Singolare, femminile ♀ #082: Working Girls
Babylon di Damien Chazelle cambia quasi tutti i nomi, ma tra i suoi personaggi sono facilmente riconoscibili vere pioniere di Hollywood. Tra cui Dorothy Arzner, regista che riuscì a compiere il passaggio dal muto al sonoro e a lavorare con continuità nello studio system.
A un certo punto di Babylon, il nuovo film di Damien Chazelle (Whiplash, La La Land, First Man – Il primo uomo) in sala in questi giorni, si gira un talkie, come venivano chiamati allora i primi film sonori. La star Nellie LaRoy (Margot Robbie) è comprensibilmente nervosissima, ripete tra sé le sue battute, ormai cancellate dalle pagine della sceneggiatura per le troppe volte in cui sono state ripassate, sottolineate e stropicciate. La regista Ruth Adler (Olivia Hamilton), pure non completamente a proprio agio, cerca di calmare gli animi e di rassicurare la sua protagonista. «Be natural», “sii naturale”, le dice, incoraggiandola. Chi fosse esperto di cinema delle origini o si ricordasse la nostra newsletter su Alice Guy avrà riconosciuto la citazione: “BE NATURAL”, scritto a caratteri cubitali, era l’esortazione che campeggiava negli studi della Solax, la compagnia di produzione fondata negli Stati Uniti dalla cineasta francese generalmente chiamata “la prima donna filmmaker”. Come quasi tutti gli altri personaggi di Babylon (le eccezioni più significative sono Irving Thalberg, Marion Davis e William Randolph Hearst, ma si tratta di poco più che di “comparse” che emergono dallo sfondo), anche Ruth Adler non è né una figura realmente esistita né il corrispettivo diretto di una vera autrice dell’epoca, quanto piuttosto una composizione d’ispirazioni, metodo che consente agli sceneggiatori di film biografici o storici maggiori libertà e possibilità di sintesi.
Il collegamento ad Alice Guy sta lì a ricordare come, nei frenetici e ribollenti primissimi anni del cinematografo, non fossero poche le donne che lavoravano dietro le quinte della “fabbrica dei sogni”. Abbiamo segnalato qualche settimana fa, tra i link di approfondimento della newsletter, la pubblicazione di uno studio dell’AFI, l’American Film Institute, e il relativo progetto Women They Talk About – Discovering America’s Female Film Pioneers (sito che vi invitiamo a esplorare perché ricchissimo di informazioni sulle prime filmmaker e i loro lavori): il periodo tra il 1910 e il 1930 vede una presenza femminile, tra registe, sceneggiatrici e produttrici, a livelli che non sarebbero mai più stati raggiunti per il resto del Novecento. In Babylon Nellie LaRoy, la star che sa di essere una star («o lo sei o non lo sei») senza aver mai girato una singola scena in vita sua, incontra la regista Ruth Adler nel 1926, la prima volta che mette piede, fortunosamente, su un set: Adler dà l’idea di essere una filmmaker esperta e consolidata, una delle molte working girl (ci sono già anche tante montatrici, tra le poche tradizioni cinematografiche “femminili” che proseguiranno anche col sonoro, oltre alle pittrici di didascalie, come mostra anche Babylon, mestiere che invece giocoforza scomparirà del tutto con la fine del muto) che in quei primi anni d’industria confezionano film a ritmi velocissimi.
Una come poteva essere, appunto, Alice Guy, oppure un’altra fondamentale cineasta del periodo, Lois Weber, considerata da diversi storici tra i primi registi a potersi definire “autori” per il controllo totale sulle proprie opere che arrivò a esercitare. Attrice, produttrice e sceneggiatrice, oltre che regista, Weber viene dal teatro, dove conosce il primo marito Phillips Smalley, con il quale dà vita a una proficua partnership creativa (molti primi lavori sono firmati insieme, con il nome “The Smalleys”): recitano e co-dirigono sceneggiature scritte da Weber, ed è proprio l’immagine di “coppia felicemente sposata e borghese” a conferire ai loro film un’aria, diciamo così, di “rispettabilità”. Attivi nel cinema dal 1907, passano presto ai lungometraggi, e col tempo è Weber a emergere come la figura creativa e organizzativa dominante, anche perché sempre più interessata a firmare pellicole contemporaneamente d’alto profilo e “controverse” per i temi sociali che affrontano: l’abuso di droghe, la pena di morte, la povertà, la contraccezione (incappa più volte nella censura). Ma è anche una sperimentatrice, come ogni filmmaker del periodo: tra i suoi lavori più citati c’è il corto Suspense, del 1913, un thriller che utilizza, tra le prime volte in assoluto, lo split screen.
