Singolare, femminile ♀ #081: Tutti odiano Suzie
La seconda stagione di I Hate Suzie, uno speciale “natalizio” in tre puntate intitolato I Hate Suzie Too, è arrivata in Italia in sordina, alla fine del 2022. Ci torniamo su, con un pezzo inedito di Chiara Bruno, che analizza una delle serie più interessanti e spericolate degli ultimi anni e i parallelismi con la carriera della sua attrice-autrice Billie Piper.
Hai mai avuto un attacco di panico?
Il campo visivo si restringe, pochi metri di pavimento si allungano e si assottigliano scavando un tunnel, la radio suona una canzone pop e il cuore balla violentemente dentro le orecchie.
Suzie Pickles era una star. Una ragazzina prodigio con la faccia rotonda accentuata dai codini tirati delle adolescenti nei primi anni Zero. La conosciamo vent’anni dopo in una cascina fuori-fuori Londra, avvolta in una vestaglia decadent-chic che fa a pugni con il pigiama massimalista, dà da mangiare alle galline quando scopre che nel terzo capitolo della sua carriera non è ancora troppo vecchia per impersonare la Principessa in una produzione Disney. Nel frattempo capiamo che una troupe sta per arrivare, devono scattarle delle foto glamour.
Quando ha creato I Hate Suzie, Billie Piper voleva creare l’equivalente audiovisivo di un attacco di panico. Chapeau. Prima di guardare la serie BBC, già il debutto alla regia dell’ex teen star (Rare Beasts, 2019) era stata un’esperienza spettatoriale scomoda - la protagonista del film è un grumo di ansie stratificate che si mette a nudo al di là della metafora, in una Londra primaverile soleggiata e semivuota dove il tessuto musicale e certi voli leggiadri della macchina da presa evocano la rom com à la Working Title, stridendo con le urla di personaggi idiosincratici che si lanciano addosso oggetti frangibili e insulti affilati.
Eppure Rare Beasts è una passeggiata al parco in un giorno particolarmente ventilato, se paragonata alla serie tv creata da Billie Piper e Lucy Prebble (Succession, Diario di una squillo perbene). Tanti temi del film tornano nella serie, che in una manciata di puntate affronta il consenso, il rispetto, l’ansia, l’aborto, gli effetti della convenzione sociale sul desiderio sessuale femminile, il tritacarne mediatico, l’ossessione del mondo contemporaneo per lo slogan “self-care” intriso di para-psicologia, il solipsismo brutale dell’essere umano e le sue tante declinazioni.
La serie è crudissima e non fa sconti a nessuno, in primis alla sua protagonista. Che festeggia la notizia del nuovo ingaggio stappando goffamente lo spumante per colazione prima di scoprire, nella concitazione palpabile che percorre l’intero show, che il suo cellulare è stato hackerato: ci sono foto che la ritraggono con un uomo che non è suo marito (più tardi, la stampa le divulgherà pixelando il pene dell’uomo, accanto alla faccia della donna sorridente e ovviamente non-censurata). Segue la prima scena-da-panico in cui Suzie annaspa per restare a galla durante un photoshoot dove viene vestita da Crudelia DeMon con tanto di canilupo arruffati, mentre cerca di tenere offline marito e figlio (e la troupe del photoshoot) sequestrando senza sottigliezza alcuna telefoni/iPad/lo stesso modem di casa.
Durante le due stagioni di I Hate Suzie (l’ultima andata in onda nel Regno Unito lo scorso dicembre sotto forma di un delirante Christmas Special corrosivo di qualsiasi spirito natalizio – in Italia è arrivata su Sky e NOW negli ultimi giorni del 2022), di Suzie Pickles vedremo i sintomi più viscerali dell’intestino irritabile; gli escrementi di cane spiaccicati sulla suola della scarpetta da tap dance che cerca di pulire con lo sputo; il sangue vivo sull’assorbente e il sangue raggrumato nella vasca da bagno; gli occhi sgranati di paura e il sorriso tirato pieno di denti; le budella divorate dagli zombie nella serie televisiva di cui è a sua volta protagonista, in una scena che trascende dolorosamente la metafora.
I Hate Suzie non può piacere nel senso aperto e limpido perché la sua protagonista è una persona narcisista e umorale e bisognosa di conferme su tutti i fronti, che passa dal non riuscire a concludere con successo una frase di senso compiuto a vomitare tutta la sua frustrazione su un automobilista che, forse, voleva farle attraversare la strada.
