Singolare, femminile - #017: Chi esser tu?
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#017 - Chi esser tu?
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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In sala dal 2 settembre, Sibyl - Labirinti di donna è l'opera terza della regista francese Justine Triet: un molteplice e sfaccettato ritratto di donna, ma anche un interessante inventario di tendenze e assonanze del cinema al femminile contemporaneo.
«Come fai a essere così sicura di te?» chiede afflitta la sorella di Sibyl alla protagonista del film. «Faccio finta» risponde sommessamente l'(anti)eroina di Sibyl - Labirinti di donna, terzo lungometraggio di Justine Triet che approda in sala il 2 settembre, oltre due anni dopo la presentazione nel Concorso del Festival di Cannes 2019. In questo scambio sta il nocciolo di un film che, come suggerisce il tradizionalmente didascalico sottotitolo italiano, si dipana in una struttura di scatole cinesi (i ricordi di Sibyl, che si sovrappongono come in un flusso di coscienza alla vita reale) e di specchi (Sibyl è circondata da figure femminili in cui rivedersi; la madre defunta, la sorella, la paziente, la regista del film a cui collabora), con una complessità emotiva e formale che vuole rendere giustizia alle complessità e alle ambiguità della sua protagonista. La Sibyl del titolo, interpretata da una sempre magnifica Virginie Efira, è una psicoterapeuta con ambizioni letterarie: per dedicarsi interamente alla scrittura del suo romanzo decide di abbandonare, uno per uno, tutti i pazienti, ma proprio mentre sta per chiudere la pratica arriva la chiamata d'emergenza di una nuova cliente, una giovane attrice esordiente nel pieno di una crisi sentimentale ed esistenziale. Sibyl accetta di ascoltarla, tenta di dirottarla su un collega, ma resta presto irretita dal magmatico contenuto passionale delle sedute: questa donna disperata, incinta di un celebre attore con cui ha una travolgente relazione clandestina, incapace di prendere una decisione su dove dirigere il corso della sua vita, è materiale potenzialmente perfetto per il suo futuro romanzo. Questo, del film, è solo lo spunto, intinto quasi nel thriller e nel filone delle "vite rubate"; ma Sibyl si trasforma presto in qualcos'altro, ed è molto difficile da incasellare in un unico genere, come già era accaduto per i precedenti, molto interessanti film di Triet: La bataille de Solferino, ritratto di una coppia in implosione sullo sfondo della Francia del neoeletto Hollande, e Tutti gli uomini di Victoria, in cui sempre Virginie Efira interpretava un'avvocata arrivata al punto di saturazione di qualsiasi legame sentimentale, erano già due commedie costantemente affacciate su una rottura tragica, su un'esplorazione cinica e disillusa del panorama emotivo dei protagonisti e della società che li circonda. Sibyl gioca sui medesimi registri: il (doppio!) triangolo erotico e passionale ha risvolti tragicomici, la crisi di identità della protagonista trascolora nella farsa, la crudeltà dei rapporti umani messi in scena è spesso diretta con tempi comici alleniani.
Una partitura libera su cui Triet disegna il suo personaggio altrettanto scevro da etichette e lacci: come in molto cinema contemporaneo, soprattutto firmato da registe, da Céline Sciamma all'esordiente Emma Seligman, Sibyl rivendica una definizione del femminile che non preveda caselle e casistiche, che non debba vestire ruoli & mestieri come una Barbie di carne, anche per contrasto e confronto con le figure di donna che circondano la protagonista. Intorno a Sibyl ci sono la sorella emotiva e ironica, la paziente fragile e seducente, la regista assertiva e razionale, per non parlare dello spettro di una madre morta per le conseguenze di una sbronza, da cui teme di aver ereditato tutto il peggio, e del fantasma più insidioso di tutti: quello della se stessa di qualche anno prima, mentre lottava per la sobrietà accanto a un uomo che non ha mai dimenticato. Chi è Sibyl in questa galleria? La domanda aleggia nel film, Sibyl crede di averla letta negli occhi di sua figlia sin dal primo momento in cui è uscita dal suo grembo, e guardandola, neonata, sembrava dirle «Chi sei tu?». L'urgenza di rispondere a questa domanda, e l'impossibilità di farlo secondo gli schemi convenzionali, sono la vera frattura di Sibyl, che è una terapeuta e una romanziera, è un'ex alcolista, una madre, un'amante, e in definitiva non vuole scegliere nessuna di queste strade: «Io non sono in alcuna realtà», ammette dopo aver vagliato le ipotesi, sibilla rimasta senza alcun oracolo. Come già quello del film precedente, anche il finale di Sibyl ha il sapore beffardo di un compromesso, di una consapevolezza amaramente necessaria: per non uscire di senno, per non perdere il filo salvifico della sua identità, deve adattarsi a una vita di coppia che ama più «per quello che rappresenta», serbando la certezza che il suo posto preferito (come dice a un giovanissimo paziente) è quello che appartiene a lei sola.
