Singolare, femminile ♀ #115: L'altra metà dell'universo
Con l'arrivo in sala di The Marvels, diretto dalla giovane afroamericana Nia DaCosta, è tempo di fare il punto sulla presenza e la rilevanza delle donne dietro la macchina da presa nel Marvel Cinematic Universe, tra piccolo e grande schermo.
The Marvels, lungometraggio numero 33 del Marvel Cinematic Universe, è in sala da pochi giorni, ma già abbastanza per essersi guadagnato il poco lusinghiero titolo di peggior debutto al box office statunitense nella storia dell'MCU; solo 47 milioni di dollari. Che la Marvel stia attraversando un periodo di crisi è indubbio - si parla da ormai un anno buono di "Marvel-fatigue", un senso di stanchezza e di saturazione dell'immaginario che fa accogliere con decrescente entusiasmo ogni uscita degli innumerevoli prodotti dell'universo), ma quel che ci interessa in questa sede è analizzare il caso The Marvels anche nella sua smaccata natura di oggetto "Marvel al femminile": dopo Black Widow e Captain Marvel è solo il terzo titolo con protagoniste assolute delle supereroine, e stavolta si tratta di un'intera squadra di donne, ovvero la Capitan Marvel del succitato film (Brie Larson), Monica Rambeau (Teyonah Parris) e Ms Marvel (Iman Vellani), unite in una sorellanza forzosa a causa dell'improvviso disguido dei rispettivi superpoteri, che si intrecciano fra loro facendo continuamente, e imprevedibilmente, scambiare di posto le tre protagoniste (uno spunto potenzialmente interessante, quello di donne “costrette” a calarsi l’una nei panni dell’altra, purtroppo non approfondito da una sceneggiatura troppo impegnata a tenere insieme una miriade di altre urgenze narrative universali - nel senso di universo Marvel).
Al timone del film è stata messa la regista afroamericana Nia DaCosta, classe 1989, all'opera terza dopo il dramma da Tribeca Little Woods e l'horror Candyman (prodotto e co-sceneggiato da Jordan Peele); solo l'ultima di una lunga serie di talenti "indie" pescati dalla Disney per i suoi tentpole degli universi Marvel e Star Wars, molto spesso con esiti infelici che cercano il compromesso tra la visione fresca e originale (forse troppo originale per gli standard della major) dei registi e le rigide necessità commerciali della casa di Topolino. Se il mondo del cinema mainstream è già di per sé a schiacciante maggioranza maschile, i dati sono ancora più drastici quando si tratta di supereroico, e finora, salvo rare eccezioni, è sempre valso da parte delle produzioni il pigrissimo automatismo che consente a una donna di piazzarsi dietro la macchina da presa di un film di supereroi solo quando al centro c'è, appunto, un'eroina. Una scelta che sa di ghettizzazione, più che di ipotetica attenta ricerca di uno sguardo sensibile alle tematiche femminili, e che in questo caso ha rifilato alla promettente DaCosta una delle peggiori gatte da pelare (l'espressione è calzante, dato che i felini hanno un ruolo cruciale nel film) dell'MCU. Non solo The Marvels è il sequel diretto di un film pochissimo amato dai fan, quel Captain Marvel che ha attivato il peggio della misoginia del fandom Marvel; ma è anche un film che esemplifica bene quanto ormai la mitologia Marvel sia così disseminata e complessa da richiedere allo spettatore di "studiare" per approcciarsi a ogni nuovo capitolo.
Per sapere chi è la giovanissima, volenterosa e goffa Ms Marvel/Kamala Khan è infatti necessario aver visto la serie Ms. Marvel su Disney+, così come per avere una vaga idea della backstory del capitano Rambeau sarebbe utile aver visto WandaVision, la prima serie originale Marvel. DaCosta fa quello che può con una sceneggiatura (anch'essa affidata a un trio femminile: accanto alla stessa regista ci sono Elissa Karasik e Megan McDonnell, già firme rispettivamente di episodi di Loki e di WandaVision) che risulta surreale per la quantità enorme di contesto che richiede allo spettatore di integrare autonomamente, e a livello formale persegue una leggerezza con virate demenziali che sembra ispirarsi allo stile Waititi degli ultimi due Thor o all'ironia di squadra dei Guardiani della Galassia (una sequenza di montaggio usa perfino Intergalactic dei Beastie Boys, dopo che pochi mesi fa il terzo capitolo dei Guardiani ha sfoderato un notevole pianosequenza di combattimento sulle note di No Sleep Till Brooklyn del medesimo trio), ma con i necessari momenti introspettivi sul passato complesso di Captain Marvel/Carol Danvers, col risultato di un melange poco riuscito, ellittico e convulso.
