di proseguire la relazione con lei. Un’opera intelligente e crudele, che costruisce un teorema lucidissimo sull’abuso di potere al di là delle differenze di genere, e che senza mettere in scena esplicite violenze attesta la subdola realtà della manipolazione emotiva e psicologica operata da una persona autorevole, carismatica e sostanzialmente impunita (oltre che la rete di omertà e di complicità che il sistema - qui il mondo dell’orchestra, altrove l’industria cinematografica - dispone intorno al detentore del potere).
Opposto e speculare il discorso intessuto da Dominik Moll in La notte del 12, poliziesco su un femminicidio che mette in scena l’impossibilità del “not all men”: letteralmente tutti gli uomini nel film potrebbero essere colpevoli, in un caleidoscopio di maschilismi congeniti.
Ryusuke Hamaguchi si muove in territori più ironici in un episodio di Il gioco del destino e della fantasia, quello centrale, dove una donna è costretta dal suo amante a sedurre un docente universitario, colpevole di averlo bocciato, per poi poterlo accusare di molestie e farlo così licenziare. L’episodio si muove sul filo del paradosso, ma come gli altri esempi citati ha un grande merito: quello di rompere la superficie di una narrazione codificata. Un rischio che il filone #MeToo corre, ora che i titoli si accumulano e la narrativa si consolida: storie di solidarietà femminile, di uomini cattivi epurati dalle posizioni di potere, di empowerment generico e spesso raccontato da sguardi maschili diventano la norma, l’abitudine, la semplificazione. Le sfumature del consenso e del desiderio, della complicità e dello squilibrio di potere, rischiano di restare in ombra, in favore di un racconto più catarticamente hollywoodiano, ma pericolosamente a senso unico.
Ben venga allora il female gaze di Sarah Polley, col suo Women Talking (in sala dall’8 marzo e candidato a due Oscar, miglior film e sceneggiatura): ispirato alla vera vicenda degli stupri subiti da 150 donne di una comunità mennonita, è un forum di sole donne che discutono di se, come, perché e quando reagire alla scoperta di essere state drogate e violentate da uomini che sono loro compagni e parenti. Mettendo in campo tutte le angolazioni del dubbio, del terrore, dell’omertà, del plagio, del coraggio che serve prima di pronunciare le parole anche io. ILARIA FEOLE
Riproponiamo un’intervista alla regista Sally Potter, tra le prime a raccontarci in prima persona, in occasione dell’uscita del suo The Party, cosa ne pensava (cinque anni fa) del #MeToo, sul n. 6/2018 di Film Tv.
Il femminismo non è un pranzo di un gala - Intervista a Sally Potter
Poco più di un’ora: è il tempo sufficiente a trasformare la festicciola di Janet, nuovo ministro della salute nel governo ombra, in un incubo grottesco, dove ai vol-auvent si sostituiscono velenose rivelazioni. A orchestrare l’esilarante gioco al massacro di The Party è la veterana inglese Sally Potter, l’autrice di Orlando e Lezioni di tango: pionieristica e militante, la poliedrica artista (è regista, sceneggiatrice, coreografa, cantante e compositrice) dirige in questa commedia al vetriolo una manciata di fuoriclasse come Kristin Scott Thomas, Patricia Clarkson, Bruno Ganz, Emily Mortimer, Cherry Jones e Timothy Spall. Party come “festa”, ma anche come “partito”: un film politico, girato in sole due settimane, proprio a cavallo del referendum in cui la Gran Bretagna ha votato per la Brexit. «Metà della troupe si è messa a piangere quella mattina, quando ha sentito l’esito del voto. Il film ci è sembrato un presagio di come le cose possano mettersi davvero male, quando si smarriscono i propri princìpi» ha commentato Potter.
The Party dura solo 70 minuti, ha solo sette personaggi e un solo ambiente: pare progettato come una pièce teatrale.
L’unità di luogo e di tempo lo ricorda, ma io l’ho scritto proprio come un film, è sempre stato pensato per il cinema; ho immaginato una macchina da presa in intimità coi personaggi, vicina ai volti, cosa che in teatro non si può fare. C’è, però, chi ha espresso interesse nell’idea di trasformarlo in una pièce. Al momento, invece, sto lavorando sulla versione televisiva.
Restando in tema palco: la sua carriera si muove tra danza e cinema, e The Party somiglia a una coreografia serrata.