Benedetta
Corpo attoriale di sensualità dirompente, attrice dalla gamma espressiva sempre sorprendente, Virginie Efira quest'anno è stata protagonista del film "scandalo" di Cannes Benedetta, in cui interpreta una monaca devota che scopre i piaceri della carne, e anche nei film di Triet non sono poche le scene di sesso o di nudità dell'attrice. Che, però, rispetto al softcore titillante di Verhoeven, compare in Sibyl in tutta la gloriosa autenticità del suo corpo, rotondità e smagliature incluse, spesso completamente struccata (anzi, il make up funge, in un paio di occasioni, da maschera che Sibyl indossa per simulare di essere un'altra, per «fare finta di essere sicura di sé»). Una tendenza felicemente in crescita nell'audiovisivo contemporaneo, spesso (ma non esclusivamente) promossa da autrici e produttrici: un caso recente è la gestione delle scene di intimità della serie HBO Omicidio a Easttown, in cui Kate Winslet, protagonista e per la prima volta nel ruolo di produttrice, ha imposto alla produzione di poter apparire col suo vero aspetto, con il ventre non piatto ben visibile e senza ritocchi o giochi di luce e montaggio. L'idea di poter prendere il controllo di come le scene di sesso vengono filmate è centrale in un altro momento del film, quando Sibyl si ritrova sul set del mélo interpretato dalla sua affascinante paziente: spettatrice (non passiva) del triangolo amoroso tra le due star e la regista, la terapeuta diventa una sorta di appiglio psicoemotivo per tutti e tre, fungendo da messaggera e da collante per tenere insieme una lavorazione difficilissima, ormai in preda a sentimenti che da tempo hanno sorpassato il copione; è in questa circostanza che la regista Mika (interpretata dalla bravissima Sandra Hüller di Vi presento Toni Erdmann) abbandona il campo, esausta, e pianta in asso il set lasciando a Sibyl l'incombenza di improvvisarsi regista. Cosa che prontamente fa, dirigendo con mano sicura la scena erotica tra i due attori su uno yacht, guidando gli sguardi dell'uno e dell'altra, in un gioco di immedesimazione pericoloso e complesso, ma rivelatorio della volontà di andare oltre una rappresentazione stereotipata dell'intimità.
Sibyl - Labirinti di donna
Proprio questa seconda parte di Sibyl, quella del "film nel film", ha una interessante assonanza con l'ultimo lavoro di Mia Hansen-Løve, Bergman Island. Esattamente come la protagonista di quel film (ne abbiamo parlato nel n° 11 della newsletter) si recava nei luoghi dove era stato girato un film cruciale per la sua formazione (Scene da un matrimonio) e metteva lì in scena una sceneggiatura/specchio in cui parlare di sé, anche in Sibyl la location dove è girato il film di Mika non è affatto casuale: si tratta dell'isola di vulcanica di Stromboli dove (anche se, in questo caso, non viene mai citato), Rossellini girò l'omonimo film con Ingrid Bergman. Sia in Bergman Island sia in Sibyl c'è un doppio alter ego e una figura di regista donna che si ritrova a calpestare il suolo in precedenza calcato da un mostro sacro del cinema, e in entrambi i casi si tratta di registi celebri (anche) per i loro clamorosi, complessi e indimenticabili ritratti femminili. Quelli di Hansen-Løve e Triet non sono atti di lesa maestà, né i loro "film nel film" hanno reali legami, oltre a quello geografico, con gli originali in questione; si tratta, però, di un interessante ribaltamento del rapporto di forza, dove la donna che nelle inquadrature imprescindibili di Bergman e Rossellini era oggetto amato, ritratto, analizzato e cristallizzato si sposta, invece, nel ruolo attivo e dispotico di creatrice di immagini e di cantrice di altre tipologie di donna, di manipolatrice (anche disonesta, e riconoscendolo apertamente) di trame e di psicologie, di sguardo desiderante e creativo. Quelli che il sottotitolo italiano chiama labirinti sono, forse, anche strade da percorrere, per tortuose che sembrino. ILARIA FEOLE
Abbiamo intervistato Justine Triet su Film Tv n° 19/2016, in occasione della presentazione cannense della sua opera seconda, Victoria (poi uscita in sala in Italia col titolo Tutti gli uomini di Victoria): una breve chiacchierata in cui l'autrice racconta molto del suo modo di dirigere gli attori e di relazionarsi agli stereotipi femminili.
