Singolare, femminile ♀ #044: Venire alla luce
Singolare, femminile
lo schermo delle donne
- di Alice Cucchetti e Ilaria Feole -
#044 - Venire alla luce
Ciao ,
questa è Singolare, femminile, un viaggio settimanale attraverso i film, le serie televisive, le autrici, le attrici che hanno fatto e stanno facendo la storia del cinema e della tv.
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Un documentario disponibile su NOW e Sky illumina la figura di Alice Guy, cineasta delle origini, prolifica e poliedrica, attivissima nei primi decenni di vita del cinematografo, sperimentatrice e innovatrice. Una fondamentale pioniera troppo a lungo dimenticata.
Il 28 dicembre 1895, al Salon indien du Grand Café in Boulevard des Capucines a Parigi, nasce il cinema. È la data indicata in ogni manuale, in ogni linea del tempo, in ogni volume di Storia: i fratelli Antoine e Auguste Lumière proiettano per la prima volta per un pubblico pagante dieci loro vedute, per un totale di 50 minuti di spettacolo. Tra queste non c’è L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, su cui poi si costruirà la leggenda di spettatori terrorizzati dall’irruzione di una locomotiva che credevano vera, ma il primo corto proiettato è altrettanto celebre, L’uscita dalle officine Lumière. La data del 28 dicembre 1895, si sa, è scelta per convenzione (una convenzione significativa, però, che associa fin dalla sua genesi la produzione artistica cinematografica al suo aspetto pubblico, commerciale e industriale, e all’esibizione stupefacente di un “effetto speciale”), anche perché diversi mesi prima, per la precisione il 22 marzo, i Lumière avevano organizzato un’altra fondamentale proiezione, però privata, dedicata a quelli che oggi chiameremmo “addetti ai lavori”, la Societé d’encouragement pour l’industrie nationale: sullo schermo L’uscita dalle officine Lumière, girata solo tre giorni prima a Lione, per dimostrare l’efficacia di un’invenzione cercata, con sempre maggior fervore, per tutto l’Ottocento (se non, in un certo senso, fin dagli albori dell’umanità), una meraviglia tecnologica in grado di catturare le immagini in movimento – e con esse l’azione, il tempo, la memoria, la vita.
Seduta davanti allo schermo, quel 22 marzo, c’è una giovane donna di 22 anni. Si chiama Alice Guy. Suo padre è morto, qualche anno prima, e con le sorelle già sposate si trova nella necessità di mantenere la madre vedova. Per questo studia stenografia e cerca lavoro come segretaria, una professione anch’essa “neonata”, e una delle poche concesse alle ragazze di buona famiglia. Quel 22 marzo 1895 Alice Guy è la segretaria di Léon Gaumont, tra i diversi industriali interessati alla “corsa all’oro” del cinematografo. Un anno dopo, nel 1896, Guy è autrice del suo primo film, La fée au choux, una breve sequenza girata sulla terrazza della Gaumont, in cui una donna elegante e divertita, in un giardino, estrae bebè piangenti da grossi cavoli (quel primo film è andato, come la maggioranza delle pellicole del tempo, perduto, ma ne abbiamo un altro simile di qualche anno successivo, perché Guy ritornerà sullo stesso soggetto). “La fata dei cavoli” è l’inizio della carriera della “prima donna filmmaker”, come è stata a lungo definita Alice Guy, una carriera impressionante per prolificità, inventiva, sperimentazione e varietà.
