Singolare, femminile ♀ #063: Nell'occhio di chi guarda
La vincitrice del Leone d'oro 2022 è una delle documentariste più rilevanti dell'ultimo decennio: ritratto di Laura Poitras, regista e giornalista militante che coi suoi film mette a nudo storture e contraddizioni degli Stati Uniti.
In 79 edizioni della Mostra del cinema di Venezia, Laura Poitras, premiata il 10 settembre scorso per All the Beauty and the Bloodshed, è la sesta donna a vincere il Leone d'oro; la terza consecutiva dopo Chloé Zhao nel 2020 (Nomadland) e Audrey Diwan nel 2021 (La scelta di Anne - L'évenement), mentre prima di loro ci sono state Margarethe von Trotta (Anni di piombo, 1981), Agnès Varda (Senza tetto né legge, 1985), Mira Nair (Monsoon Wedding, 2001) e Sofia Coppola (Somewhere, 2010). Quello di Poitras è anche, negli stessi 79 anni, il secondo documentario a conquistare il premio principale di Venezia, a nove anni dalla vittoria di Sacro GRA di Gianfranco Rosi, che tuttavia declinava il linguaggio del cinema del reale su modalità semi narrative tra grottesco e favola, attivamente trasformando i suoi soggetti in personaggi, muovendosi in un ormai affollato e assai fertile terreno in cui finzione e documentario si lambiscono l'un l'altra (lo stesso territorio frequentato, per dire un paio di nomi, da Roberto Minervini e Jonas Carpignano). Quello di Laura Poitras, invece, come è stato fatto notare negli scorsi giorni da più parti con tono curiosamente sminuente, è un documentario "convenzionale", un "documentario-documentario"; un film, insomma, composto da riprese in diretta di persone e avvenimenti + materiali d'archivio opportunamente montati + una voce narrante a fare da filo rosso tra le cose.
Poitras, infatti, nata a Boston 58 anni fa, è un'esponente del documentario d'inchiesta e di reportage, giornalista e regista che ha contribuito attivamente all'indagine sulla National Security Agency statunitense per la quale, nel 2014, il “Guardian” e il “Washington Post” hanno ottenuto il premio Pulitzer, e premiata con l'Oscar per il documentario Citizenfour (disponibile in streaming su IWONDERFULL), racconto in presa diretta degli otto giorni durante i quali il whistleblower Edward Snowden rivelò personalmente a lei e al giornalista Glenn Greenwald le prove della mastodontica violazione della privacy operata dalla NSA ai danni dei cittadini statunitensi dopo l'11 settembre. Poitras è erede della tradizione americana del direct cinema, il "cinema diretto" di cui D.A. Pennebaker fu pioniere, cinema che piazza una macchina da presa dentro gli avvenimenti e si fa occhio sulle cose che altri non stanno guardando. L'occhio di Poitras è stato per otto mesi nell'Iraq occupato dalle forze militari statunitensi girando My Country, My Country, candidato all'Oscar, film che ha piazzato il nome della regista nelle liste di sorveglianza del governo americano e che ha inaugurato per lei una lunga serie di interrogatori, detenzioni in aeroporto e stretti controlli sul suo operato che l'hanno costretta a trasferirsi a Berlino per non rischiare di perdere i materiali girati.
Nonostante ciò, e proprio in virtù del suo status di "person of interest", Poitras ha dedicato agli Usa post-11 settembre una trilogia di documentari incentrati proprio sulla sorveglianza, sul controllo e sulla violazione dei diritti attuata dal governo americano sotto il Patriot Act, la legge anti terrorismo varata in seguito agli attentati del 2001. Dopo My Country My Country ha realizzato The Oath, doppio ritratto di due uomini in diverso modo legati alla figura di Osama Bin Laden (la sua guardia del corpo e il suo autista) e reclusi a Guantanamo, e il succitato Citizenfour, prodotto da Steven Soderbergh, e tecnicamente realizzato "su commissione": è stato lo stesso Snowden a contattarla, e a chiederle di essere l'occhio che catturasse la sua lunghissima e agghiacciante serie di rivelazioni sulla più grande violazione della privacy nella storia degli Stati Uniti.
Al tema della sorveglianza e della "guerra al terrorismo" statunitense Poitras ha dedicato anche una mostra, Astro Noise (il nome proviene dal rumore residuo prodotto dalle radiazioni termiche del Big Bang, ed è il nome che lo stesso Snowden diede al file criptato contenente le prove della sorveglianza di massa affidate a Poitras e Greenwald), nel 2016, composta da installazioni sul sistema di droni, sulla prigione di Guantanamo, e sulla percezione del controllo a «ogni oggetto che compri, ogni posto che visiti, ogni confine che passi».