Negli anni 10 del Novecento, Weber è spesso associata a Cecil B. DeMille e David Wark Griffith tra i nomi di chi sta forgiando l’industria hollywoodiana e il linguaggio del cinema, e alla Universal “coltiva” una nuova generazione di talenti, tra cui le future registe Dorothy Davenport, Cleo Madison e Lule Warrington, per poi fondare nel 1917 una propria compagnia. In modo non troppo dissimile da quanto accaduto alla Solax di Alice Guy, però, anche la fortuna di Weber comincia a declinare nel corso degli anni 20, quando gli studi indipendenti “soccombono” alla fortificazione di quelle che diverranno le titaniche major (sull’altrettanto prezioso sito della Columbia Women Film Pioneers Project potete leggere, in inglese, una biografia più dettagliata di Weber).
Naturalmente, però, c’è un’ispirazione principale, immediatamente identificabile, per il personaggio di Ruth Adler in Babylon, ed è Dorothy Arzner, quella che ancora oggi viene definita “la prima regista di Hollywood” – forse, però, se le “prime registe” cominciano a essere così tante, non si tratta più di “eccezioni” della Storia, ma di una presenza consistente, per quanto tendenzialmente ignorata dalla storiografia principale. Un appellativo non del tutto insensato, comunque, perché Arzner è in effetti l’unica regista che sopravvive con successo al passaggio dal muto al sonoro e che continua a lavorare a lungo nello studio system, costruendosi un corpus di opere di decine di titoli. È la prima donna a entrare nella Directors Guild of America e, insieme a un’autrice successiva come Ida Lupino, una delle prime a essere riscoperte dalla storiografia femminista negli anni 70 (a lei Claire Johnston dedica nel 1975 il saggio The Work of Dorothy Arzner: Towards a Feminist Cinema). Donna e apertamente lesbica, caratterizzata da un abbigliamento convenzionalmente maschile, continua a invitare facilmente a riscoperte e riletture femministe e queer del suo lavoro.
Nata a San Francisco nel 1897 (due anni dopo la nascita “ufficiale” del cinema) ma cresciuta a Hollywood fin da piccola, la settima arte sembra “scritta” nella sua biografia. Il padre gestisce un locale frequentato dalle prime celebrità del grande schermo (Mary Pickford, Douglas Fairbanks), e Arzner cresce tra loro, anche se il primo campo professionale verso cui si dirige è la medicina (uno dei tanti dettagli accennati anche dalla Ruth Adler di Babylon). Quasi chiunque, però, le attribuisce un’impazienza nei confronti del metodo scientifico: voleva resuscitare i morti e guarire gli ammalati all’istante, un obiettivo decisamente più facile da raggiungere dirigendo attori dietro la macchina da presa. Viene assunta alla Player-Lasky Corporation (la futura Paramount) per battere a macchina gli script, ma presto comincia a lavorare come montatrice, un mestiere in cui dimostra immediatamente di possedere le qualità che Hollywood cerca: è veloce, è efficiente, è efficace, sa trovare modi creativi per risparmiare sui costi ottenendo un buon risultato. Qualità che risultano evidenti quando nel 1922 viene chiamata a lavorare su Sangue e arena, film con Rodolfo Valentino, e ha l’idea di montare filmati di repertorio di corride spagnole alternate a primi piani del divo, con straordinario effetto drammatico (e altrettanto straordinario risparmio).