Negli ultimi anni, l’incipit della storia di Alice Guy è diventato via via più noto, di pari passo con la sua riscoperta da parte del mainstream e con la fortuna di un filone di divulgazione dedicato alle “donne che hanno fatto la Storia” (la regista è stata recentemente inserita, tra le altre cose, nel Catalogo delle donne valorose di Serena Dandini – anche nella sua versione televisiva confezionata per Sky Arte – e nel terzo volume del bestseller per l’infanzia Storie della buonanotte per bambine ribelli). E da qualche giorno è disponibile su SkyGo e NOW, dopo la messa in onda in prima assoluta su Sky Arte l’11 marzo scorso, il documentario dedicatole dalla filmmaker statunitense Pamela B. Green intitolato Be Natural – The Untold Story of Alice Guy-Blaché. Il doc è datato 2018, anno in cui è stato presentato Fuori concorso al Festival di Cannes, ma l’arrivo in Croisette è stato in realtà solo il culmine di un lungo viaggio cominciato almeno nel 2013, quando Green ha lanciato una campagna Kickstarter per finanziare la ricerca necessaria a integrare e concludere il suo film. Il progetto, originatosi al Sundance Institute di Robert Redford e narrato in originale dalla voce energica e precisa di Jodie Foster, ha necessitato di fondi straordinari rispetto al normale budget per un documentario storiografico, e guardandolo è facile capire perché. In un montaggio talvolta perfino frenetico supportato da collage, elaborazioni e inserti grafici (il campo in cui si è formata Green), il racconto intreccia la ricognizione biografica alla ricerca archeologica, in una sorta di rincorsa tra la cineasta di ieri, che negli ultimi anni della propria vita cercava affannosamente di porre le basi per lasciare memoria di sé ai posteri, e la documentarista di oggi, che deve riesumare brandelli di pellicole, fotografie sbiadite, lettere, cimeli, alberi genealogici familiari e artistici.
La carriera e l’esistenza di Alice Guy compongono, in effetti, una storia impressionante. In un periodo di grande sperimentazione collettiva attorno all’invenzione del cinematografo, Guy diventa in brevissimo tempo responsabile delle produzioni Gaumont, come regista ma anche come sceneggiatrice e produttrice. Sperimenta con una primissima tecnica di sonoro (che Gaumont cerca di imporre anche oltreoceano) e con la colorazione delle pellicole, ma soprattutto – oggi gli storici di cinema delle origini sono concordi – è tra le prime persone a “inventare” (nel senso per cui, agli albori del cinema, una grammatica filmica viene creata da zero) il cinema narrativo, allontanandosi sia dalle vedute naturalistiche o esotiche dei Lumière sia dal trucco tecnologico di Georges Méliès; o meglio, utilizzando entrambi gli approcci, ma iniziando a metterli al servizio di soggetti via via più elaborati, che siano costruiti attorno a gag comici o a intensità melodrammatiche. La quasi totalità delle pellicole di Guy, soprattutto di questo suo primo periodo francese, è perduta, ma la ricostruzione documentale indica (e questa sarà una costante del suo lavoro) una grande varietà di interessi, toni e temi. Nel 1906, dopo dieci anni di intensa attività alla Gaumont, sposa un operatore inglese impiegato nella sua stessa compagnia, Herbert Blaché, e si trasferisce con lui negli Stati Uniti. Il marito è incaricato di espandere la produzione Gaumont oltreoceano, ma un panorama industriale complesso (dominato dall’ombra di Edison) fa languire gli studi Gaumont di Flushing, a New York. Alice Guy, che da questo momento è conosciuta come Madame Blaché, torna allora dietro la macchina da presa e nel 1910 fonda la Solax Company, che per alcuni anni sarà prolifica, importante e di successo al punto che la coppia può permettersi di investire 100.000 dollari nell’edificazione di un nuovo avanzato studio a Fort Lee, nel New Jersey (cioè il luogo in cui si concentravano tutte le produzioni americane dell’epoca, prima di trasferirsi in California, prima che esistesse Hollywood). L’imposizione del formato lungometraggio sul corto e un panorama economico e soprattutto distributivo in continua trasformazione incidono però pesantemente sulla sopravvivenza di studi indipendenti come la Solax, che infatti si trova presto in situazioni di insostenibilità. Alice Guy-Blaché continua a dirigere fino al 1917, a servizio di altre produzioni, ma quando, dopo il divorzio dal marito, torna in Francia, il contesto è mutato al punto che le sarà del tutto impossibile farsi ingaggiare ancora.