Billie Piper non è Suzie Pickles, perché, come dice lei, la Billie reale è molto più psicoanalizzata del personaggio. Piper è il British phenomenon che scalò le classifiche nella madrepatria a 15 anni appena, con un singolo intitolato Because We Want To (“Perché lo vogliamo”) dove canta e danza sorridente con un gruppo di giovani per le strade: «Prenderemo la vita con leggerezza, la musica non si ferma mai/La soluzione perfetta allo stress e agli sforzi/So che arriverà il sole dopo la pioggia, canta con me».
Vent’anni dopo, Suzie/Piper partecipa a un tragicomico workshop per il musical dove senza sottigliezza alcuna è stata chiamata a interpretare Monica Lewinsky, e viene redarguita dal drammaturgo perché quando le chiede che cosa potesse volere Monica quando entrò nello Studio Ovale, Suzie risponde che probabilmente voleva non essere licenziata.
«Non puoi volere una negazione», dice il Genio; «le donne vogliono una negazione di continuo», ribatte Suzie.
Il punto è che Suzie Pickles trentacinquenne non ha idea di cosa vuole-senza-non: vuole non perdere il lavoro e non perdere suo figlio, soprattutto non perdere quel che resta del rispetto per se stessa, ma non sembra capace di affermazione neppure sul suo stesso desiderio. Come dimostra una sequenza di fantasie masturbatorie dove la protagonista immagina l’incontro con un family man di mezza età con la passione per i motori, con un giovane prestante soldato sconosciuto tra i vagoni del treno, con il suo amante e con suo marito, confondendo e mischiando la sua libidine con quella mainstream o con quella politically correct, indecisa e influenzabile anche sull’origine della sua stessa voglia.
L’unico aspetto della quotidianità in cui appare a suo agio è la performance, che sia declinata in canto, teatro, danza. Ma quando si tratta di tirar le fila della vita reale, ogni tentativo di affermazione termina coi puntini sospensivi.
Ci vuole un talento particolare per scrivere e mettere in scena frasi sospese che non suonino prefabbricate. Prebble & Piper hanno scritto Suzie provando e riprovando le battute per essere sicure che uscissero organiche dalla bocca dei personaggi, e la protagonista ha un talento particolare nel mettere in fila parole che dovrebbero condurre ad azioni precise, e per sciogliere la sua intenzione originale nell’excipit dell’interlocutore.
Senza dubbio c’è una mini-corrente autobiografica che attraversa l’opera, nello scheletro della storia incentrata sulla popstar ragazzina cresciuta attrice di tv show fantascientifici di culto (Piper ha bucato il piccolo schermo per la prima volta in Doctor Who), approdata nella grande città dalla provincia inglese working class (Piper è di Swindon), sposata con un uomo che succhierebbe la gioia anche da un quokka. Piper è stata sposata con il presentatore britannico e dj Chris Evans, matrimonio celebrato a Las Vegas quando lei aveva 18 anni e lui 35 - pare che siano rimasti in buoni rapporti, nella seconda stagione Suzie ballerà con un ex marito agée da cui si farà confortare nella sua magione col frigorifero smart dopo l’ennesimo rovinoso exploit.
Ci è capitato di leggere I Hate Suzie e Fleabag nella stessa frase parecchie volte, probabilmente perché sono entrambe serie tv create da una donna geniale incentrate su una figura di donna reale ambientate nella Londra contemporanea.
I Hate Suzie e Fleabag sono diversissime nei toni, con la prima che è una discesa libera nel caos della testa della protagonista, senza distacco narrativo - Suzie è nel frullatore, non al di sopra della storia: durante la caduta sgretola le pareti di casa e pure la coerenza del format episodico. Piper & Prebble smantellano la coesione stilistica e mettono insieme puntate che non si somigliano l’una con l’altra, dando in pasto 30 minuti al cervello della protagonista che corre da uno stimolo all’altro cercando di raggiungere l’orgasmo e affidando altri 30 minuti alla sua narrazione in voice over, perché da quando era ragazzina pensa che lo storytelling fuori campo sia rassicurante: vuol dire che in qualche modo ce l’hai fatta, che hai superato il presente e puoi raccontarlo pacatamente, come survivor, dal futuro.
Non c'è format che tenga neppure tra una stagione e l’altra. Perché la serie è un POV del cervello di Suzie e come tale non contempla gli argini della consistency, della “coerenza”. La prima stagione è formata da otto episodi da circa 30 minuti ciascuno, la seconda è una miniserie da tre puntate di un’ora. La seconda stagione è una discesa agli inferi dei dietro-le-quinte televisivi che Piper deve conoscere bene, il primo episodio della seconda stagione si apre su una sequenza di ballo delirante e magnifica - Suzie vestita da clown esorcizza gli ultimi sviluppi della sua esistenza (tra gli altri, la separazione) mettendo in scena una danza che fa paura, probabilmente il contrario di quello che l’audience di un reality alla Strictly Come Dancing si aspettava di sabato in prima serata. Eliminata. Come tutti, pure lei vuole forse soltanto essere amata, e negli episodi successivi cercherà di accaparrarsi i like delle masse e di vincere la custodia del figlio, come sempre con scelte impulsive e discutibili dalle conseguenze fallimentari e auto-distruttive.