Tra gli studi della Paramount e l’indipendente Dorothy Davenport Reid Productions (fondata dall’attrice Dorothy Davenport, una delle “allieve” di Weber che abbiamo citato poco fa), Arzner continua a lavorare come sceneggiatrice e montatrice, finché nel 1927 riesce a farsi affidare – grazie alla concorrenza di un’offerta della Columbia – la regia del suo primo “film di serie A”, Fashions for Women con Esther Ralston, al cui titolo di lavorazione, The Best Dressed Woman in Paris, fanno riferimento diretto le didascalie che in Babylon Lady Fay scrive per il primo film girato da Ruth Adler con Nellie LaRoy.
Ma è soprattutto il talkie con cui abbiamo aperto questa newsletter ad avere un corrispettivo reale: il suo primo film sonoro (dopo altri tre lungometraggi muti: Get Your Man, Ten Modern Commandments e Manhattan Cocktail) Arzner lo gira appunto nel 1929, s’intitola The Wild Party (in italiano conosciuto anche come L’allegra brigata) e ha come protagonista Clara Bow, cioè l’attrice su cui è ricalcato più da vicino il personaggio di Nellie LaRoy (anche in questo caso, naturalmente, sono molte le biografie delle giovani star del muto e delle flapper girl dei “ruggenti anni 20” che hanno contribuito a comporre il personaggio di Margot Robbie, ma Nellie di Bow ha moltissimo: l’infanzia terribile costellata di abusi, la madre con problemi mentali rinchiusa in un istituto, la provenienza dal milieu working class della periferia newyorkese – con relativo accento “fastidioso” –, l’abilità di piangere a comando, lo stile di vita libertino che riempiva le cronache scandalistiche dell’epoca, l’appellativo di “It girl”, le difficoltà con i talkie…). Seppur coreografata in toni di commedia, la sequenza di Babylon offre una rappresentazione abbastanza accurata delle enormi difficoltà rappresentate per i cineasti delle origini dall’introduzione del sonoro – e il silenzio assordante, le costrizioni ai movimenti, la necessità di situarsi in punti precisi dello spazio per far catturare la propria voce ai microfoni fissi, l’impossibilità dell’improvvisazione, la macchinosità del processo di ripresa si fanno ancora più taglienti nel contrasto con la prima selvaggia ed esagerata metà di Babylon, in cui Hollywood è raccontata come un carnevale assurdo, esagerato e chiassoso, un baccanale folle e frenetico, fervente allo stesso modo di illogicità e infinite possibilità.
Nella realtà, proprio girando The Wild Party, Dorothy Arzner si accredita come una delle inventrici del “boom mic”, il microfono ad asta: per aiutare Bow, non abituata a rimanere ferma in punti precisi, la regista prova a far realizzare un microfono mobile, che possa seguirla più facilmente sulla scena. È un aspetto importante, perché permette ancora una volta d’inquadrare Arzner nella sua rilevanza “tecnica” oltre che artistica. Molte studiose, negli anni, sono infatti ritornate sulle prime interpretazioni del lavoro di Arzner, cercando di resistere alla tentazione di letture anacronistiche, filtrate dal senno di poi e da consapevolezze politiche successive. La permanenza della cineasta, così a lungo, nello studio system hollywoodiano (il suo ultimo film è del 1943, anno in cui si ritira, ma girerà poi filmati di supporto alle donne lavoratrici e al fronte durante la Seconda guerra mondiale, e numerosissimi spot della Pepsi per la sua amica – e forse ex amante – Joan Crawford, e infine insegnerà cinema alla UCLA, dove sarà mentore tra gli altri di Francis Ford Coppola), è di per sé rivoluzionaria, e significativa in un’epoca di passaggio in cui – e questo il film di Chazelle lo accenna appena – mano a mano che l’industria hollywoodiana s’ingrossa, attira capitali, diventa un’imponente forza economica, il “potere” e l’indipendenza scivolano via dalle mani dei tanti “outsider” che avevano contribuito a farla nascere, parallelamente spazzati via anche dall’ondata “moralizzatrice” che restaura un ordine conservatore e perbenista. «Non dipendevo dai film per vivere» ha raccontato la stessa Arzner, rilevando una fondamentale questione di classe. «E per questo non avevo problemi a lasciare a qualcun altro un film se mi accorgevo di non avere il controllo totale su di esso. Giusto o sbagliato che sia, è così che ho potuto resistere vent’anni». È una donna dello studio system che al sistema porta prima di tutto quel che il sistema chiede – efficienza, efficacia, competenza -, ma che, all’interno di quel sistema (come tanti colleghi, riconosciuti poi come Autori con la “A” maiuscola ben prima di lei), porta avanti i propri temi e interessi, contemporaneamente contribuendo alla formazione e all’innovazione del sistema stesso.