Dopo quella settimana condivisa, filmata da Poitras dentro una stanza d'albergo di Hong Kong che per Snowden è il limbo tra la vita di prima e un'esistenza da latitante, la regista stessa scopre di essere pedinata e sorvegliata, come spiegano le laconiche didascalie di cui il film è punteggiato, brevi frasi su sfondo nero nel segno dell'understatement che testimoniano il coinvolgimento in prima persona dell'autrice. E la forza del cinema di Poitras, in gran parte, sta proprio qua: nel suo essere direttamente coinvolta eppure nel farsi da parte, nel non pretendere alcun tipo di neutralità - improponibile al suo livello di investimento personale nelle vicende raccontate - sapendo, però, al contempo, prestare il suo obiettivo a chi le ha chiesto di essere presente. La sua presenza non è mai messa in discussione, non è negata, non è una “mosca sul muro”; ma l'obiettivo dei suoi documentari è lasciare la scena ai soggetti, anche nella loro complessità e nelle loro contraddizioni, come è avvenuto col successivo Risk, prismatico ritratto di Julian Assange.
Un altro limbo legale ed esistenziale, quello che circonda la possibile estradizione di Assange dopo essere stato accusato di abusi da parte di diverse donne; altre stanze d'albergo, altre verità affidate all'occhio inesausto di Poitras, che stavolta aggiunge la sua voce narrante a svelare i dubbi in itinere di un ritratto impossibile: «Non credo che si fidi di me», afferma la regista parlando di Assange e del suo ambiguo approcciarsi all'essere filmato. Il film muta pelle in divenire, il modo in cui il fondatore di WikiLeaks reagisce alle accuse modifica la direzione del documentario, costringe Poitras a seguire gli eventi e a farsi, ancora una volta, testimone in diretta. Nessun altro poteva essere lì, in quel momento, a filmare il succedersi di quegli avvenimenti; la responsabilità di Laura Poitras, e il suo peculiare posizionamento di regista, sta nel mediare il suo coinvolgimento in prima persona con l'urgenza di documentare i fatti. Il suo campo visivo diventa il nostro, allargato paradossalmente dalla sua esperienza singola. (E "campo visivo", Field of Vision, è il nome del progetto di documentari brevi creato da Poitras nel 2015, ormai giunto a quasi 100 lavori firmati da registi da tutto il mondo, visibili qui). In una contemporaneità dove il peso delle immagini si fa sempre più sfuggente e relativo, il mandato del cinema documentario è (anche) questo: mediare, soppesare, porre in relazione immagini per dare loro senso; è quello che fa Poitras, facendo incontrare e a volte confliggere la sua visione con quella dei suoi soggetti.
Snowden e Assange, per esempio, stanno forse agli opposti dello spettro della visibilità e della comunicazione di sé: nel ritrarre Assange, Poitras afferma di aver voluto mostrare «la sua gestione della propria immagine, ma anche la sua vulnerabilità», in un gioco di presenza/assenza che comporta per la regista un equilibrio impressionante nel non forzare la mano al soggetto del film, riuscendo a mantenere la presa sul proprio materiale cinematografico.
In fondo, la stessa cosa succede in All the Beauty and the Bloodshed, un ritratto apparentemente "convenzionale" della fotografa e attivista statunitense Nan Goldin, che come già Snowden e Assange prima di lei potrebbe essere definita a tutti gli effetti co-autrice del documentario: sua, in questo caso, la voce narrante; sua la scelta degli slideshow di fotografie, selezionati prevalentemente dal suo lavoro The Ballad of Sexual Dependency; sua la costruzione di un'immagine che affonda nell'intimità dei legami familiari, amicali e amorosi, nella lotta contro la tossicodipendenza, nella battaglia portata avanti con determinazione contro la Purdue Pharma e i suoi proprietari, i membri della famiglia Sackler, colpevoli dell'irresponsabile diffusione di un oppiaceo come l'ossicodone e della conseguente morte di centinaia di migliaia di persone per overdose (rimandiamo, nuovamente, alla miniserie di fiction Dopesick, che racconta con dovizia di dettagli l'agghiacciante insabbiamento operato dai Sackler per nascondere gli effetti collaterali dell'ossicodone proponendolo, anzi, come un medicinale sicuro da prescrivere come un antidolorifico di uso comune). Eppure, anche in questo caso, l'occhio di Poitras è ciò che media per lo spettatore tra due concetti poco conciliabili come «vulnerabilità» e «gestione dell'immagine»: Nan Goldin è sul palcoscenico, a comporre e cantare, con la pacatezza antifrastica della sua voce narrante, mezzo secolo di «bellezza e spargimento di sangue», di battaglie e morti, di dolore fisico e psicologico, di rabbia e di impossibile catarsi; ma Poitras è la lente che si pone con mano (e occhio) fermo tra l'autorappresentazione di Goldin e noi spettatori, costantemente presente senza farsi ingombrante, ma senza spostarsi mai. Nel segmento finale, come già accadeva in Citizenfour, il documentario prende quasi le forme di un thriller in diretta, stavolta di genere giuridico: un'udienza di tribunale, da remoto, su un sistema di videochat con le classiche “finestrelle” alla Zoom, vede coinvolti i Sackler (volti immoti e voci atone, una rabbrividente raffigurazione di villain nel mondo reale, indimenticabile), Goldin e alcuni parenti di vittime dell'ossicodone.
