Singolare, femminile - #004: Non in questo mondo
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#004 - Non in questo mondo
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Compie 30 anni Thelma & Louise, film di culto con due protagoniste divenute icone del femminismo sul grande schermo. Cosa è rimasto al cinema della carica eversiva di quei personaggi? Ripercorriamo la storia del film e il suo peso nell’immaginario collettivo.
Come si può ragionevolmente immaginare, la MGM era un po' contrariata dal finale di Thelma & Louise, nel quale (speriamo non si tratti più di spoiler per nessuno, ma se non lo avete visto riparate subito, il film è disponibile su SkyGo e Now) le due protagoniste corrono incontro alla morte a bordo di una Ford Thunderbird decapottabile. Le major, si sa, sono fatte così: cercano sempre il lieto fine, qualcosa di più vendibile, che non deprima gli spettatori seduti in sala per un po' di sana evasione. La vulgata vuole, però, che un finale migliore di quello non si riuscisse a trovare, e che la MGM infine si arrese, permettendo così di confezionare uno dei momenti (e, per estensione, dei film) più cruciali e influenti del grande schermo al femminile. Thelma & Louise ha appena compiuto trent'anni (negli Stati Uniti uscì il 25 maggio 1991; in Italia qualche mese più tardi) e vorremmo poter dire che la sua eredità è stata raccolta e amplificata in tre decenni di narrazioni audiovisive, ma sarebbe solo parzialmente vero: gli epigoni e i derivati, non pochi, del grande film di Ridley Scott hanno raccolto soprattutto l'attitudine e la grinta badass delle protagoniste, il fascino dell'on the road attraverso il deserto, il concetto - sovente a doppio taglio, nel suo rispondere pigramente a cliché dell'immaginario maschile - delle pistolere a piede sciolto.
Ma nel film scritto dall'esordiente trentaquattrenne Callie Khouri (premiata con l'Oscar per la migliore sceneggiatura, nella foto sopra) c'era molto più di questo, a partire dall'avvenimento che innesca la fuga senza ritorno delle due donne, ovvero l'uccisione dell'uomo che aveva tentato di stuprare Thelma; la possibilità di fermarsi, di spiegare alle forze dell'ordine che l'omicidio era stato provocato da una violenza subita, non è contemplata, perché la versione delle due donne non avrebbe peso, non sarebbe ascoltata o creduta in un sistema sessista come quello che il film dipinge in modo lancinante.
Thelma e Louise percorrono i luoghi classici della Frontiera (Arkansas, Oklahoma, Colorado: i paesaggi su cui si aprono i titoli di testa del film), la terra su cui gli Stati Uniti sono stati edificati, e nel sollevare la polvere ai lati di quelle strade, nell'attraversare quei panorami - così infallibilmente legati al genere western, nel quale è ben chiaro il ruolo delle donne nel mito tutto maschile della fondazione - passano anche attraverso la cultura patriarcale che è stata parte integrante della nascita di una nazione. Quello è il mondo in cui Thelma e Louise vivono, le cui regole sono state loro imposte senza che un'alternativa fosse mai contemplata; quando Thelma ipotizza di confessare alla polizia, di raccontare il tentativo di stupro, Louise è categorica: «Non viviamo in quel mondo». Non in un mondo dove una donna che è stata vista ballare e alzare il gomito insieme a un uomo possa essere creduta quando afferma che lo stesso uomo l'ha costretta a un rapporto sessuale non consensuale. No, il mondo di Thelma & Louise è un altro, e trent'anni dopo è sostanzialmente ancora quello, nonostante ci si batta e a volte si arranchi per cambiarlo. È bello notare come a lottare ancora per quel cambiamento siano anche coloro che a Thelma e Louise hanno dato corpo e voce: Geena Davis e Susan Sarandon sono rimaste legate a quei ruoli indelebili nell'immaginario, ma anche nella vita, entrambe militando, in modi diversi, per politiche progressiste. Sarandon è una femminista, pacifista e attivista per i diritti civili (nel 2018 è stata arrestata mentre protestava contro Trump durante una manifestazione di Women Disobey) e Davis ha fondato il Geena Davis Institute on Gender in Media, che dal 2004 (ben prima che questi temi diventassero di moda, sia per chi li sostiene sia per chi li deride) opera per il raggiungimento dell'equità fra sessi nell'industria audiovisiva.
