Singolare, femminile ♀ #146: L'arte di essere invisibile
Il 7 agosto prende il via il Locarno Film Festival, che prosegue la tradizione di premiare figure chiave della produzione assegnando il Raimondo Rezzonico Award a Stacey Sher, produttrice di Pulp Fiction e collaboratrice abituale di Tarantino e Soderbergh.
Dopo Ann Gale Hurd (vedi newsletter n. 2) e Marianne Slot (vedi newsletter n. 104), anche quest’anno il Locarno Film Festival, in programma nella città svizzera dal 7 al 17 agosto, prosegue la nobile e nuova tradizione di assegnare il Raimondo Rezzonico Award a un’eccellenza al femminile del mondo della produzione cinematografica. Si tratta di Stacey Sher, produttrice statunitense che (insieme a Danny DeVito e Michael Shamberg, con la loro Jersey Films) ha realizzato Pulp Fiction, ma che è anche responsabile di titoli come Giovani, carini e disoccupati, Gattaca, Man on the Moon e di serie televisive come Mrs. America (ne avevamo parlato sulla newsletter n. 56). A Locarno sarà premiata in Piazza Grande l’8 agosto, e saranno proiettati due film, di due dei registi con cui ha collaborato più spesso: Django Unchained di Quentin Tarantino ed Erin Brockovich di Steven Soderbergh. Inoltre, il 9 agosto alle 10.30 incontrerà il pubblico al Forum @Spazio Cinema. Noi l’abbiamo incontrata per chiacchierare del suo lavoro, del cinema delle donne e dell’industria cinematografica.
A noi di Singolare femminile piace molto questa usanza del Locarno Film Festival di premiare produttrici: sono nomi magari non noti al grande pubblico, eppure spesso si tratta di figure cruciali per il cinema.
Il lavoro che facciamo noi produttori, spesso, se lo facciamo bene, è abbastanza invisibile! Soprattutto ci tengo a dire che credo che Locarno abbia premiato così tante donne in questo campo perché ci sono tante donne di talento, è un campo aperto per noi, e i premi non arrivano perché siamo donne, ma perché abbiamo saputo affermarci nel nostro lavoro.
Come si diventa produttrice?
Non sono sicura che la strada che ho percorso io sia ancora percorribile oggi. Ed è vero che nessuno sa bene cosa faccia di preciso un produttore, anche membri della mia famiglia me l’hanno chiesto ogni tanto, io sono stata molto fortunata perché amavo molto il cinema al college, ma non ero ben sicura di cosa volessi fare. E poi ho incontrato questo professore, Douglas Gomery, che era curatore all’American Film Institute, che mi ha parlato di un incredibile programma alla University of South California, chiamato Peter Stark Producing Program. Non accettano molti studenti, ma ho fatto domanda e per miracolo sono stata presa. Stare in quell’ambiente mi ha permesso di avere una panoramica totale di quel mondo del lavoro. Gran parte dello sviluppare il proprio gusto sta nel guardare tante cose e leggere molto, e quello già lo facevo, ma alla USC ho imparato come un film è realizzato, distribuito, messo sul mercato, dall’acquisizione dell’idea allo sviluppo del copione alla produzione fisica. Senza quella esperienza e quelle opportunità non ci sarebbe davvero stata la chance che una ragazza di Fort Lauderdale in Florida, senza alcun contatto nel settore, fosse così fortunata da avere la carriera che ho avuto io.
Avevi solo 32 anni quando hai contribuito a cambiare la storia del cinema producendo Pulp Fiction, e con titoli come Giovani carini e disoccupati o Gattaca hai dato forma agli anni 90 sul grande schermo. Ci racconti come è andata?
