Singolare, femminile ♀ #056: Blessed Be the Fight
Nei primi giorni di giugno, su HBO, è andato in onda The Janes, un documentario che ricostruisce il lavoro portato avanti, nei primi anni 60, da un’associazione clandestina di donne di Chicago per fornire, a chi ne avesse bisogno, un aborto illegale ma sicuro. Un film che, dopo la recente sentenza della Corte suprema, si è trasformato improvvisamente da testimonianza del passato ad anticipazione credibile del prossimo futuro.
The Janes, documentario di Tia Lessin e Emma Pildes presentato al Sundance Film Festival di quest’anno (in curiosa concomitanza con Call Jane, film di finzione ispirato alla medesima vicenda, con protagonista Elizabeth Banks e diretto dalla sceneggiatrice di Carol Phyllis Nagy) e mandato in onda da HBO con agghiacciante tempismo nei primi giorni di giugno, si chiude con un lieto fine: la sentenza della Corte suprema sul caso Roe v. Wade, nel 1973, sancisce per le donne statunitensi il diritto all’aborto libero e sicuro. The Janes racconta la storia vera di un’organizzazione clandestina di donne di Chicago, femministe, per la maggioranza bianche, benestanti e istruite, che alla fine degli anni 60 mettono in piedi un sistema per offrire la possibilità, a chiunque ne abbia la necessità e il desiderio, di interrompere la propria gravidanza senza rischiare la vita. Trovano un uomo (che inizialmente credono un medico, anche se poi scopriranno che non lo è) che sa effettuare l’operazione con efficacia e gentilezza, disseminano la città di volantini criptici ma perfettamente comprensibili a chi ne ha bisogno («Sei incinta? Chiama Jane a questo numero»), raccolgono le informazioni mediche basilari di chi le contatta, spiegano e rassicurano, chiedono a ognuna di pagare secondo le proprie possibilità così da permettere a chi è senza soldi di avere comunque accesso alla procedura, si fanno prestare appartamenti e stanze, ogni volta diversi, in cui effettuare l’intervento, trasferiscono le pazienti da una struttura a un’altra accertandosi come possono di non essere seguite. Più avanti, scoprendo che il misterioso “Mike”, per quanto bravo, non è davvero un dottore, alcune di loro si fanno insegnare direttamente come fare un aborto, e lo sostituiscono.
Sono donne normali, più o meno giovani, alcune ancora all’università, altre da poco laureate. A qualcuna di loro è toccato in passato di doversi affidare alla mafia per interrompere una gravidanza, ricevendo un trattamento commisurato alle centinaia di dollari che poteva sborsare; qualcun’altra ha trovato la propria compagna di stanza sul punto di morire dissanguata nel bagno del campus. All’ospedale di Chicago c’è un reparto riservato alla setticemia abortiva: ogni settimana diverse donne ci muoiono, dopo aver tentato di praticarsi un aborto con un ferro da calza o una gruccia di metallo. Molte delle “Jane” sono attiviste di sinistra, frequentano i movimenti contro la guerra in Vietnam, se sono nere anche la sezione locale del Black Panther Party, alcune hanno preso le manganellate della polizia negli scontri avvenuti durante la convention democratica del 1968… Ma in quei contesti il megafono è sempre in mani maschili, dei diritti delle donne sembra non importare davvero a nessuno, qualche “compagno” intima direttamente loro di stare zitte e farsi da parte. Costruiscono “Jane” con la naturalezza e l’inevitabilità con cui si fanno le cose indispensabili, consapevoli dei rischi che, infatti, a un certo punto si concretizzano: una soffiata, una retata della polizia, alcune di loro vengono colte in flagrante, l’accusa chiede una pena di 110 anni di carcere a testa. Ma è il 1973, la loro avvocata riesce a tirare il processo per le lunghe fino alla sentenza Roe v. Wade: a quel punto non solo cadono tutte le accuse, ma “Jane” non serve più. Non serve più nemmeno il reparto di setticemia abortiva dell’ospedale di Chicago.
