Singolare, femminile ♀ #104: La produttrice elettrica
Oggi si inaugura la 76ª edizione del Locarno Film Festival, che assegna il premio Rezzonico alla grande produttrice Marianne Slot, storica collaboratrice di Lars Von Trier e molti altri: ne abbiamo approfittato per farci guidare da lei dietro le quinte di un mestiere poco visibile.
La sua casa di produzione, con autoironico gioco di parole sul suo cognome (e sulla costante necessità di denaro del cinema d’autore), si chiama Slot Machine, eppure c’è ben poco di affidato al caso nel lavoro trentennale di Marianne Slot, tra le protagoniste del Locarno Film Festival che si inaugura oggi (e fino al 12 agosto) nella città svizzera col più grande schermo d’Europa.
Collaboratrice storica di cineasti come Lars von Trier (da Le onde del destino sino all’ultimo La casa di Jack), Lucrecia Martel e Lisandro Alonso, Slot sarà celebrata con il premio Raimondo Rezzonico (nuovamente assegnato a una produttrice chiave del cinema contemporaneo, come già accaduto nel 2021 con Gale Anne Hurd, vedi newsletter n. 2) la sera di sabato 5 agosto, mentre il 6 agosto incontrerà il pubblico. Classe 1967, nata in Danimarca ma attiva da sempre in Francia, Slot ha collaborato anche con Naomi Kawase, Małgorzata Szumowska ed Emma Dante (scommettendo sulla sua opera prima, Via Castellana Bandiera), prediligendo visioni coraggiose e cineasti audaci, e spesso contribuendo a far emergere i progetti di registe giovani o affermate. Impegnata nel collettivo femminista 50/50, nel 2018 ha sfilato insieme ad altre donne per protestare contro il sessismo nell’industria cinematografica, e per lei la militanza è un tutt’uno con la ricerca artistica che il suo lavoro esige.
L’abbiamo incontrata per farci raccontare di più della sua storia e di come “funziona” un lavoro essenziale, eppure spesso poco visibile e poco celebrato, come quello del produttore.
Partiamo dall’inizio: come si diventa produttrice? O meglio, come si sceglie di diventarlo?
Per prima cosa devi decidere di fare la produttrice, e capire perché vuoi farlo: magari la motivazione cambierà lungo la strada, rispetto a quella iniziale, ma è importante ricordarla. Io ho cominciato a lavorare nella distribuzione cinematografica quando ero molto molto giovane, e sono stata fortunata perché ho potuto fin dall'inizio viaggiare in giro per festival, incontrare tanti artisti, ed è così che mi sono resa conto molto presto che volevo lavorare molto più vicino al processo creativo. Il che significa fare la produttrice. E ho cercato il mio posto in quell'industria. Ho iniziato senza avere nessuna esperienza o educazione, avevo lavorato solo nella distribuzione, e una delle registe che avevo incontrato in quella fase, una donna meravigliosa, quando ha saputo del mio desiderio di provare a produrre, mi ha detto: «Ho un po' di soldi per un cortometraggio, avrei dovuto girarlo in Norvegia, ma facciamo così: lo ripenso per girarlo in Francia, e così puoi lavorarci tu». (Il corto in questione era Avsporing / Deraillement di Unni Straume, poi presentato al Certain regard 1993, nda).
Lei lavora da sempre, e senza eccezioni, nell’ambito dei film d’autore, d’essai, “da festival” che dir si voglia: progetti non semplici, che spesso richiedono la ricerca di co-produzioni con altri paesi. Come si muove nella realizzazione di un progetto, di solito?