Sono stata fortunata perché le persone con cui lavoravo, e che poi sono diventati i miei soci, Michael Shamberg e Danny DeVito, hanno sempre condiviso il mio stesso amore per il cinema, e l’amore per le voci originali. Nel caso di Giovani carini e disoccupati, Michael aveva prodotto Il grande freddo, e gli interessava sviluppare qualcosa che fosse una sorta di “Il grande freddo per ventenni”. Io ho trovato Helen (Childress, ndr, la sceneggiatrice del film), che si stava laureando in quel momento dal programma di scrittura della USC e aveva molto talento, siccome ero la più vicina a lei anagraficamente sono stata molto coinvolta nel progetto e nel lavoro di Ben Stiller, quando è salito a bordo come regista. Nel caso di Gattaca, Danny DeVito, che è anche un grande filmmaker, aveva la possibilità di offrire un buon livello di protezione a registi esordienti, come Ben appunto, e come Andrew Niccol, il cui primo bellissimo script, The Truman Show, era stato brillantemente diretto da Peter Weir. Niccol cercava qualcuno che potesse proteggere la sua visione e supportarlo come autore. Nel caso di Pulp Fiction, avevo letto la sceneggiatura di Le iene prima ancora che venisse girato, prima ancora che Tarantino ingaggiasse la sua troupe! Avevo letto del progetto su “Variety” o forse su “The Hollywood Reporter”, nelle rubriche dedicate ai film futuri negli Usa; ero abituata, ogni volta che vedevo un grande cast e non conoscevo il regista, a fare in modo di procurarmi lo script per leggerlo, e quando ho letto Le iene sono rimasta travolta, come chiunque legga un copione di Tarantino. Prima avevamo provato a ingaggiarlo per dirigere un film tratto da un libro, ma poi abbiamo finito per firmare un accordo a scatola chiusa per realizzare il suo secondo film, prima ancora che avesse girato una sola scena di Le iene. Ed è lì che sono diventata socia di Michael e Danny.
Con Tarantino hai lavorato ancora, per Django Unchained e poi per The Hateful Eight; anche con Steven Soderbergh hai realizzato tre film, ovvero Out of Sight, Erin Brockovich e Contagion. Come si lavora con registi così acclamati, e con idee così precise e innovative sul fare cinema?
Lavorare con Tarantino e con Soderbergh per tre film ciascuno è stato uno dei grandi onori della mia carriera, e spero ci saranno altre collaborazioni. Io e Steven stiamo lavorando a un progetto televisivo insieme, e c’è ancora da capire quale sarà l’ultimo capitolo della filmografia di mr Tarantino… Il fatto è che a me è sempre piaciuto studiare, voglio continuare a imparare, a cercare sfide, e quando lavori con altre persone che hanno voglia di mettersi alla prova, che sia tecnologicamente o artisticamente, in qualsiasi senso, è un’opportunità di crescere e di fare il tuo lavoro al meglio, perché vuol dire che non lo stai facendo svogliatamente. Ogni film è differente e il nostro lavoro è diverso per ogni film, che si tratti di registi affermati o di esordienti, ma alla fine si tratta di ricordare a tutti cosa ci siamo prefissi di realizzare, cosa è davvero importante, cosa non si può sacrificare, e ricordare che “no” non può essere una risposta per le cose fondamentali. Il lavoro di produttore è una via di mezzo tra quello dell’istruttore di un campo estivo e quello dell’editor letterario: devi saper fare entrambe le cose, incoraggiare e indirizzare.
Tu hai esperienza sia sul grande sia sul piccolo schermo, hai lavorato a varie serie tv, che differenze trovi, se le trovi, tra i due mondi? E come vedi la situazione attuale della serialità, pensi che si stia spegnendo l’era della prestige tv?
Lo storytelling è sempre storytelling e credo che la cosa più stimolante, ora che il rapporto tra cinema e tv è diventato più fluido, è che attori e registi e sceneggiatori possono scegliere, cercare studios o network o piattaforme che siano più adatti al modo di raccontare la storia che hanno in mente. Può essere che funzioni meglio raccontata in due ore, o in dieci ore, o in 5 anni! Io ho fatto uno show chiamato Sweet/Vicious con Jennifer Kaytin Robinson, con Robert Ben Garant per anni abbiamo fatto Reno 911!, con Alfred Gough e Miles Millar ho fatto Into the Badlands; Miles è il brillante creatore dietro Smallville e Mercoledì e anche lo sceneggiatore del nuovo sequel di Beetlejuice di Tim Burton. Ho imparato tantissimo da questi grandi showrunner, è una cosa che ti permette di migliorarti, certo c’è la pressione delle tempistiche con le serie tv, ma ora che la differenza di distribuzione ha fatto sì che non siano più necessari i 22 episodi a stagione, le cose sono diverse. E penso che, certo, siamo ancora in piena prestige tv, pensa a Shogun, a The Bear, a Hacks! È un periodo molto eccitante. La regina degli scacchi è stato realizzato dal mio caro amico Scott Frank, col quale ho fatto tre film e che ha creato anche Godless e Monsieur Spade, ottimi lavori. Continueremo a lavorare su entrambi i media, vuol dire semplicemente avere la possibilità di scegliere la forma migliore per le proprie intenzioni.