A DaCosta e alle co-sceneggiatrici è stato affidato il compito di rendere appetibile il personaggio di Brie Larson, da più parti accusato di essere freddo e poco accessibile nel primo film da protagonista, e invitato dai fan a "sorridere di più" (e proprio la presenza di Intergalactic in colonna sonora pare rispondere anche a questo tipo di critiche sessiste: il primo verso del brano recita «Well, now, don’t you tell me to smile»), e di intersecare nella sua mitologia la presenza di altri due personaggi femminili pressoché ignoti al pubblico cinematografico; più che un'opportunità affidata a una giovane regista, suona come una sfida assegnata all'ultima arrivata, resa responsabile delle sorti del già fragile comparto femminile del Marvel Cinematic Universe. Una sfida improba, che stando agli indizi DaCosta non ha vissuto con grande libertà creativa: dopo i primi test sono state fissate altre quattro settimane di reshooting (faccenda comunque non così rara: per il Doctor Strange di Sam Raimi le settimane di riprese aggiuntive sono state sei) per tentare di rendere più coerente il materiale, e nel frattempo Nia DaCosta se ne è volata in Europa mentre The Marvels era ancora in post-produzione, per lavorare al suo prossimo film (Hedda, con Tessa Thompson), gesto piuttosto anomalo ed emblematico per la regista di un carrozzone da 250 milioni di dollari di budget.
Se i risultati al botteghino di The Marvels saranno deludenti come si annunciano, non sarà certo un incentivo per la Disney ad aumentare il numero di donne e persone di colore dietro la macchina da presa; e a pensare male si potrebbe anche credere che aver affidato questa "mission impossible" - un titolo destinato quasi ineludibilmente al flop - a una giovane donna nera sia un modo per la major di giustificarsi sul fronte commerciale rispetto alla propria scarsa attitudine all'inclusività. D'altronde ci sono voluti 17 film dell'MCU prima che alla regia non ci fosse un maschio bianco (era il succitato Taika Waititi, con Thor: Ragnarok), e DaCosta è solo la quarta regista in 33 film, dopo Anna Boden (che ha co-diretto Captain Marvel insieme a Ryan Fleck), Cate Shortland (Black Widow, a dirigere il quale era stata invitata la grande regista argentina Lucrecia Martel, con l'avviso però che «delle scene d'azione non avrebbe dovuto preoccuparsi lei» perché le avrebbe girate qualcun altro; Martel ha risposto con un sonoro No grazie) e Chloe Zhao, che con Eternals ha firmato uno dei più bizzarri prodotti Marvel, un supereroico quasi contemplativo, costruito come un lungo forum politico sul destino della Terra, quasi un G20 dell'MCU. Vale la pena poi ricordare che la prima donna in assoluto al timone di un film Marvel è stata l'ex artista marziale Lexi Alexander, che nel 2008 ha firmato Punisher: Zona di guerra, non considerato però ufficialmente parte dell'MCU e in Italia distribuito come straight-to-video.
Al di là delle registe e della comunque opinabile libertà creativa di cui dispongono, una donna, a ben vedere, c'è sempre stata, fin dal principio, ai vertici della Marvel: è Victoria Alonso, produttrice a capo del settore effetti speciali e post-produzione, argentina, lesbica e attiva nella casa di produzione dal 2006, ossia da prima dell'acquisizione da parte di Disney, la persona responsabile per aver traghettato concretamente sullo schermo ogni titolo dell'MCU attraverso il fondamentale processo di messa a punto degli effetti. Ma Alonso, dopo 17 anni, è stata licenziata in tronco da Marvel nel marzo 2023, ufficialmente con la motivazione di aver violato degli accordi legali con la sua partecipazione alla produzione del candidato all'Oscar Argentina, 1985; le crepe in realtà si erano allargate già nel 2022, con le voci di alcuni impiegati del settore effetti speciali che lamentavano orari di lavoro impossibili e pressione disumana, e secondo molti la vera rottura sarebbe avvenuta a seguito della presa di posizione di Alonso sulla censura anti-LGBT avallata da Disney, quando per la distribuzione in Quwait di Ant-Man and the Wasp: Quantumania era stata imposta la cancellazione dal film della parola «Pride» da una vetrina. Di fatto, con l'espulsione di Victoria Alonso il Marvel Cinematic Universe è ancora meno inclusivo e paritario di quanto (poco) lo fosse prima, almeno sul grande schermo.