Poitras filma in diretta le testimonianze gonfie di dignitoso furore, i successivi dubbi di Nan Goldin sull’incisività del suo intervento, il muro di gomma giudiziario che i Sackler si permettono di opporre alle loro colpe. Lo slancio finale del documentario, dopo quel momento per il quale è impossibile non provare indignazione, torna sommessamente al privato di Goldin, inscindibile dalle sue lotte politiche, e al trauma della scomparsa in giovane età della sorella Barbara, morta suicida dopo una giovinezza segnata dal rifiuto della sua "ribellione" (una diversità non conciliabile, perché queer, nella borghesia statunitense degli anni 50 e primi 60) da parte della famiglia, che la allontanò condannandola a un difficile percorso nelle istituzioni. La lotta contro i Sackler, che si sostanzia nella battaglia per la rimozione del loro nome da ale di prestigiosi musei internazionali e nel tentativo di convincere quei musei a non accettare più donazioni dalla famiglia, e la ricostruzione del ricordo e della vita ignota della sorella Barbara sono i due fili rossi del film, intrecciati molto più di quanto sembri di primo acchito. Dietro entrambi sta la medesima, disastrosa realtà del sistema sanitario statunitense, che condanna la salute di chi non può permettersi cure e visite; dietro entrambi sta una perniciosa concezione della salute mentale, dura a morire, che circonda con lo stigma chi combatte contro la malattia o la dipendenza; e ancora una volta Poitras riesce a piazzare nel nostro campo visivo un problema sistemico che ci riguarda tutti, a partire da una figura carismatica, potente e ingombrante come Goldin (e come, prima di lei, Snowden o Assange). Senza subire la forza del soggetto né quella delle sue personali immagini, bensì nutrendosene per costruire un film limpido eppure stratificato, consapevole dell'astro noise che lo circonda e capace di imporre, squillante, la propria voce. ILARIA FEOLE
Per uno sguardo più ampio sul documentario contemporaneo, di cui Poitras è una delle voci più interessanti, vi riproponiamo lo speciale pubblicato su Film Tv n. 51/2020.
Speciale documentario - Tutto vero, tutto falso
Di cosa parliamo quando parliamo di documentario, nel 2020? Rewind. L’abc: nel 2002 Essere e avere di Nicolas Philibert, su un maestro nella Francia rurale e gli alunni della sua classe dai 3 agli 11 anni, è visto in patria da oltre 2 milioni di spettatori. Nel 2003, in Italia, Leonardo Di Costanzo gira un doc radicalmente anti-televisivo, A scuola. E fa scuola. Nel 2004 Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, docu-inchiesta donchisciottesca in prima (ingombrante) persona sulle bugie di Bush & governo, è premiato con la Palma d’oro a Cannes. Nel 2010 Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, privo di dialoghi, didascalie, temini sociali, un’opera sul «movimento della vita su questo pianeta», è distribuito in oltre 50 paesi. Nel 2013 Gianfranco Rosi vince il Leone d’oro con Sacro GRA, un documentario, dicono, ma sembra una sitcom sulla periferia: quelle persone stanno recitando loro stesse? E perché quelle inquadrature non c’entrano nulla con l’estetica del realismo? Nel corso dell’ultimo ventennio, lo ripetiamo, il documentario si è emancipato dal lessico ristretto in cui era costretto: “tema”, “denuncia”, “inchiesta”, “intervista” e via elencando. Si è allontanato, a voler essere brutali, dalla televisione, a cui era semplificato: «Non è un film, è un documentario», si diceva un tempo. Le cose cambiano. La stessa parola “documentario” è in disuso: si dice “cinema del reale”, che è un modo prima che un genere, una terra di confine in cui il cinema si mette in discussione e s’inventa modi differenti per registrare, interagire, riscrivere, mettere alla prova la realtà. E l’immagine. I migliori film, quelli che spostano i confini di quel che intendiamo per cinema (la critica questo dovrebbe fare: sostenere il nuovo, cercare le frontiere) si