Come ti sembra sia cambiata l’industria cinematografica nei confronti delle registe donne, rispetto a quando hai iniziato?
Penso sia anche una questione di circolo virtuoso, per ogni Sofia Coppola e Kathryn Bigelow abbiamo più Greta Gerwig ed Emerald Fennell. Quando io ho cominciato c’erano grandi registe, come Amy Heckerling per esempio, ma era una cosa rara. Perfino il passaggio di Nora Ephron da sceneggiatrice a regista, o Nancy Meyers, erano cose infrequenti. Era rischioso, perché se una donna faceva anche un solo flop ci voleva davvero tanto tempo prima di rimettersi in sella. Agli uomini erano concessi almeno tre strike, diciamo; ma per noi donne le regole sono più rigide, e in più sentiamo su di noi la pressione di non fallire per non compromettere il successo di tutte le altre, come accade a ogni gruppo sotto rappresentato. Quando io ho cominciato le uniche due aeree in cui vedevi le donne fare carriera era come produttrice o come attrice. Quindi la visibilità è sicuramente importante, come dimostra anche l’ottimo lavoro che Geena Davis sta portando avanti (con il suo Institute on Gender in Media, ndr): non puoi essere quel che non puoi vedere.
A proposito di rappresentazione femminile: tra i lavori che hai prodotto c’è un gioiello come Matilda 6 mitica di Danny DeVito, a mio parere davvero importante, insieme al romanzo di Roald Dahl da cui è tratto, per parlare di talento e intelligenza femminile.
All’epoca ci dissero che i bambini maschi non avrebbero voluto vedere le avventure di una bambina, ma allora perché invece andava bene per noi aver visto per tutta la vita avventure maschili? Negli anni 90 c’era ancora questa onda di donne nel rock, le riot grrrl, e Courtney Love diceva sempre «non sposare una rockstar, sii la rockstar; non sposare il quarterback, sii il quarterback». E tornando alla tua domanda precedente, la cosa importante è trovare il modo di aprire la porta per far entrare nuove voci, perché solo le voci nuove mandano avanti la nostra industria. I Daniels, Barry Jenkins, Ti West, Celine Song: ogni volta che arriva un nuovo talento di quella portata, è questo che ci permette di continuare. O Greta Gerwig, certamente. La lezione sbagliata da imparare da Barbie è «ora puntiamo tutto sui giocattoli»: no, quel film non sarebbe la stessa cosa senza la sua voce di artista e il suo punto di vista, né senza la presenza di Margot Robbie come produttrice. E alla fine mi piace ricordare che il grande William Goldman iniziò il suo libro Adventures in the Screen Trade con la frase: «Nessuno sa niente». Non c’è niente di sicuro, se ci fosse allora ogni film e ogni serie sarebbe un successo.
Come scegli i progetti da produrre?
Suonerà arbitrario ma mi baso su cosa mi entusiasma. Ho appena fatto un film che sarà distribuito da A24 diretto da Beck e Woods, già sceneggiatori di A Quiet Place, ed è un horror, e non avevo mai lavorato con quel genere prima (il titolo è Heretic, ndr). Ma la loro voce originale, la loro scrittura mi hanno fatto dire «hell, yes!». È fantastico, ci sono Hugh Grant, e Sophie Thatcher e Chloe East, e sarà presentato a Toronto. Ed è così che funziona per me, è una faccenda molto personale: mi sarebbe piaciuto poter dire «farò solo action, o rom com, etc»? E ai primi tempi della Jersey Films c’erano persone (non Danny o Michael!) che avrebbero voluto che facessi quel tipo di film, ma invece io ero attratta da cose come Pulp Fiction o Gattaca! Una cosa che il mio ex socio Michael diceva sempre era che se punti in alto e sbagli, puoi sempre andare in giro a testa alta. Gattaca, per esempio, non è stato un successo e non ha avuto nemmeno recensioni stellari; buone, non ottime. Il film era avanti sui tempi. Non sempre si può essere nello Zeitgeist. Matilda è andato abbastanza bene, e ha avuto buone recensioni, e ora è un classico, così come, a distanza di 30 anni, lo è anche Giovani carini e disoccupati; certo, Pulp Fiction ha cambiato la storia del cinema, ma non è una cosa che si può fare sempre. La cosa importante, ma anche difficile, è non cercare di inseguire quella magia, ma inseguire