Il mondo è ancora quello, dicevamo, e sarebbe bello che la complessa eredità femminista di Thelma & Louise avesse lasciato un segno più radicale su Hollywood: il modo in cui, per esempio, viene affrontata la questione della responsabilità e della presunta complicità nel tentato stupro è nel film un punto cruciale nel rapporto tra le due protagoniste, che affrontano, lungo i giorni della loro fuga, un percorso di «risveglio» (così lo definisce Thelma) che le porta progressivamente a rivedere le proprie posizioni. Se Louise si erge a vendicatrice puntando la pistola, non può trattenersi, da principio, dall'accusare Thelma di essersela cercata perché «aveva voglia di divertirsi»; una stortura dura a morire, che la sceneggiatura sapientemente approccia dal punto di vista femminile, arrivando per gradi alla piena consapevolezza che la responsabilità non può mai essere della vittima («se c'è una cosa che ormai dovresti aver capito è che non è stata colpa tua» è una delle ultime frasi che Louise rivolge a Thelma). La scrittura stratificata del film si deve anche a Sarandon in persona: l'attrice ha contribuito alla sceneggiatura in modo sostanziale, aggiungendo il bacio finale tra le due protagoniste (di cui neanche Ridley Scott era a conoscenza al momento del ciak) e riscrivendo insieme al suo compagno di allora Tim Robbins la sequenza in cui Louise passa la notte con il partner Jimmy, eliminando il finto matrimonio simbolico previsto dallo script. Si può dire che Sarandon avesse compreso il concetto di libertà di Louise perfino meglio della sua creatrice, prendendosi la responsabilità di delineare un personaggio femminile del tutto privo di interesse per una realizzazione che passi tramite lo status matrimoniale, seppur simbolico.
Non tutto, chiaramente, è merito della sceneggiatura: Ridley Scott si mette al servizio di un'ipotesi ancora troppo rara di female gaze, lo sguardo femminile contrapposto al male gaze dominante nella storia del cinema, confezionando l'entrata in scena di Brad Pitt come un perfetto controcanto delle innumerevoli feticizzazioni del corpo femminile al cinema. Qui, invece, Pitt è caratterizzato come un cowboy sexy, stereotipato nella sua bellezza da poster, con gli addominali scolpiti in bella vista e un armamentario di pose da ragazzo immagine (fra l'altro ironicamente richiamate da Quentin Tarantino, quasi trent'anni dopo, con lo spogliarello del medesimo Brad Pitt in C'era una volta a... Hollywood), esasperandone gli elementi seduttivi in modo plateale, senza dare al suo personaggio uno spessore che vada oltre questa erotizzazione. Un ribaltamento rivelatorio che scardina lo sguardo convenzionale.
Perché sì, Thelma & Louise è anche un film teorico, per i motivi succitati e soprattutto per quel famoso finale da cui siamo partiti: un finale che è la dimostrazione per assurdo di un possibile teorema sulla condizione femminile, ovvero che per ottenere una vittoria, per sconfiggere un sistema, la donna è costretta ad annullarsi, a volare nel vuoto del Grand Canyon, a perdere tutto per poter vincere. È quanto accade anche in Una donna promettente, un altro film che trent'anni dopo parla di storture nella lettura di casi di violenza sulle donne, di un sistema patriarcale così radicato da risultare norma, di una donna (ma anche lì erano due) che si imbarca in un'impresa da cui non può uscire vincitrice. Se non sparendo di scena, come Thelma e Louise in un volo eternato dal freeze frame, davanti agli occhi esterrefatti di Harvey Keitel e nostri. ILARIA FEOLE
Film Tv ha dedicato un intero numero al cinema femminile nel febbraio 2018; in quell’occasione abbiamo regalato la locandina di Thelma & Louise, commentata da Alice Cucchetti e Fiaba Di Martino con un percorso di contestualizzazione nel genere rape and revenge che arrivava fino a Revenge di Coralie Fargeat.