vedono a FID Marseille o a Cinéma du réel al Pompidou, a Visions du réel a Nyon o al Forum della Berlinale... Il cambiamento è dovuto alla tecnologia leggera, con cui i registi possono lavorare liberamente dentro la realtà. Ma anche (o soprattutto) al fatto che la realtà è continuamente osservata da occhi digitali, sempre in posa e fuori dall’idea di vero (cosa è fiction e cosa no, oggi?), registrata, conservata, manipolata o quantomeno manipolabile (Redacted di De Palma è teoria e pratica di tutto questo). Cosa è autentico e cosa no? (ma che, siamo in un film di Sorrentino? In Holy Motors di Carax? In un finto found footage alla Cloverfield? Non sono domande troppo retoriche: tutt’altro, è lo stesso campo da gioco). È tutto qui, in questo sfibrarsi o rafforzarsi di un confine, il cinema del reale. Il punctum è proprio questo: la capacità di pungere di questa ambiguità. Non raggiungere la verità, ma farla trovare dallo spettatore, nello spettatore, dentro il sommovimento della linea che separa fiction e non-fiction. Lo dimostrano interviste (in)attendibili come quelle di El Sicario - Room 164 di Rosi o di Z32 di Mograbi, re-enactment come quelli di Oppenheimer, o gesti spinti verso il polo fiction, come una sinfonia della città che una voce fuori campo sforma in noir apocalittico in A última vez que vi Macau. Perché il cinema del reale lo sa, che il reale è fatto di fiction, dai ruoli che interpretiamo quotidianamente alle immagini che produciamo. Dal diario all’archivio, sino ai critofilm, dalla lirica personale di Pippo Delbono sino all’analitica strutturalista di Harun Farocki, passando per tutti i montaggi e rimontaggi di filmati di famiglia che ammorbano il contemporaneo, in fondo è tutto un riflettere su quanto la fiction nasconda il reale e quanto possa redimerlo. Ed è proprio mettendo in crisi questa dicotomia che i film documentari producono senso. Un tempo c’erano tabù. Cose che non si potevano filmare. Oggi, ci dice un film come Notturno, dato che esiste già immagine di tutto, che tutto è immagine, che non ci sono immagini mancanti (non di ogni dolore, non di qualunque tipo di morte), è il fare cinema, il fingere insieme, a ricostruire il proprio mondo, a dare dignità: questo significa trovare l’immagine giusta. Ovunque. Non serve nulla, alle videocamere moderne, per fare cinema: nemmeno una storia, basta quello che c’è intorno. La prossimità, come Jonas Mekas. Alain Cavalier, seconda nouvelle vague francese, lascia il cinema industriale e nel 2005 gira Le filmeur, manifesto di un cinema non da regista ma da filmante, in prima persona, intimo, diaristico, tutt’uno con l’esistere: perché filmare serve a Être vivant et le savoir, perché girare sempre, girare tutto, paradossalmente, è disciplinare la vita. Darle l’immagine giusta, per l’appunto. Per questo amiamo il cinema documentario: perché è cinema nudo, il posizionare il nostro occhio lì dove lo sguardo può mettere in crisi, e rifondare, il mondo come lo conosciamo.
GIULIO SANGIORGIO
Sempre da Venezia; dei film di Alice Diop (premiata col Leone d’argento per il bellissimo Saint-Omer) disponibili su MUBI vi abbiamo già detto più volte, ma sulla piattaforma è disponibile anche Letter to My Mother for My Son, il corto di Carla Simón (l’autrice di Alcarràs) presentato nelle Giornate degli autori 2022 sotto l’egida delle Miu Miu Women’s Tales.
Dal 16 al 18 settembre a Bologna, Flush Festival propone conferenze e workshop per immergersi nelle produzione editoriali (cartacee e digitali) del femminismo contemporaneo.
Continuano per tutto settembre gli appuntamenti con la rassegna cinematografica itinerante FeelMare – Il cinema delle donne, che porta il cinema a bordo di un’apecar elettrica tra periferie e quartieri sprovvisti di sale. Tra le prossime tappe, tutte a Roma: il 16 settembre tocca a Giulia di Ciro de Caro, il 28 doppia proiezione con Un altro genere di Storia di Maria Iovine e Climbing Iran di Francesca Borghetti.