ciò che davvero ti piace, e che fa per te. Non sarò necessariamente la persona che trova i film del futuro; ma saprò riconoscerli, se li vedo. Quindi il trucco è anche circondarsi di persone intelligenti, che amano il film quanto te, che condividono lo stesso gusto per il cinema, e fidarsi di loro. Quando l’attuale co-presidente della Warner, Pam Abdy, era presidente della produzione alla Jersey Films (aveva iniziato come stagista, ed era già una forza della natura!), ha ricevuto la proposta per Garden State (che compie vent’anni quest’estate!), ha detto «questa sono io, è la mia generazione», lei ha dieci anni meno di me e io le ho detto, certo, facciamolo! È questo che bisogna fare, bisogna incoraggiare i giovani. I miei figli hanno 20 e 22 anni, a volte li vedo ridere per qualcosa e mi sento dire «non lo capiresti, dobbiamo spiegartelo», ma il mio lavoro è proprio restare aggiornata sulla cultura, per poter rimanere rilevante. Io credo che ci siano grandi film in ogni decennio. Oggi si guarda ai film degli anni 80 come se fossero uno scrigno di tesori, ma all’epoca erano considerati spazzatura, perché eravamo cresciuti col cinema dei 70. E lo stesso vale per i film del nuovo millennio, ci saranno nomi che resteranno importanti, ma non è che puoi scoprirne uno ogni settimana. La grande differenza sta nell’offrire una rete di sicurezza più solida per gli artisti, nel cinema come nella musica, anziché sparare contenuti a iosa per servire gli inserzionisti. E i giovani sanno capire la differenza: la A24 ora è un brand, la Neon pure, e prima o poi avranno un significato e un’importanza per le persone alla stregua di come ce l’hanno Disney o Universal oggi. E vederlo succedere è eccitante! Io ho iniziato a lavorare nel 1987, tutti mi dicevano «ti sei persa l’epoca d’oro di Hollywood», ma dipende dal punto di vista.
Siamo partite parlando di premi per le donne, e sul tema ci sono spesso polemiche: da un lato io penso che siano cruciali per dare visibilità al cinema femminile, dall’altro dopo un paio di Palme e di Leoni vinti da registe, in giro si sente spesso dire che vincono “solo perché sono donne”, e questo è davvero controproducente. Cosa ne pensi?
Lasciami dire intanto che Justine Triet ha vinto la Palma perché ha fatto un film spettacolare (Anatomia di una caduta, ndr). Non perché è una donna, ma perché è una grande regista. La ragione per cui ce ne sono tante è perché sempre più donne stanno realizzando che posso esprimersi creativamente nel cinema. Voglio dire, guarda l’esordio di Celine Song (Past Lives, ndr)! È bellissimo. Quindi: vediamo di iniziare a parlare di queste donne come i grandi geni con cui spesso etichettiamo i registi maschi. Iniziamo a guardare alla filmografia di Sofia Coppola come guardiamo a quella di Paul Thomas Anderson. Per fare il filmmaker oggi bisogna davvero essere un survivalista, crescere come un fiore in mezzo al cemento. Questo vale per tutti, non solo per le donne. Quando abbiamo fatto Mrs. America è stato un esperimento interessante perché abbiamo deciso di assumere solo donne per dirigere la serie, e tutti ci dicevano «eh, ma sono così poche!». Solo che invece non sono affatto poche. Janicza Bravo, che è incredibilmente talentuosa, aveva già girato Lemon all’epoca, ed era nella fase di post-produzione di Zola, prima di dirigere il suo episodio di Mrs. America; poi c’era Anna Boden, che lavora col suo partner Ryan Fleck e quindi scherzavamo dicendo che Ryan era il nostro “token maschio”; e poi Laure de Clermont-Tonnerre, Amma Asante… avevamo l’imbarazzo della scelta di ottime registe. Questo non vuol dire affatto che un uomo non possa raccontare una storia di donne; né che una donna non possa raccontare quella di un uomo, sarebbe limitante. Non si può dire che Eva contro Eva non abbia compreso le donne solo perché non era diretto da una donna! La cosa importante è rimanere vicendevolmente in ascolto. ILARIA FEOLE
Con un cast stellare e le registe sopracitate al timone, Mrs. America è stata una delle migliori serie del 2020: vi riproponiamo la recensione, dal n. 44/2020 di Film Tv.