Questo non vuol dire che non si possa o non si debba riscontrare in Arzner una sensibilità femminista o queer, però. Il suo lavoro con le attrici, soprattutto, è tra i migliori del periodo, e se l’etichetta di “regista delle donne” è di certo collegata anche a uno stereotipo sessista, è vero che Arzner collabora efficacemente con le sue protagoniste: dopo Bow e Dorothy Davenport, negli anni 30 del sonoro vengono Claudette Colbert, Rosalind Russell, Katharine Hepburn, Lucille Ball, Maureen O’Hara. Le ultime recitano in tre dei titoli più studiati di Arzner, rispettivamente La moglie di Craig, La falena d’argento e Balla, ragazza, balla.
Il primo è un melodramma familiare su una donna intrappolata nell’apparente perfezione del suo matrimonio, da cui è lei stessa ossessionata: Arzner apporta modifiche sostanziali alla pièce premio Pulitzer da cui il film è tratto, che identificava la donna come una villain, e la rilegge illuminando in chiave critica l’istituzione matrimoniale.
In La falena d’argento contribuisce a costruire l’immagine-personaggio di Katharine Hepburn, che interpreta un’aviatrice spericolata e indipendente, attesa però da una fine tragica quando per la prima volta cede all’amore per un uomo sposato.
Balla, ragazza, balla è stato a lungo uno dei film più analizzati di Arzner, la storia di due amiche ballerine, dai caratteri agli antipodi, che cercano in modi diversi il successo. Nella sequenza più celebre, la Judy interpretata da Maureen O’Hara, derisa e insultata dal pubblico (prevalentemente ma non esclusivamente maschile) mentre si esibisce, si ribella e accusa gli spettatori di ipocrisia, crudeltà e oggettificazione, un monologo che può esser visto contemporaneamente come una rottura e un rovesciamento del male gaze e un atto di critica al disumanizzante voyeurismo del mondo dello spettacolo (il che è anche, senza alcuna sottigliezza, uno dei temi del Babylon di Chazelle).
Nei film di Dorothy Arzner (una ventina, tra il 1927 e il 1943, tra cui vanno almeno menzionati anche Working Girls, Merrily We Go to Hell, La sposa vestiva di rosa e Sacrificio supremo) si ritrovano poi, come caratteristiche ricorrenti, un’enfasi insolita sulle relazioni tra personaggi femminili (familiari, amicali, nei film pre Codice Hayes anche sottilmente sentimental-sessuali: vedi le compagne di college di The Wild Party, le sorelle di Working Girls, le amiche di Balla, ragazza, balla) e una propensione a ritrarre personaggi non convenzionali (come Katharine Hepburn in La falena d’argento, o la coreografa di Balla, ragazza, balla) e a cercare punti critici nelle istituzioni sociali convenzionali. Caratteristiche che contribuiscono, insieme, all’analisi del suo lavoro da una prospettiva femminista e alla decisa identificazione di un indiscutibile corpus d’autrice. E alla necessità di restituire la sua storia e il suo lavoro – come quelli di altre figure che incontriamo più o meno velocemente in Babylon, dalla Lady Fay ispirata a Anna May Wong, al composito personaggio della giornalista di costume Elinor St. John – a un puzzle storico e autoriale molto più complesso, variegato e sfaccettato di quel che siamo stati abituati a immaginare. ALICE CUCCHETTI
Sarà in sala solo per tre giorni, dal 12 al 14 febbraio, Tutta la bellezza e il dolore, il documentario di Laura Poitras che ha vinto il Leone d’oro a Venezia 2022. Vi consigliamo di non perdervelo, e oltre a suggerirvi di rileggere anche la nostra newsletter su Poitras, vi proponiamo l’intervista alla regista pubblicata sul numero di Film Tv in edicola.