C'è una grande coerenza, nella incoerenza stilistica squisitamente umana di Suzie, ed è il tono “naturalistico”, crudo, con cui mette in scena cose mai viste. Una donna, truccata e terrorizzata, che ha un attacco di diarrea vedendo pubblicata la foto che la ritrae dopo aver fatto un pompino al suo amante. Una donna, pericolosamente vicina al precipizio di uno dei tanti ponti di Londra, che invece di buttarsi di sotto chiede a una coppia di passaggio se può andare a casa con loro perché non ha un posto dove tornare. Una donna che chatta con il servizio clienti della pillola per l’aborto chimico, seduta sul letto con un asciugamano tra le gambe.
L’ultimo episodio della prima stagione aveva sollevato la domanda sull’esito della gravidanza accidentale di Suzie, il primo episodio della seconda stagione risponde nel giro di cinque asciuttissimi minuti, a seguito del quali la protagonista preme lo scarico del bagno e non se ne parla più. Certe scelte non hanno ragione di tornare ad affliggere personaggi e spettatore, in una standalone sequence la serie mostra una esperienza con cui oltre 210 mila donne tra Inghilterra e Galles hanno avuto a che fare nel solo 2020, eppure non ricordo di averla vista rappresentata senza conseguenze fisiche e/o emotive.
Ciò non toglie che il personaggio sia squisitamente emotivo, impulsivo, pieno di carne, ed è quello che ci tiene incollati allo schermo nonostante la pelle che si accappona durante i tre episodi che ancora più di prima usano il suono come cassa di risonanza dello stato emozionale del momento. Il sound design dello show è ingrediente fondamentale nella creazione di quell’inquietudine che angustia protagonista e spettatore. Sono amplificati gli scricchiolii della porta che la separa dall’ex marito, porta che si apre e si chiude mentre i due negoziano, col tramite dell’avvocato, la custodia del figlio Frank. Come erano amplificati gli scricchiolii dei pavimenti della casa dove abitava con il marito, i rumori d’ambiente la terrorizzavano nella notte. Aveva detto in più occasioni di essere costantemente terrorizzata, e durante le riprese della serie di cui era protagonista aveva rivelato che quando ha paura non urla, ma scappa e va a nascondersi, ed aspetta sperando di non venir trovata. Sente intensamente e sente tutto. D’altronde impazzire è una prerogativa di chi sente profondamente, e la seconda stagione ha vibes à la Britney 2007. Vissuta sul palcoscenico fin dall’età più suggestionabile - Piper ha spesso ammesso che iniziare la sua carriera a 14 anni è probabilmente l’unica cosa che cambierebbe della sua vita professionale -, Suzie vede la realtà con le lenti deformanti della performance: se la sua folle terrificante danza da clown (tecnicamente ineccepibile ed impressionante, bisogna dire) non entra nel cuore dell’audience del piccolo schermo che la punisce per essere tutto il contrario di rassicurante, le serve come valvola di sfogo e mezzo, finalmente, di affermazione («Sono davvero brava» dice, sorpresa, rivedendo la performance).
È davvero brava, e sembra danzare per riconquistare fiducia in se stessa, per riaffermare se stessa dopo essere stata mangiata e sputata dal tritacarne mediatico, per avere qualcosa di cui essere fiera e di cui rendere fiero suo figlio, per avere qualcosa dopo aver perso tutto non esclusa la testa.
Sul set del dance show dove le emozioni si postano su Instagram, Suzie fa l’errore ancora una volta di confondere l’amore degli altri con l’amore per se stessa. Ci viene in mente Mandy di Rare Beasts quando balla sui tacchetti delle scarpe rosse, attraversando le stagioni passate della sua vita sul surreale palcoscenico imbastito nella casa di quando era bambina. La tap dance rapida e triste è un tentativo di distrarre i genitori che si urlano addosso, un tentativo di distrarsi da tutto quello che, attorno, le urla addosso.
Rare Beasts era un singolare amalgama di caratteri incompatibili che non ci risparmiava i sapori più sgradevoli, ma li diluiva nella surrealtà del dialogo teatrale e della musica fuori contesto. Suzie conosce bene l’imbarazzo, la paranoia, il dolore, e vi si immerge senza trattenere il respiro.