Mrs. America
Catfight, “rissa tra femmine”. È la definizione dispregiativa con cui, per anni, è stato liquidato ogni dibattito quando, dai due lati della barricata, ci sono state le donne. Ed è anche la lente attraverso cui una parte dell’opinione pubblica americana, negli anni 70, deve aver seguito la lotta scatenatasi intorno all’Equal Rights Amendment tra una coalizione di movimenti femministi e la resistenza guidata dalla casalinga ultra-reazionaria Phyllis Schlafly. È proprio su questa lotta che si impernia Mrs. America, che è prima di tutto una cronaca puntuale di quella vicenda politica: l’iter legislativo ne è l’ossatura; la ricostruzione ammaliante del look del tempo il tessuto connettivo; le donne che vi presero parte, da uno schieramento e dall’altro, il cuore pulsante. Tra loro troneggia naturalmente Phyllis Schlafly, una Cate Blanchett mimetica e dunque luciferina, fervida sostenitrice di quello stesso sistema che la relega poi, in quanto donna, ai margini della vita politica. Mrs. America scansa abilmente la tentazione di farne un villain: Schlafly fa dell’attivismo anti-femminista uno strumento per evadere da quello stesso ruolo domestico che, a parole, celebra, e occupa nello spazio sociale la posizione indefinibile di chi è subalterno e insieme dominante (spoiler: i “privilegi femminili” che si ostina a difendere - non lavorare in primis - sono, in realtà, privilegi di classe). Mette in scacco le nostre certezze di spettatori fermamente decisi a non concederle il beneficio dell’empatia, e ci ricatta costringendoci a un lavorio continuo della coscienza. La sua ambivalenza la eleva a statura tragica, riuscendo a dar conto di una contraddizione in verità capillare (e chiarendo una volta per tutte un clamoroso punto cieco: le posizioni sessiste restano tali anche quando sono le donne a farsene voce, e il fenomeno non smentisce l’esistenza di un sistema di valori che le marginalizza, ma semmai ne dimostra la pervasività). Eppure, a dispetto del suo titolo trionfalmente singolare, questa serie non è un one woman show: ogni puntata, incentrata su una diversa protagonista di quella stagione politica (anche e soprattutto tra le femministe nemiche di Schlafly) ci costringe a una continua rinegoziazione del punto di vista. Mrs. America, insomma, si rifiuta di rifilarci l’utopia rassicurante di una sorellanza generica e trasversale, e lo dice ben chiaro: tra le sostenitrici dell’ERA ci furono donne madri e donne che avevano abortito, democratiche e repubblicane, bianche e nere, eterosessuali e omosessuali. Donne che la pensavano diversamente le une dalle altre, che discutevano animatamente, che facevano politica nel senso più autentico del termine. A dimostrazione che le contraddizioni in seno a quei movimenti non ne rivelavano la debolezza, ma trovavano semmai le loro radici in quello che, del femminismo, è stato sempre il punto di partenza: l’esercizio della dialettica, la pratica sistematica del dubbio sulle categorie di pensiero ricevute, la critica di ogni assunto, la decostruzione quotidiana del proprio sguardo. Altro che catfight. MARIA SOLE COLOMBO
Fino al 4 agosto è in corso il Bobbio Film Festival, quest'anno sottotitolato Plurale femminile: tutti i film in programma in questa 27ª edizione sono infatti diretti da registe, una scelta voluta dalla direttrice di Fondazione Fare Cinema Paola Pedrazzini insieme a a Marco Bellocchio e a Pier Giorgio ed Elena Bellocchio. Tra i titoli in cartellone: La guerra del Tiburtino III di Luna Gualano (31/7), Volare di Margherita Buy (1/8), L’arte della gioia di Valeria Golino (2 e 3/8).
Una newsletter che non ci stanchiamo di consigliarvi è Ghinea: nel numero di luglio si parla di un film che amiamo molto, Piccolo corpo di Laura Samani (ne scrive Cristina Resa, già guest di Singolare femminile) e del reality queer I Kissed a Girl: si legge qui oppure, nella versione pdf, qui.
Mentre sono in scena le Olimpiadi di Parigi, vi consigliamo un film appena approdato su MUBI, in concorso alla Settimana della critica di Venezia 2023: Life Is Not a Competition But I’m Winning di Julia Fuhr Mann è un documentario poetico, sospeso tra cronaca e utopia, in cui si raccontano le vite, le lotte e i record di atlete transessuali e intersex, infrangendo gli stereotipi legati ai corpi nelle competizioni sportive.
Singolare femminile si prende una pausa per l’estate! Torniamo con il numero di mercoledì 28/8. Buon agosto!