Goldin Age - Intervista a Laura Poitras
Vincitore del Leone d’oro alla 79ª Mostra di Venezia e candidato all’Oscar 2023 per il miglior documentario, Tutta la bellezza e il dolore è il ritratto intimo e politico della fotografa americana Nan Goldin e delle sue battaglie contro la famiglia Sackler, principale responsabile della crisi degli oppioidi negli Stati Uniti. Ne parliamo con la regista Laura Poitras, già premiata dall’Academy nel 2015 per Citizenfour.
Come e quando hai deciso che al centro del documentario non ci sarebbe stato soltanto l’attivismo di Goldin con il gruppo P.A.I.N. ma anche la sua opera e la sua vita personale?
Sapevo sin dall’inizio di voler allargare le maglie del film all’arte di Nan e alla sua storia, andando indietro nel tempo fino agli anni dell’AIDS e alla mostra che lei ha organizzato allora, Witnesses: Against Our Vanishing. In un certo senso però è quando inizi effettivamente a lavorare a qualcosa che quel qualcosa “ti risponde”, così credo di poter individuare un momento preciso nel quale ho capito che questa era la direzione giusta: quando Nan ha cominciato a parlarmi di sua sorella Barbara, durante la registrazione delle nostre conversazioni. È stato lì che mi sono resa conto davvero di cosa Barbara (a cui è dedicato il lavoro Sisters, Saints & Sibyls, ndr) abbia rappresentato per lei, di cosa abbia significato il suo suicidio, perciò ho chiesto a Nan di includerla nel documentario. Lei - che ha preso parte da subito al processo creativo - ha acconsentito immediatamente.
Da questo punto di vista, Tutta la bellezza e il dolore è un film su Nan Goldin tanto quanto è un film con e di Nan Goldin. Sembra quasi che tu abbia ricreato con la fotografa la stessa relazione che lei instaurava con i soggetti dei suoi scatti: alla fine degli slideshow - penso per esempio ai tempi di The Ballad of Sexual Dependency - chi si riconosceva nelle immagini proiettate poteva andare da Goldin e chiedere che venisse aggiunta o rimossa questa o quella foto, rinegoziando di fatto la propria narrazione.
In generale ho sempre avuto l’ultima parola sul film, ho stabilito io cosa inserire e cosa lasciare fuori. D’altra parte, però, in qualità di regista di un documentario che è il ritratto di un’artista che a sua volta fa ritratti, tenevo molto a riflettere l’approccio di Nan, mantenendo nel mio lavoro quella stessa disponibilità all’ascolto alla base del suo. Quando giri un film sulla vita di qualcuno hai una responsabilità enorme: per me era fondamentale che Nan potesse conservare una sua agency, a maggior ragione considerato il grado di intimità raggiunto nelle nostre conversazioni. Dopotutto è della sua vita privata che stiamo parlando, e lei ha già condiviso con la fotografia molto più di quanto la gran parte delle persone non condivida nelle proprie relazioni personali... Anche per questo appena abbiamo avuto in mano il rough cut glielo abbiamo mostrato, accogliendo il suo invito ad approfondire alcuni punti che con il senno di poi hanno reso Tutta la bellezza e il dolore più forte.
Anziché chiederti di “censurare” alcune parti, insomma, ha voluto che scavassi ancor più in profondità?
Proprio così! Ti faccio un esempio: quando Nan ha visto nel rough cut la parte del film su Brian, l’uomo che l’ha picchiata e quasi accecata, ha voluto che tornassimo su quel momento, perché le sembrava necessario approfondire il contesto attorno a quell’episodio in apparenza isolato, specificando che tra loro c’era una relazione amorosa. In questo modo abbiamo potuto restituire un quadro molto più complesso della violenza domestica.
Nel film il diario del privato si mescola alla cronaca delle azioni di Nan Goldin con P.A.I.N.: non ci sono un prima e un dopo, le due dimensioni si compenetrano. E così la vita, l’arte, l’attivismo diventano un tutt’uno.