Un po' meglio va sul piccolo, dove dal 2021 in poi l'arrivo delle serie e miniserie Marvel ha moltiplicato felicemente la presenza di autrici e registe fino a ridurre in modo significativo il gender gap tra le maestranze; a onor del vero la tendenza era già cominciata con la prima onda, ora un po' dimenticata, di serie Marvel, per esempio con Jessica Jones, vissuta tre stagioni tra il 2015 e il 2019 e creata dalla veterana seriale Melissa Rosenberg, che con la sua ex supereroina traumatizzata, alcolizzata e ruvida ha portato sullo schermo un raro esempio di femminile non rassicurante e convenzionale. Poi è arrivata WandaVision, a tutt'oggi la migliore tra le serie Marvel, creata da Jac Schaeffer, la quale si attesta come nome di punta della Marvel femminile, essendo già stata in parte responsabile delle sceneggiature di Captain Marvel (non accreditata) e Black Widow (accreditata per il soggetto); e Ms Marvel, creata dalla stand-up comedian anglopakistana Bisha K. Ali, entrambi esempi di un approccio realmente diverso al ritratto della supereroina.
Prismatico e metaforico quello di WandaVision, con la sitcom/prigione dorata dove Wanda si rifugia nel ruolo di casalinga tradizionale, ironico e inclusivo quello di Ms Marvel, che al netto delle ramificazioni fantasy è un bel racconto di formazione al femminile su un'adolescente musulmana, americana di famiglia pakistana, dominato dalla giovanissima Iman Vellani, una vera forza della natura (che in The Marvels si mangia in un boccone le altre protagoniste, rubando la scena spesso e volentieri alla Carol Danvers di Brie Larson). E infine l'esperimento, parzialmente riuscito, di She-Hulk, serie che ibrida il supereroico con la commedia e il procedurale, creata dall'autrice proveniente dal mondo dell'animazione Jessica Gao. Meno ricordate, ma fondamentali e più massicciamente presenti che al cinema, le registe di queste serie: The Falcon and the Winter Soldier è stata interamente diretta dalla canadese Kari Skogland, la prima annata di Loki dall'inglese Kate Herron, già al timone di diversi episodi di Sex Education, mentre Hawkeye è stata in parte diretta da Bert&Bertie, nome d'arte del duo di registe britanniche Amber Templemore-Finlayson e Katie Ellwood, già firme in The Great e Our Flag Means Death.
Tutti prodotti, quelli succitati, che comportano da parte di showrunner e registe la gestione di archi di trasformazione del personaggio notevoli, di scene d'azione complesse e attentamente coreografate, di budget consistenti (anche se ancora lontani da quelli dei cugini maggiori del cinema), di attenzione alla ormai infinita mitologia marveliana resa ancora più ardua dal multiverso... quindi, se le donne possono farlo così bene sul piccolo schermo, perché è ancora così difficile lasciarglielo fare sul grande? ILARIA FEOLE
Dal n. 30/2022 di Film Tv vi riproponiamo la recensione di Ms. Marvel, serie la cui visione è propedeutica - se non indispensabile - per poter fruire il nuovo The Marvels.