Intervista a Justine Triet
Dopo essersi fatta notare con La bataille de Solférino nel 2013, la francese Justine Triet apre la Semaine de la critique 2016 con Victoria, un film apparentemente meno politico ma ugualmente denso e comicamente disperato. La storia di un avvocato di successo, una donna sola, con due figlie piccole, un amico da difendere dall’accusa di omicidio e un ex spacciatore di nome Sam come ragazzo alla pari.
Ancora una battaglia, stavolta interna alla protagonista, tra vita privata e professionale: due realtà che si nutrono e si sabotano a vicenda.
Il film è il ritratto di una donna che non ha più un’intimità. Tutto è esposto al mondo: il suo ex compagno rivela la sua vita sessuale su un blog, tutto ciò che è amicizia o amore è sotto gli occhi di chiunque. Victoria va molto in profondità dentro questo inferno: è una commedia grottesca, ed è questo che suscita il divertimento. Io stessa mi sono divertita a mettere in difficoltà la mia attrice (Virginie Efira, ndr) per vederla ancora più fragile e vulnerabile. Ho cercato di dipingere un ritratto femminile complesso. Victoria è una donna di potere ma crolla, e alla fine scopre qualcosa di sé che non aveva visto prima.
I figli, i soldi, la soddisfazione, la solitudine: sono temi seri al centro di un racconto comico.
Per me era interessante adottare il genere della commedia solo a patto di fare un film che fosse crudele, amorale, e che mi desse grande libertà con i personaggi.
Si dice che i migliori commediografi nascondano temperamenti tragici. È così nel suo caso?
Sì, penso che la commedia sia un modo formidabile di illuminare una realtà molto più oscura.
Rispetto al precedente lungometraggio, al di là del budget più consistente, quali differenze ha sperimentato?
Questa volta non c’è stata quasi improvvisazione. Sono stata maniacale nella scrittura dei dialoghi, sul loro ritmo, e sul ritmo della scena in generale. Guardo moltissime cose, e varie: i film classici, le opere di Woody Allen, le sitcom di ieri e di oggi, e ho capito che il ritmo è fondamentale.
Una storia d’amore o di compromesso?
Un misto. L’ultima scena lo mostra bene: è una sequenza crudele, in cui la protagonista ha perso quasi tutto e torna da Sam perché è l’unica persona che le resta. Crescere vuol dire anche capire che non c’è niente di magico nell’amore. Ho giocato con il codice romantico solo per andare più a fondo nella cattiveria. Ci sono amore e chimica tra loro, ma anche grande compromesso. È questo che mi interessa di più, al contrario della commedia romantica comunemente intesa.
MARIANNA CAPPI
[pubblicato su Film Tv n° 19/2016]
Home Movies - Archivio Nazionale del film di famiglia di Bologna inaugura il 2 settembre il progetto speciale Patrizia Vicinelli - In transito, dedicato alla poeta, performer, artista e filmmaker sperimentale bolognese, a trent'anni dalla sua scomparsa. Il primo appuntamento è per giovedì 2 settembre alle ore 20.30 al Teatro Comunale di Bologna con lo spettacolo In transito, serata di parole e immagini accompagnate dalla tromba di Paolo Fresu.
In sala in questi giorni Candyman, remake dell'omonimo cult dell'orrore di quasi 30 anni fa; dietro la macchina da presa la giovane regista afroamericana Nia DaCosta: qui potete leggere una sua intervista. [in inglese]
C'è anche Virginie Efira tra le personalità che riceveranno al Lido di Venezia, il 7 settembre, il Women in Cinema Award - WiCA, il premio collaterale della Mostra del cinema nato nel 2020 per volontà di un gruppo di giornaliste, con l'obiettivo di mettere in risalto i talenti femminili in ambito cinematografico. Tra gli altri riconoscimenti di quest'anno, un omaggio alle registe afgane (con la partecipazione in videomessaggio di Shahrbanoo Sadat, appena fuggita dall'Afgahnistan) e i premi alla stilista Alberta Ferretti, alla produttrice Marta Donzelli e alla regista bosniaca Jasmila Zbanic.
Comincia il 2 settembre il 19° Gender Bender, festival internazionale e interdisciplinare fra cinema, danza e teatro, mostre, incontri e performance, prodotto da Il Cassero LGBTI+ Center di Bologna: al centro, come sempre, gli immaginari contemporanei legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale.
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