Non è mai esistita - neanche nella mia testa! - una versione del film in cui i fatti si susseguissero cronologicamente. Abbiamo sempre saputo che Tutta la bellezza e il dolore sarebbe iniziato scaraventando lo spettatore nelle “acque profonde” della grande azione al Met (non capisci subito dove sei, o cosa stia succedendo) e che da lì avremmo riavvolto il nastro avanti e indietro per rispondere alle domande fondamentali poste dalla fotografia di Nan. Lei stessa, del resto, non ha mai battuto strade sicure nell’arte, né quando ha fatto il proprio ingresso in quel mondo né adesso che dall’interno dei musei più illustri conduce la sua battaglia contro i Sackler e il loro ipocrita mecenatismo. Nan Goldin è sopravvissuta all’epidemia di AIDS e alla crisi degli oppioidi - due facce della stessa, triste medaglia -, è stata dipendente dalle droghe e dall’OxyContin: tutto il suo lavoro e tutta la sua esistenza si focalizzano sulla lotta allo stigma (lo stigma correlato all’omosessualità, alla tossicodipendenza, all’AIDS, alla prostituzione...); le sue azioni nei musei sono volte a smantellare il “negazionismo” della società esattamente come lo sono le sue fotografie. La tragedia della sorella, per esempio, non concerne solo la sua morte ma il fatto che il suicidio di quella ragazza che si è sentita rifiutata a causa della sua queerness sia stato negato e declassato a incidente. Credo che la rabbia di Nan venga da lì. Il punto, per me, era andare alle radici delle sue motivazioni, e in questo mi sembrava fondamentale poter parlare di Barbara come di David Armstrong, questo ragazzo androgino che Nan incontra alla Hippy free school e che insieme a lei trova una voce, scoprendo le parole per definirsi in opposizione a una società che lo aveva espulso in quanto queer. M’interessava raccontare questo, non mettere in fila una sfilza di curatori museali che spiegassero perché l’arte di Nan è così importante. Mostrare la forza del suo operato attraverso il suo operato stesso, insomma.
C’è un momento in cui questa forza si avverte in modo terribile: quando assistiamo al faccia a faccia tra alcuni membri della famiglia Sackler e i parenti delle vittime, nel corso dell’udienza giudiziaria da remoto.
Quello che citi è un momento molto importante per me. Negli Stati Uniti l’OxyContin ha fatto mezzo milione di morti: come puoi articolare, da regista, la vastità di questa perdita? Come puoi restituirla? Non è possibile, semplicemente, ma credo che qui in qualche modo ci siamo avvicinati: da una parte ci sono le urla di questa madre nella registrazione della sua chiamata al 911 e dall’altra ci sono i Sackler - finora non li avevamo visti, erano come dei villain invisibili - che le ascoltano. Naturalmente non ho chiesto loro un’autorizzazione per inserirli nel film, l’ho fatto e basta, e sono stata sostenuta in questa scelta dai miei avvocati. Di generazione in generazione i Sackler ce l’hanno messa tutta per sfuggire alle telecamere e insabbiare la loro relazione con l’OxyContin: mostrare i loro volti è stato un po’ come prendersi una rivincita.
CATERINA BOGNO
Se volete approfondire la figura di Dorothy Arzner potete leggere anche questo articolo di Theresa L. Geller su Senses of Cinema. Per quanto riguarda Clara Bow, invece, torniamo a consigliarvi Karina Longworth e il suo podcast You Must Remember This, che all’attrice ha dedicato una puntata. Per un veloce compendio su Anna May Wong, c’è questo video di Be Kind Rewind. Riguardo al personaggio interpretato da Jean Smart in Babylon, Elinor St. John, forse un giorno ritorneremo sulle “potenti” giornaliste di quel periodo hollywoodiano, nel frattempo uno dei profili da riscoprire è quello di Adela Rogers St. John [tutto in inglese].
C’è tempo ancora un paio di settimane per visitare alla Villa reale di Monza la mostra Stregherie, che ripercorre l’immaginario della strega e la sua storia, anche attraverso il cinema.
Giochi da tavolo come strumenti di lotta? Ci pensarono già, nei primissimi anni del Novecento, le militanti per il voto alle donne, come racconta questo articolo del Post.