Ms. Marvel - Stagione 1
Non è niente male l’episodio pilota di Ms. Marvel: ci presenta rapidamente una protagonista inedita e autentica, complice l’azzeccato casting di Iman Vellani, alla prima esperienza davanti alla mdp. Suggerisce l’immedesimazione, perché Kamala Khan è una di noi, una fan sfegatata degli Avengers, che passa il proprio tempo a postare video su YouTube, ascoltare podcast, scrivere fan fiction. Dipinge uno scenario ricco e variopinto, riempiendo di verosimiglianza il contesto familiare e sociale di Kamala, nata e cresciuta a Jersey City, con genitori pakistani, un fratello più grande, una comunità unita. Apparecchia il teen drama, anche con una certa personalità estetica (i murales “parlanti”, le elaborazioni animate, gli stratagemmi per mostrare chat e SMS), introducendoci ai migliori amici Bruno e Nakia, alla reginetta dei like Zoe, (più avanti) alla possibile cotta Kamran, all’affollata quotidianità di una ragazzina sedicenne, unica come tante, con la testa tra le nuvole, sull’orlo del futuro, tra le tradizioni della cultura d’origine e il supereroico Sogno americano. Solo che Ms. Marvel, come tutte le altre produzioni MCU per Disney+ viste fin qui, non è una serie tv, non davvero: con le ormai canoniche sei puntate e una durata complessiva attorno alle cinque ore, non ha alcun interesse a trovare una formula episodica duratura, a costruire un mondo distintivo, a intrecciare trame e a far crescere personaggi, quanto a far da introduzione e ponte a un nuovo capitolo cinematografico, nello specifico The Marvels, raccontandoci l’origin story di una nuova eroina. Così, ancora una volta, l’effetto è quello del film gonfiato, e dunque con inevitabili cali di ritmo, dispersioni e divagazioni frustranti, scarti di tono e di registro improvvisi. Un ibrido tra piccolo e grande schermo che invece di riunire il meglio dei due linguaggi, rischia spesso di depotenziarli: la sintesi del cinema suona brusca, semplicistica e affrettata, il desiderio televisivo di approfondire personaggi, flashback e relazioni sembra una superflua interruzione dell’azione (di questa confusione soffrono soprattutto i due capitoli ambientati a Karachi). È un peccato, perché Ms. Marvel ha diverse frecce al proprio arco, a cominciare da Ms. Marvel medesima: Kamala Khan, doppia iniziale come i migliori (e soprattutto come Peter Parker e Miles Morales, i due più celebri Spider-Man), è un personaggio che ai fumetti ha dato nuova linfa, trovando un felice punto d’incontro tra l’efficace parabola dell’eroe teen dall’anima nerd, che ben sovrappone l’acquisizione dell’identità super al romanzo di formazione (tipo l’Uomo ragno, appunto), e la fotografia di una normalità adolescenziale ancora poco vista e rappresentata (e per questo “fresca”), quella delle seconde generazioni. Writers’ room, cast e registi, il cui background corrisponde per la maggior parte a quello dei protagonisti, fanno vibrare di genuinità la profusione di dettagli e molte scelte di trama (la storia si collega alla drammatica Partizione del Subcontinente indiano); eppure arriviamo alla fine, un po’ stanchi e intontiti, a salutare Kamala con la strana sensazione di non averla conosciuta davvero. ALICE CUCCHETTI
Da qualche settimana è in libreria il nuovo lavoro (A chi smeraldi e a chi rane, Bompiani) di un’autrice da noi amatissima, una delle “voci” più importanti per la formazione di chi scrive Singolare femminile: Bianca Pitzorno. Si racconta a Irene Soave in questa bella intervista per il Corriere della sera, un’occasione per ascoltare il suo cuore.
In sala uno dei film più importanti dell’anno, la Palma d’oro Anatomia di una caduta (ve ne abbiamo parlato nel n. 96 della newsletter, mentre degli altri film di Justine Triet abbiamo scritto nel n. 17): vi consigliamo questa bella analisi di Daniela Brogi su DoppioZero.
Dopo la presentazione a Roma in Alice nella città, stasera - 15 novembre ore 22.15 - sarà a Bologna Chello ‘ncuollo, il nuovo cortometraggio di Olga Torrico, proiettato al Cinema Lumière nell’ambito del festival Visioni Italiane (che prosegue fino al 19/11): un piccolo racconto di formazione che mette in scena le domande della pubertà di fronte alle superstizioni ancestrali sul ciclo mestruale. Il 17/11 alle 22.30 è la volta di We Should All Be Futurists di Angela Norelli, ironico manifesto femminista costruito su un sapiente montaggio di film dell’era del muto.