Per prima cosa, essere una produttrice, soprattutto di film arthouse, significa avere pochi soldi e poco tempo! È interessante e divertente, ma è anche un lavoro molto impegnativo che richiede molte lotte e difficoltà. Deve proprio piacerti. Io personalmente lo faccio perché amo collaborare con grandi artisti e per me è importante accompagnarli lungo il percorso ed esplorare il loro lavoro. Ma produrre significa tante cose diverse; io lo faccio in un modo, altri possono farlo diversamente; il mio metodo è di affiancare il regista sin dall'inizio, dalle fasi di sviluppo del progetto, finché non lo facciamo affacciare nel mondo. La questione, nel produrre cinema d'essai o d'autore, è che devi andare a cercare soldi in tanti posti diversi per poter realizzare i film. Te ne accorgi quando vedi quei lunghissimi crediti iniziali con tutti i loghi delle fondazioni, canali tv, compagnie da ogni luogo che hanno tutte partecipato a costruire un budget comunque molto piccolo!
Ecco, capita qualche volta, durante una proiezione a un festival, che quando scorrono tutti quei loghi prima dell’inizio del film, uno dopo l’altro, in platea parta qualche risatina, perché sembrano infiniti…
Lo so, è vero, e la gente dovrebbe invece sapere che quando comincia a ridere non è una cosa carina, perché quei loghi significano che c'è stato un durissimo lavoro per far arrivare lì il film!
Ed è in questo che consiste il cuore del mio lavoro: essere capace di mettere insieme le risorse, rispettando sempre la natura del film e la volontà dell'artista. Si pianifica insieme al regista su come e dove vuole girare il film, e poi si cerca di capire quali sono le possibilità per appagare quelle esigenze. Il fatto è che ogni volta che ottieni soldi da qualche parte, quasi sempre i soldi arrivano con delle condizioni; quindi poi si tratta di capire come soddisfare quelle condizioni senza snaturare la visione del regista. A volte è davvero una sfida far combaciare il tutto, bisogna dialogare col regista e chiedere «può andar bene questa cosa rispetto a quello che volevi? Potresti considerare di lavorare con una maestranza da un altro paese?» etc etc. Fare la produttrice vuol dire tenere insieme una miriade di queste cose, non si tratta solo di dire «ok, scrivimi un assegno grazie e procediamo».
Cosa significa invece essere una donna in questo campo lavorativo? È stato difficile per lei trovare il suo posto? Trova che la parità di genere sia più vicina oggi, o siamo ancora molto lontani?
È una questione molto urgente direi. Io ho cominciato a fare la produttrice in Francia, ma vengo dalla Danimarca, e avevo inziato a lavorare molto giovane in Scandinavia, dove i diritti delle donne erano piuttosto a buon punto. Arrivare in Francia non è stato facile, sono stata cosciente fin dall'inizio della presenza della diseguaglianza nell'industria; ho sempre cercato di porre domande su questo. 30 anni fa le cose erano molto molto diverse. C'era molta meno trasparenza su chi decideva le cose, per esempio nelle commissioni; sapevi che ovunque erano quasi solo uomini a prendere le decisioni su quali film sarebbero stati finanziati, e io cercavo sempre di chiedere «chi c'è in questa commissione? Quante donne e quanti uomini ci sono?». Ed erano quasi sempre solo uomini, poi c'era chi lo ammetteva più tranquillamente e chi no. Da questo punto di vista oggi molto è cambiato, c'è molta più trasparenza e la consapevolezza della disparità è più forte nelle istituzioni; persiste il problema che molte delle decisioni sono tutt’ora in mano a uomini, e questo inevitabilmente si riflette nei progetti che ottengono di essere realizzati.
È una lotta che deve continuare, pensa per esempio alla questione delle intelligenze artificiali e degli algoritmi: è sempre necessario chiedersi «chi li programma? Chi c'è dietro?». È una questione che ovviamente non riguarda solo l'industria cinematografica, quando vedi come la democrazia sta declinando in molte parti del mondo, sai che automaticamente significherà il declino dei diritti delle donne. E come si dice in francese, on n'est pas sorti de l'auberge! (che significa "non siamo ancora al sicuro, non è ancora finita”, nda). Io sono sempre stata molto cosciente di questa disparità, e credo che si veda dalla filmografia di Slot Machine. Lo spero. Cerco sempre personaggi femminili di rilievo, o temi femminili, o di seguire registe dietro la macchina da presa. Ma è la distribuzione dei poteri che deve cambiare, affinché le cose cambino davvero.