Non diciamo come va a finire, ma il comeback cui si aspirava all’inizio di questa seconda stagione non potrebbe essere più lontano. CHIARA BRUNO
Sul n. 29/2021, proprio per l’uscita italiana della prima stagione di I Hate Suzie (oltre che del film Shiva Baby di Emma Seligman), ripercorrevamo l’ultima “ondata” di serie tv con protagoniste in crisi, sfaccettate e complesse proprio come i linguaggi narrativi utilizzati per raccontarle. Vi riproponiamo l’articolo.
Una nessuna centomila
«Non sapere chi si è, o cosa fare della propria vita» dice Emma Seligman parlando del suo Shiva Baby descrivendo la cornice naturale di ogni romanzo di formazione. Anche se Shiva Baby, in un certo senso, è più un racconto di “sformazione”, di disfacimento, in cui la protagonista Danielle si scompone in, e contemporaneamente è accerchiata da, molte potenziali identità. Danielle non è sola, però, a giudicare dalla felice proliferazione di storie seriali che raccontano percorsi tortuosamente simili, anche da prospettive diverse per età, geografia, estrazione sociale, contesto. Come I Hate Suzie, in questi giorni in onda su Sky Atlantic, che con Shiva Baby ha diversi tratti in comune, a cominciare dal primo ansiogeno episodio in cui la protagonista interpretata da Billie Piper si ritrova intrappolata nella propria casa invasa di gente (e alla fine, significativamente, sbattuta fuori) in una escalation da incubo claustrofobico che a tratti richiama le vette di madre! di Aronofsky. Figlie delle Girls di Lena Dunham e sorelle della Fleabag di Phoebe Waller-Bridge, ce n’è abbastanza per individuare una tendenza, una nuova recente ondata (parliamo di titoli usciti tutti nell’ultimo biennio) che costruisce sulla libertà conquistata dalle dramedy autoriali degli anni 10 (non solo al femminile, non solo in live action, se è vero che a innescare il filone è stata Louie e uno degli indiscussi capolavori è BoJack Horseman) e sul successo trasversale di Fleabag (circondata da una manciata di altri titoli cruciali come Transparent, I Love Dick, Orange Is the New Black, GLOW, Vida, Crazy ExGirlfriend e i gioielli inediti Better Things e Broad City). In scia a Phoebe Waller-Bridge, le autrici di questi show scivolano tra le maglie flessibili della dramedy (o sadcom, “sitcom triste”) per sperimentare sempre di più con i generi, i linguaggi, le strutture, le convenzioni. Come I May Destroy You di Michaela Coel, in testa a quasi tutte le classifiche internazionali delle migliori serie del 2020 e in Italia ancora tristemente inedita nonostante la produzione BBC/HBO: irriducibile a ogni incasellamento narrativo o di format, è l’elaborazione creativa di un trauma che sembra prendere vita davanti ai nostri occhi, scartando continuamente verso strade inaspettate. Sono “donne a pezzi” le protagoniste di questi show, certo perché frantumate da profonde crisi personali e sociali (quasi sempre è un’equivalenza), ma anche perché, per afferrare la sfuggente complessità della loro smarginatura (in senso perfettamente ferrantiano), le loro creatrici sentono la necessità di convocare una pluralità di strumenti stilistico-formali (quanto spesso fa capolino l’horror!), di allargare i confini del visibile televisivo per far spazio a funzioni corporee fino a poco fa innominate (le mestruazioni, ma non solo), di mettere in discussione la struttura stessa della “scatola-tv” (la decostruzione della sitcom). Sono a pezzi perché nessuna di loro è mai una, ma molte; e perché per guardarle c’è bisogno di una lente che le scomponga. E mentre cercano di capire «chi sono», anche la tv che le racconta fa lo stesso.
ALICE CUCCHETTI
[N.B.: Nel frattempo, Better Things e I May Destroy You sono state distribuite in Italia: la prima su Disney+, la seconda su SkyGO e NOW]
Per approfondire ancora I Hate Suzie e la sua protagonista, sul “Guardian” trovate una lunga intervista a Billie Piper, che si racconta in modo diretto e sincero [in inglese].
Torna in sala giovedì Everything Everywhere All at Once, il film che guida la corsa agli Oscar di quest’anno con ben 11 nomination, una delle quali come miglior attrice a Michelle Yeoh. Leggendo qualche articolo in inglese, avrete magari trovato la definizione di “prima persona che si identifica come asiatica a ricevere una nomination per migliore attrice”. Per capire come mai è necessaria questa “etichetta” invitiamo a riscoprire la storia di Merle Oberon, attrice indiana britannica che per tutta la vita nascose la propria vera etnia: potete leggerne qui [in inglese].
Sulla Ghinea newsletter di gennaio si parla di Mercoledì Addams.