Guardare The Janes è un’esperienza straniante, e arrivati alla conclusione si rischia una sorta di scissione percettiva: il senso di sollievo, di libertà, di giustizia che il film costruisce e che le sue protagoniste raccontano si frantuma contro i colpi di un’attualità inconcepibile. Il “lieto fine” del 1973 si schianta, come in un cortocircuito temporale, contro un 2022 in cui una nuova Corte suprema ha rovesciato quella sentenza cruciale, eliminando la protezione federale del diritto all’aborto e demandando le decisioni in materia alle amministrazioni statali, con l’effetto immediato di vietare l’IVG legale in almeno una ventina di stati. Improvvisamente, tutto ciò che abbiamo visto nei 100 minuti di The Janes – un documentario sobrio e preciso, che non necessita di sentimentalismi o retorica, ottimo nella ricostruzione del periodo e ricco di testimonianze dirette delle “Jane” ancora in vita – non è più il passato, ma il futuro. Lo raccontava la giornalista Jessica Bruder, già autrice del reportage da cui è stato tratto Nomadland, in una lunga inchiesta pubblicata sull’”Atlantic” che vi avevamo suggerito di leggere nella newsletter n. 46: la sentenza emessa dalla Corte venerdì scorso era attesa, da anni, perché frutto di un’accurata strategia della destra evangelica e antiabortista (che ha compattamente sostenuto Trump proprio perché avrebbe scelto i giudici giusti), e reti clandestine determinate a fornire un aborto sicuro a chi ne abbia bisogno stanno risorgendo da tempo in tutti gli Stati Uniti.
In un altro articolo molto condiviso in questi giorni, Jia Tolentino nota sul “New Yorker” che no, l’America non tornerà ai tempi “pre Roe v. Wade”: la situazione sarà molto peggiore. Perché, se da un lato il progresso scientifico ha messo a disposizione metodi di interruzione di gravidanza immensamente più sicuri e semplici da ottenere (nello specifico, le pillole abortive), dall’altro ha aumentato a dismisura le possibilità di controllo e ridotto la privacy: ogni interruzione di gravidanza, voluta oppure no, potrà essere oggetto d’indagine, e le informazioni raccolte, per esempio, dai motori di ricerca o dalle app di monitoraggio del ciclo mestruale potranno essere utilizzate come prove di un crimine che coinvolgerà non solo la persona che ha abortito, volontariamente o meno, ma anche medici, operatori sanitari, familiari, amici, attivisti. Il fatto è che, dagli anni 60 a oggi, è cambiato profondamente anche l’attivismo che si definisce (con straordinaria ipocrisia) “pro-life”: come ha mostrato perfettamente la miniserie Mrs. America, ai movimenti femministi della seconda ondata (quelli che, appunto, si sono battuti, nel corso soprattutto degli anni 70, per la legalizzazione dell’aborto oltre che per la parità dei diritti tra uomini e donne sul luogo di lavoro e in famiglia) si è contrapposta una reazione sempre più conservatrice ed estremista, che ha spazzato via qualsiasi tipo di terreno politico comune sui temi dei diritti civili – una reazione efficacissima in termini di voti e di consenso, ma che da allora a oggi sta minando sempre di più le fondamenta democratiche dell’Occidente: è anche per questo (se ci fosse bisogno di un’ulteriore ragione) che le lotte sui corpi delle donne e delle persone marginalizzate riguardano tutti. Se, nota sempre Tolentino, una volta il movimento antiabortista era dominato da cattolici progressisti e pro-walfare, oggi chi porta avanti la “causa” non sembra minimamente interessato a sostenere un sistema di supporto per chi ha figli, ma solo a proporre leggi sempre più restrittive e punitive, a eliminare eccezioni (come quelle relative allo stupro e all’incesto), a lanciarsi all’attacco anche del diritto alla contraccezione, oltre che di altre grandi conquiste sociali e civili degli ultimi anni. Si tratta di un movimento conservatore e repressivo transnazionale, come dimostrano le campagne portate avanti dalla destra anche in Italia, e come è stato lampante, per esempio, in occasione del Congresso mondiale delle famiglie di Verona, nel 2019.