Into the Wild
Le storie arrivano in tutte le forme. Quelle delle donne spesso sono tonde (cerchi, chiusure, ritorni a casa, ricomposizioni - oppure corsi e ricorsi irreconciliabili), agli uomini (variante: lui & lei contro il mondo) capita più di frequente la linea dritta. Come un proiettile, un treno, o un’autostrada che corre in mezzo al deserto. L’esplorazione, l’avventura, la conquista, la vendetta, la fuga: alla fine della strada il Messico non c’è quasi mai, ma - dice il saggio - non conta la meta, bensì il viaggio. E poi c’è Thelma & Louise: sceneggiatura di una esordiente (Callie Khouri, che ai primordi del progetto avrebbe dovuto anche dirigere, con stile documentaristico e basso budget) e regia di uno (Ridley Scott) che nel 1991 si porta ancora addosso l’etichetta di “pubblicitario” come fosse un’infamia, nonostante l’immortale tripletta I duellanti, Alien e Blade Runner. Mettono due amiche ai posti di guida del canonicamente maschile buddy movie (ben prima che a Hollywood iniziassero a chiamare la pratica gender swap) e subito sembra una cosa nuova, inaspettata. In realtà, cinematograficamente parlando, di inedito non c’è poi moltissimo, i generi qui si inseguono tra loro come gli sbirri di Harvey Keitel lanciati in coda alla Thunderbird verde di Louise, inquadrati in immagini lucide e pastose, come si fosse sempre al tramonto: momenti di commedia pura, romanticismo, uno squarcio d’erotismo, il romanzo di formazione, l’indagine del poliziesco, il più classico dei road movie e, naturalmente, il western (ci torniamo). Inedito è il mix, e inedite sono Thelma/Geena Davis e Louise/Susan Sarandon, la chimica contagiosa che le accende, il loro aspetto (i personaggi hanno 37 anni, Davis ne aveva 35 e Sarandon 45, già oltre il limite di invisibilità di tanti casting hollywoodiani) e il loro rapporto di profonda amicizia. «Come Thelma e Louise» diventa un modo di dire qualcosa che esisteva già, ma che sullo schermo, grande come il cielo d’America, così azzurro e arancione, ancora non s’era visto. Con inevitabile coda di controversie (Thelma & Louise sarebbe “propaganda anti-maschi”; Khouri lo spiega bene: «Se un uomo si sente a disagio guardandolo, forse si sta identificando nel personaggio sbagliato»), ma generale successo di pubblico e critica, installazione istantanea nell’immaginario collettivo, sei nomination all’Oscar e una vittoria (script originale) l’anno successivo. Nell’edizione in cui trionfa Il silenzio degli innocenti e ben quattro donne vengono elette al senato Usa, dopo la storica deposizione di Anita Hill che in diretta tv mette all’ordine del giorno le molestie sul luogo di lavoro: il 1992 viene incoronato “l’anno delle donne” (manco fosse il 2017). «Qualcosa è scattato, dentro di me, ed è cambiato tutto», dice Thelma a Louise, a un certo punto, ma in inglese è crossed over, “passare un confine”. «Ottieni quello che ti meriti» è una frase che Louise ripete spesso, ma in inglese è settle, che vuol dire accontentarsi, ma anche stabilirsi, sistemarsi, e pure colonizzare, tirar su una città, come i pionieri e i padri pellegrini. Nella negoziazione infinita tra civilizzazione e wilderness, Thelma & Louise sfreccia, capelli al vento e polvere, dritto, come un’autostrada nel deserto, dentro la natura selvaggia. Sigilla l’angosciosa ricerca controculturale on the road (un’alternativa, vi prego, all’omologazione della vita borghese!) e la fiera rivendicazione femminista di un’identità oltre al ruolo (di moglie-madre-fidanzata). Sulla strada, Thelma e Louise lasciano tutto, un pezzo dopo l’altro, “dis-addomesticandosi”: i vestiti, il rossetto, i gioielli, l’orologio. Li barattano con cappelli da cowboy, fazzoletti da legare al collo, pistole e occhiali da sole. Su una linea retta e libera, verso una Frontiera che ancora non è sparita: sta lì, davanti, l’unica direzione possibile. ALICE CUCCHETTI