Come si dice, una volta ballerino, resti sempre ballerino! Più che la danza, mi interessava il movimento costante, una vera sfida da mettere in scena in uno spazio così piccolo. Quindi abbiamo costruito un plastico della casa e l’abbiamo usato per tracciare tutte le possibili direzioni dei movimenti dei personaggi. Non ho chiesto agli interpreti di muoversi come se danzassero, ma ho voluto che fosse una recitazione “integrale”, a 360 gradi, con tutto il corpo: di solito gli attori ci mettono solo la faccia, invece ho chiesto loro di recitare con tutto quanto il resto, dalla testa ai piedi, ho richiesto performance molto fisiche.
Il bianco e nero è una delle sue cifre, ma non lo usava dai tempi di Lezioni di tango (1997): come mai in questo film?
Era molto importante per me che fosse un film di luci e di ombre. La storia inizia di giorno, con la luce, e finisce con l’imbrunire, il buio arriva molto gradualmente. E anche emotivamente ci sono ombre che cadono sui personaggi, e luci, vere esplosioni di illuminazione. Il bianco e nero serve per esasperare queste luci e ombre; il colore avrebbe dato più informazioni, che qui non erano necessarie. Volevo che fosse un film-scheletro, fatto solo di “ossa”, solo dell’essenziale. Inoltre il bianco e nero si lega esteticamente a un’epoca cinematografica precisa, lontana dalla contemporaneità di The Party, che ci tenevo a richiamare: quella delle commedie Ealing e dei film inglesi dei primi anni 60, molto politicizzati.
Il personaggio di Patricia Clarkson, April, oltre a regalare alcune delle battute più perfidamente divertenti del film, è molto disincantato (non crede più in questo «post-postfemminismo postmoderno»): è un suo alter ego?
Non esattamente: scrivendo April volevo soprattutto dar vita a qualcuno che dicesse ad alta voce ciò che tutti pensano ma che nessuno afferma apertamente. Poi lei non è solo critica: è vero che è scettica rispetto al femminismo e ai valori che il personaggio di Kristin Scott Thomas rappresenta, ma è anche la più militante, è una vera rivoluzionaria. Forse è la più femminista di tutti, la più leale con le amiche.
Proprio April afferma a un certo punto che «la solidarietà femminile è un concetto molto invecchiato». Mi ha fatto pensare alle reazioni spesso per niente solidali che le donne del movimento #MeToo hanno ricevuto da altre donne.
Io penso che ci siano aspettative irrealistiche circa i legami tra donne: ci si aspetta che le donne siano sempre buone e indiscriminatamente comprensive tra di loro, che si comportino come angeli, ma le cose sono molto più complesse di così. In questo momento è in corso una forte iper-semplificazione del discorso, è come se ci venisse fornita una versione da cartone animato della realtà! Poi, penso che #MeToo sia un modo creativo di indirizzare le quotidiane umiliazioni che una donna deve affrontare e che spesso non hanno nemmeno un nome, e credo che tutti i discorsi su questo tema siano importanti e necessari. Il problema che ne deriva, però, è che ci si concentra troppo sulle donne come vittime, e sempre meno sul loro potere; oggi è comunque meno accettabile pensare a una donna in una posizione di forza e di controllo, che in una posizione di oppressione.
Un altro dibattito in atto è quello sulla disparità di presenze e di salario per le donne nell’industria cinematografica. Lei ne fa parte da quarant’anni: pensa che qualcosa stia cambiando?
Questa è una domanda che mi viene fatta fin dal mio primo film! Ma quando io ho iniziato a fare cinema, ci si poteva contare sulle dita di una mano; ora invece ci sono tante ottime registe. Quello che a me importa non è mostrare di essere una regista donna, ma mostrare di essere una regista brava. Ciò detto, sì, il cambiamento c’è: ma è lento, molto lento.
ILARIA FEOLE
Passo indietro degli Oscar sul fronte delle presenze femminili dietro la macchina da presa: nessuna autrice nella cinquina della migliore regia, una sola regista (Sarah Polley, col succitato Women Talking) nella decina del miglior film, mentre per trovare altri nomi femminili al timone bisogna passare alle cinquine dei documentari e dell’animazione. Qui l’elenco completo delle nomination, il 12 marzo la Notte degli Oscar.
Audrey Diwan, la regista di L’événement, è stata scelta per dirigere il cortometraggio delle Révélations dei premi César 2023, un breve film in cui compaiono tutti gli attori e le attrici emergenti selezionati dall’accademia; tra di loro anche Kayije Kagame e Guslagie Malanda di Saint Omer.
Per ricordare la leggendaria Gina Lollobrigida, diva e simbolo dell’Italia nel mondo scomparsa a 95 anni lo scorso 16 gennaio, vi proponiamo di recuperare questo curioso documentario-film saggio firmato dal grande Orson Welles, Portrait of Gina, ritrovato e restaurato solo nel 2002. [in inglese]