La notizia dell’affossamento di Roe v. Wade, venerdì scorso, ha evocato quasi in automatico lo spettro di un preciso mondo “finzionale”, protagonista di un romanzo e di una serie tv di grande successo: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, e la sua trasposizione The Handmaid’s Tale. È fondamentale notare che il libro è stato scritto da Atwood nel 1985, proprio come prima inorridita risposta al movimento reazionario di cui sopra: l’autrice non ha mai nascosto di essersi ispirata, per il personaggio di Serena Joy, all’attivista di estrema destra Phyllis Schlafly (nella serie Mrs. America è impersonata da un’inquietantissima Cate Blanchett). Ed è importante ricordare ancora, come più volte ha fatto la scrittrice stessa, che Atwood non s’è inventata nulla: tutto ciò che accade alle donne di Gilead, accade ancora oggi da qualche parte del mondo o è accaduto a un certo punto della Storia. La penetrazione nell’immaginario collettivo, e soprattutto nell’iconografia della lotta per i diritti riproduttivi, di The Handmaid’s Tale è dovuta, certamente, al suo fortuito “tempismo”: la serie è arrivata sugli schermi nel 2017, subito dopo l’insediamento di Trump, quando alle osservatrici e agli osservatori più attenti era già evidente il percorso che avrebbe portato all’eliminazione di Roe v. Wade. In quei primi mesi, The Handmaid’s Tale è apparsa più come una terrificante profezia che come una cautionary tale, un “racconto ammonitore”. Ma l’efficacia di The Handmaid’s Tale risiede nella capacità, da parte di Atwood, di creare un universo “distopico” in cui tutti i sottintesi della retorica antiabortista si rivelano, implacabili, per quello che sono: un apparato di oppressione sistematica delle donne e di chi può avere una gravidanza, un sistema in cui, a tutti gli effetti, queste sono meno che persone, la loro individualità minimizzata o cancellata in favore della funzione principalmente riproduttiva che ricoprono. Negare alle persone il diritto di autodeterminarsi e di controllare il proprio corpo significa ridurle a “strumenti” o “contenitori”: in The Handmaid’s Tale le donne non hanno nulla se non il proprio ruolo, e alle ancelle – cioè le donne fertili, trasformate in veri e propri beni di consumo – non resta neppure il nome, ma assumono quello dell’uomo che le possiede.
La realtà di Gilead non è “un’esagerazione drammatica”, e nemmeno una semplice estremizzazione distopica, non è solo un “esperimento di pensiero” come lo chiamava Ursula K. LeGuin e come ce ne sono tanti, e straordinari, nella fiction speculativa: è il disvelamento di una verità, è un modo di chiamare e mostrare le cose con il loro nome. Negare il diritto all’aborto significa negare, a metà della popolazione, l’accesso completo alla sanità. Significa esporre metà della popolazione a un rischio di mortalità maggiore – si stima – del 20 o 30%: perché cercare aborti illegali, insicuri o casalinghi porta inevitabilmente a sottoporsi a procedure pericolose, ma anche perché – e non lo si ricorda mai abbastanza – pure portare a termine una gravidanza comporta un aumentato rischio di decesso per la persona che sceglie di farlo. Significa imporre a metà della popolazione la possibilità concreta di una gravidanza forzata, e legare ogni aspetto della sua esistenza a questa eventualità. Significa perpetuare un sistema di controllo e di potere su metà della popolazione, e in modo ancora maggiore su chi ha già in partenza meno vantaggi, come le persone povere, non bianche, minoritarizzate. Negare il diritto all’aborto – come accade, ufficiosamente, anche nel nostro paese, vista la sproporzionata quantità di ginecologi obiettori, quanto meno nella sanità pubblica – significa decidere che metà della popolazione vale meno dell’altra metà. Qualcosa che dovrebbe suonare terrificante alla popolazione intera. ALICE CUCCHETTI
Oltre che a The Handmaid’s Tale, dopo la sentenza di venerdì scorso il pensiero è corso subito, anche, a L’événement, il film di Audrey Diwan che ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia, distribuito in Italia con il titolo La scelta di Anne (quantomeno discutibile visto che la protagonista, appunto, una scelta non ce l’ha). Tratto dal libro autobiografico di Annie Ernaux, mostra con lucidità e furore politico l’esperienza di una giovane donna che cerca di abortire nella Francia degli anni 60, quando la pratica era ancora illegale. Vi riproponiamo la recensione, apparsa sul n. 44/2021 di Film Tv.