Parlando di registe: trova che sia differente il lavoro di produzione, quando a dirigere c’è una donna, rispetto a un uomo?
Posso dirti che per tutti i film che ho prodotto con registe, quasi senza eccezione, è stato difficile trovare i finanziamenti. Se non riesci a trovare i soldi in un posto, provi da un'altra parte, ma a volte non è facile. Per esempio, uno dei film che ho fatto con Malgorzata (Szumowska, nda), Elles, parla di giovani donne che diventano escort per pagarsi gli studi, e la nostra prospettiva era che la parte più difficile per queste ragazze fosse il fatto di mentire e tenere tutto segreto, piuttosto che l'atto vero e proprio di fare sesso coi clienti. Ed è una prospettiva che non è stata accolta bene, ma è una scelta artistica da rispettare, e il film ha attrici magnifiche; eppure è stato molto difficile trovare il finanziamento; pensa che non è mai stato mandato in onda sulla tv francese. Il mio punto di vista è sempre: ok, dobbiamo fare questa cosa, se non troviamo i soldi qui, cerchiamo un'altra soluzione, ma… insomma, è una battaglia continua.
Abbiamo parlato spesso nella nostra newsletter di come, anche nel cambiamento, a volte le cose restino impantanate nel pregiudizio: penso ai premi dei grossi festival assegnati a registe, che spesso finiscono per essere liquidati come “quote rosa” obbligatorie. Cosa ne pensa?
Certamente è molto importante per una regista ricevere una Palma d'oro o un Leone d'oro, ed è vero che c'è sempre chi pensa che i premi vadano al tal film solo perché è diretto da una donna, ma guardiamola dall'altro lato: quante donne hanno vinto la Palma nella storia del Festival di Cannes? Tre, Justine Triet (con Anatomie d’une chute nel 2023, nda) è la terza, in 76 anni. Cannes, Berlino, San Sebastian sono quei posti dove le persone che capiscono e apprezzano il cinema arthouse si ritrovano, la visibilità è molto importante, è importante che i film siano visti e celebrati in questi festival. È importante per tutti, non solo per le donne, ma per le donne un po’ di più.
Tornando al suo lavoro, concretamente, come sceglie i singoli progetti da produrre?
Il produttore e il regista sono i capitani della nave, dall'inizio alla fine; per questo motivo, quando a volte mi capita che mi offrano un progetto che trovo molto bello, ma non mi sento la persona giusta, lo dico subito. Può succedere, magari, che mi piaccia il regista, ma che non pensi che faremmo una buona squadra; oppure ci possono essere altre ragioni. Ma invece, quando il film è quello "giusto", è qualcosa che capisco subito. Non prendo moltissimi progetti, perché è impegnativo per me: seguo da vicino tutto in ogni fase, sono sul set durante le riprese ogni singolo giorno, da mattina a sera (o da sera a mattina!). Quindi per me scegliere un progetto significa anche capire se sarò in grado di accompagnare un artista lungo il percorso, se posso aiutarlo a correre il rischio di fare qualcosa. Facciamo film per cercare di realizzare qualcosa di eccezionale: magari non sempre si riesce a farlo, ma quello è il rischio che bisogna correre.
Cosa la attrae nella scelta di un progetto o di un artista? Lei ha lavorato a parecchi film di un autore noto e controverso come Lars Von Trier, ma anche con registi esordienti, come nascono queste collaborazioni?