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L'impensato del cinema
«Perché ti comporti così con donne che nemmeno conosci? E se qualcuno lo facesse con tua madre? O tua sorella? O tua moglie? Chiedi scusa». Il momento - nel suo (apparente) piccolo - aurorale e spartiacque in cui Thelma e Louise rimettono a posto il camionista che le importuna è una linea oltrepassata, una catena saltata, nella lunga strada percorsa dal femminismo nel cinema, nel suo immaginario più popolare, immediato e incidente sulla cultura di massa, sino ad allora povero di paladine riconosciute e fondative (come Rossella O’Hara, o l’altra donna scottiana Ripley). Per la teorica Carla Lonzi, la differenza sostanziale delle donne è la loro assenza dalla storia (anche cinematografica), per cui è necessario «approfittare di questa differenza»: Thelma e Louise lo fanno riconoscendola come tale, lottando per denunciarla, segnalando la necessità di emanciparsi da una condizione inosservata, sradicando un automatismo comune (le molestie verbali). Il loro esserci non può più essere un «impensato» (Luisa Muraro). Nel cinema l’evoluzione si attua prima di tutto sul piano del ruolo, da oggetto del desiderio (di conquista, di esposizione, comunque sempre subordinato) a soggetto proattivo, ed è significato quasi sempre rivestire le figure femminili di attributi maschili (le virago: le Sarah Connor, le Lara Croft, le Nikita), o lasciarle confinate in generi targettizzati e perciò limitanti, come il chick flick (con varie rivincite di bionde), o ancora lavorandovi all’interno di corpus autoriali (da Chantal Akerman a Margarethe von Trotta) lontani dai riflettori. Oggi che il cambiamento è richiesto a gran voce, e nell’industria culturale “femminismo” persiste come sinonimo di “prodotto” (i franchise delle eroine ribelli Hunger Games o Divergent e dei remake cambiati di segno, da Ghostbusters a Ocean’s 8), svolto come una rivincita superficiale del politicamente corretto, sono proprio alcuni blockbuster a dimostrare un introiettamento della differenza da un punto di vista qualitativo, quello delle peculiarità femminili non “testosteronizzate”: Mad Max: Fury Road, Star Wars, i manifesti di autodeterminazione disneyana (Ribelle - The Brave, Frozen, ma soprattutto Oceania, che punta sulla rivendicazione di un’identità prima che su un sottolineato rifiuto della love story come imprescindibile in un racconto “al femminile”). Un passo ulteriore lo compie l’esordiente Coralie Fargeat con Revenge, riscatto femminista su un genere - il rape and revenge - e su un sistema - quello fallocratico - che unisce l’appeal commerciale e seduttivo a un discorso sociologico (e cinefilo) finissimo. Per una nuova educazione dello sguardo. FIABA DI MARTINO
[pubblicato su Film Tv n° 06/2018]
Ilaria Ravarino ha creato per MyMovies una mappa per orientarsi nel mondo delle registe italiane, dalle pioniere come Lina Wertmüller alle documentariste emergenti, passando anche per il piccolo schermo.
Fino al 18 giugno Another Screen (la piattaforma streaming della testata femminista Another Gaze) programma gratuitamente una rassegna (in continuo aggiornamento) di film firmati da registe palestinesi, curata da Daniella Shreir.
Donne indipendenti: il cinema innovativo di Márta Mészáros è il titolo della rassegna (in corso: nuovi titoli in arrivo) su MUBI dedicata alla prima donna ungherese dietro la macchina da presa; la retrospettiva contiene 7 dei suoi 30 lungometraggi.
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