La scelta di Anne
Che cos’è la memoria? Per Annie Ernaux, che pubblica L’evento nel 2000, a quasi 40 anni dall’aborto clandestino vissuto da studentessa nel 1963 e rivissuto nel presente durante la stesura del libro, è innanzitutto un fatto «materiale». Una «sensazione violenta» che sopraggiunge a più riprese, cogliendola alle spalle e costringendola a mettere a fuoco sulla pagina un tempo lontano e sfocato ma ancora prepotentemente pulsante della sua vita, dentro al quale deve reimmergersi, perché si compia l’auspicio di Michel Leiris, riportato in esergo, «che l’evento diventi scritto, che lo scritto diventi evento». A cominciare dal nero abisso su cui apre il film (con le voci off di Anne e le sue amiche che agganciano l’immagine, facendola affiorare), è di questa immersione che va in cerca Audrey Diwan nel portare sullo schermo il testo della scrittrice francese: attraverso il ricorso a scenografie e costumi discreti, che scansano l’aborrito “effetto cartolina” e cancellano lo spazio tra i decenni (e quindi tra personaggi e spettatori: una scelta politica, prima che di décor); attraverso il formato 4:3 che serra il quadro sulla protagonista Anamaria Vartolomei (per dire che è da sola nell’affrontare tutto questo, sì, ma anche per fare del suo corpo la sola e unica misura possibile del racconto); attraverso l’inserimento di didascalie che, calando come quinte sul flusso della narrazione, marcano il trascorrere ansiogeno delle settimane e insieme a esso il progredire alieno e incontrollabile della gravidanza. Ma soprattutto con una regia che aderisce a Anne e ai suoi movimenti senza lasciarla andare neppure per un momento, finché - cioè - immersione non rima perfettamente con identificazione, in rapporto 1:1. È in questo annullamento della distanza che il 78° Leone d’oro La scelta di Anne - L’événement trova uno scarto rispetto alla 60ª Palma d’oro 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, secondo termine di un confronto, non soltanto tematico, ineludibile: se nel film di Cristian Mungiu i due corpi di Otilia e Gabilia si staccano dal contingente per assurgere a corpo di un’intera nazione (la Romania paranoica di Ceausescu, dove pubblico e privato sono un tutt’uno), in quello di Diwan il corpo di Anne rimane cocciutamente suo e solo suo, si rifiuta di farsi agire dalla legge e dalla Storia come Anne - che non è disposta in alcun modo a piazzare un’ingombrante ipoteca sui propri studi e sul proprio futuro - rifiuta di lasciarsi agire dalla gravidanza, attraversando l’inferno dei ferri da calza e delle sonde della “fabbricante d’angeli” pur di ri-mettersi al mondo. Un travaglio simbolico e insieme materiale che Audrey Diwan, nell’inquadrare il corpo violato di Vartolomei e il suo volto sconquassato dal dolore, nel restituire tutte le conseguenze fisiologiche di un aborto clandestino, «guarda fino in fondo», in modo diretto, preciso e persistente come sono dirette, precise e persistenti le parole del romanzo. Solo così si colma il vuoto del rimosso, e si spalanca al plurale il singolare. L’evento diventa scritto, il film si fa carne.
CATERINA BOGNO
Se siete interessati a scoprire più nel dettaglio la storia della sentenza Roe v. Wade e le battaglie politiche che l’hanno accompagnata, recuperate i quattro episodi della settima stagione del podcast Slow Burn, celebrato programma giornalistico della testata “Slate”. [in inglese]
Su MUBI è da poco disponibile in esclusiva il documentario Our Bodies Are Your Battlefields, diretto da Isabel Solas: la vicenda di Claudia e Violeta, due donne transgender nell’Argentina contemporanea, divisa tra conservatorismo e un vivissimo movimento femminista. Per approfondire l’argomento di questo numero della nostra newsletter, oltre a tutti i titoli sopraelencati, vi suggeriamo di recuperare anche Mai raramente a volte sempre di Eliza Hittman, che trovate su Prime Video.
Da circa una settimana è in tour, nelle sale italiane, Corpo a corpo, documentario di Maria Iovine sull’atleta paralimpica Veronica Yoko Plebani, presentato all’ultima edizione di Alice nella città alla Festa del cinema di Roma.