Per quanto riguarda Lars, tieni conto che io non sono la sua produttrice principale, sono la produttrice francese, ma credo di essere tra quelli che collaborano con lui da più tempo (sono 30 anni ormai), e mi considero davvero fortunata di aver avuto la possibilità, all'inizio della mia carriera, di cominciare a lavorare con lui. Essere coinvolta nel lavoro di un artista di questo calibro ti fa rimettere in prospettiva tutto il resto, e per me è stato un grande dono avviarmi in questo mestiere con lui. Poi ci sono altri grandi artisti con cui lavoro, per esempio Lisandro Alonso, ho fatto quattro film con lui, ed è stato un metodo molto diverso di collaborazione. E per quest'ultimo film (Eureka, presentato a Cannes 2023, nda) poi è stato tutto un altro modus operandi, perché lui era solito finora lavorare con piccole troupe, mentre questo artisticamente è molto diverso perché è ambientato in tre epoche diverse: c'è un western in bianco e nero, e una parte nella giungla e un'altra in una riserva indiana. Ho fatto molti film con registi esordienti, altri con registi affermati coi quali ho lavorato solo per un film; a volte questi incontri nascono, per esempio, trovandosi a fare i giurati insieme a qualche festival. È una cosa che amo, conoscere persone nelle giurie, perché si sta insieme per poco tempo ma in modo intenso e ci si conosce davvero. Ho lavorato in Europa, ma anche in America Latina e in Giappone. Ci sono sempre tanti modi e tanti incontri diversi che scandiscono il lavoro. Per esempio, Benedikt Erlingsson, che ha diretto La donna elettrica (che sarà proiettato a Locarno il 5 agosto), l'ho incontrato a San Sebastian dove lavoravo come delegato per la Scandinavia: ho visto un suo film e l'ho trovato fantastico, e gli ho detto: «Se avrai bisogno per un prossimo progetto, chiamami!», e lui l'ha fatto. In generale, per me al centro c'è sempre l'autore e il progetto che porta con sé. Non sarà mai solo lo script in sé a farmi decidere. È la visione che mi interessa. E l'incontro.
In effetti, avere come avvio in questo mestiere una personalità come Von Trier, immagino faccia rivalutare tutti i concetti di “rischio” artistico…
Sì ma ci tengo a sottolineare che, come dicevo prima, è stata una donna a darmi la chance di cominciare in questo campo. È davvero importante, quando cominci in un mestiere nuovo, trovare qualcuno che ti dia fiducia, che sia disposto a correre il rischio scommettendo su di te... Ecco, in quel caso è stata proprio lei a prendersi un rischio con me! E non penso sia un caso che fosse una donna. Ti racconto questo aneddoto, durante i miei primi anni in questo campo una persona molto importante nell'industria era venuta da me a dirmi quanto era impressionato da come ero sopravvissuta in quell'ambito, da come avevo lottato per il mio ruolo, e io ho pensato... Sì, ma di certo non grazie a te! (Ride, nda). E ho realizzato di colpo che sì, sono contenta di essere responsabile per quello che ho fatto ma… caspita, sarebbe stato carino se qualcuno mi avesse dato una mano!
Quali film ama, come spettatrice? Le capita mai di vedere un film e pensare «avrei voluto produrlo io»?
Non so se mi capita mai di pensare che avrei voluto produrlo, ma di sicuro mi capita di pensare «per fortuna qualcuno lo ha prodotto!». Vedo tantissimi film, è parte del mio lavoro, e leggo tantissime sceneggiature, e adoro essere parte di una giuria, dove hai la fortuna di scoprire film di ogni tipo. Sono membro dell'EFA, la European Film Academy, ed è fantastico perché vedo un sacco di film europei, e sono anche membro dei César; e anche a Cannes, dopo aver sistemato l'agenda degli appuntamenti di lavoro, come prima cosa faccio subito il calendario dei film che voglio vedere! All'ultimo Cannes ho davvero apprezzato il film di Justine Triet, la Palma d'oro, e anche quello di Alice Rohrwacher (La chimera, nda). Aggiungo questo: sono molto onorata di ricevere questo premio perché è vero che i produttori non sono così visibili, ma soprattutto perché Locarno è un grande festival, dove il lavoro fatto dai programmatori è eccellente, è palese che cercano davvero l'ispirazione di un cinema che porta i film in direzioni nuove. E quindi, parlando da spettatrice, sono molto curiosa di vedere i film di questa edizione di Locarno! ILARIA FEOLE
Dal n. 50/2018 di Film Tv vi riproponiamo la recensione del bellissimo La donna elettrica, il film di Benedikt Erlingsson scelto dal Locarno Film Festival per accompagnare l’omaggio a Marianne Slot: un ecodramma con protagonista un’eroina indimenticabile (per chi non sarà a Locarno, il film è disponibile su Prime Video).
La donna elettrica
Sabotaggio. Che parola desueta. Oggi va più di moda il boicottaggio, che si può fare anche da casa, ma Halla è una donna in guerra, come da titolo originale (Woman at War): lei sabota, trancia cavi, abbatte pali elettrici, dà filo da torcere alle industrie che se ne infischiano del suolo islandese. Mascherata e guantata, per non lasciare tracce, si trasforma da mite insegnante di canto in eroina ambientalista. Non si ferma davanti a niente; nemmeno quando ottiene l’adozione di una bimba ucraina, un sogno così antico che ormai lo aveva riposto in soffitta. L’islandese Benedikt Erlingsson, al secondo lungo di fiction dopo Storie di cavalli e di uomini, torna sul rapporto tra uomo e natura, ritrovando il tono surreale e la cifra profondamente umanista. La dimensione eroica di Halla va dall’Odissea (le pecore come nascondiglio) ai classici del cinema (Intrigo internazionale o Una pallottola per Roy nella fuga e nell’assedio tra scenari brulli), il suo amore per la natura non è missione, ma necessità primaria. Eroina analogica, sa di doversi rendere invisibile e irrintracciabile, perciò ricorre a vecchie macchine da scrivere e abbatte con arco e frecce l’insolenza panottica dei droni. Non serve lo sguardo dall’alto, totalizzante; ma quello sul singolo, sull’angolo di terra da amare, sulla vita di una bambina che è solo uno dei motivi per cui salvare il mondo. La guerra di Halla è privata, forse è solo nella sua testa: esiste davvero quel trio ritmico che (come il batterista di Birdman) la segue ovunque producendo la colonna sonora? Esiste la sua gemella Ása, che all’attivismo preferisce il ritiro spirituale in India? O è solo la sua metà più pavida? Una guerra privata che ci riguarda tutti. ILARIA FEOLE
Lo scorso 26 luglio è morta, a soli 56 anni, Sinéad O’Connor (dal 2018, dopo essersi convertita all’islam, aveva cambiato il proprio nome in Shuhada Sadaqat). Leggenda irlandese della musica, ma anche attivista coraggiosa, non ha mai mancato per tutta la vita di esporsi politicamente sui temi dell’abuso dei minori, dei diritti delle donne, del razzismo. Tra i tanti ricordi, vi proponiamo quello dell’Irish Times e della testata musicale Pitchfork [in inglese], mentre su Now potete trovare il bel documentario Nothing Compares.
Come sempre l’ultimo giorno del mese, il 31 luglio è uscito il nuovo numero della newsletter Ghinea: contiene un estratto del volume Incendiare il buio, dedicato a due autrici per noi fondamentali, Goliarda Sapienza e Annie Ernaux.
Dall’incredibile serie britannica I Hate Suzie (di cui vi avevamo parlato in questo numero della newsletter) al successo globale di Succession: sul Guardian un’interessante intervista alla sceneggiatrice Lucy Prebble. [in inglese]
Singolare femminile va in vacanza per quattro settimane, ci rivedremo il 30 agosto.