Nell’opera di Alice Guy si rintraccia una precisa visione compositiva e, come dicevamo, una poliedricità di argomenti e generi: l’ultimo lavoro francese, prima di trasferirsi negli States, è una Vita di Cristo imponente per l’epoca, composta di 25 quadri e realizzata coinvolgendo oltre 300 comparse; ma, tra le altre cose, Guy si fa notare anche per il racconto dell’infanzia e per il naturalismo che chiede ai suoi interpreti. “BE NATURAL”, “siate naturali”, è il cartello che campeggia mastodontico negli studi della Solax, in contrapposizione alla recitazione espressionista dell’epoca del muto. Negli Stati Uniti realizza anche western e horror, spesso con protagoniste, e perfino un film a sostegno del diritto a pianificare le gravidanze (fatto immediatamente sparire). In the Year 2000, rielaborazione di un suo corto francese intitolato “le conseguenze del femminismo”, immagina un futuro in cui i ruoli di genere siano invertiti, con tono satirico e pungente.
La recensione di “Variety” seguita alla presentazione di Be Natural a Cannes osserva con una certa durezza che quella di Alice Guy non è esattamente una “untold story”, dal momento che sul suo conto esistono vari studi accademici, che nel 1976 è stata pubblicata, postuma, la sua autobiografia (in italiano è stata edita dalla Cineteca di Bologna, corredata da un importante saggio di Monica Dall’Asta, grande studiosa delle pioniere del cinema) e che già dagli anni 70 i movimenti femministi avevano cominciato a insistere per portare la sua figura alla luce. E sul preziosissimo sito della Columbia University Women Film Pioneers Project, Jane M. Gaines mette in guardia dalla tentazione di affidare al cinema di Guy una pretesa di originalità assoluta, di unicità o qualche primato impossibile da determinare con certezza. Se Guy è indiscutibilmente una delle innovatrici più prolifiche ed entusiaste del primo cinema narrativo, se il suo stile e le sue intuizioni visive sono innegabilmente personali, potenti, talvolta molto moderne, è vero anche che agisce in un periodo frenetico e fertile, in cui molti artisti, inventori, industriali si ingegnano collettivamente per mettere alla prova – e così fondare – un nuovo linguaggio e un nuovo medium. Anche in Be Natural si ricorda come le idee venissero “rubate”, copiate, rimbalzate di continuo tra uno studio e l’altro, sottoposte a modifiche più o meno sostanziali, continuamente rivisitate e riproposte: così come la data di nascita del cinema s’individua per convenzione perché l’immagine in movimento è essa stessa un’invenzione in perenne divenire, allo stesso modo la settima arte non ha un padre o una madre, ma è un tessuto collettivo e inestricabile di parentele, più o meno volute, più o meno fortuite.
Potremmo dire però che Be Natural utilizza quelle due parole, “untold story”, in un senso diverso da quello più immediato: il documentario non si propone tanto di portare alla luce una storia ancora sconosciuta, quanto di raccontare come sia stato possibile che quella storia sia caduta così a lungo nell’oblio, sia stata per decenni untold, “non raccontata”. Nella sua caccia al tesoro filologica Pamela B. Green unisce puntini ancora sospesi, annoda genealogie sia familiari (comunicando ad alcuni ignari intervistati di esser discendenti della cineasta) sia artistiche (scoprendo, per esempio, che i film di Alice Guy hanno influenzato, oltre ad Alfred Hitchcock, anche Sergej Ėjzenštejn) e soprattutto individua a ritroso il percorso che ha portato l’autrice, così rilevante, perfino per molti anni così ubiqua, a essere espunta silenziosamente dalla storia del cinema delle origini: già così pesantemente minacciata a prescindere – la maggior parte delle pellicole del tempo sono andate perdute, si sono deteriorate, sono state distrutte, o semplicemente non sono attribuite perché nessuno aveva neppure inventato il concetto di “autore” –, il sessismo aggiunge un ulteriore, infido proprio perché spesso “automatico”, livello di cancellazione. Le sue opere sistematicamente attribuite ad altri, naturalmente uomini – ai collaboratori che lei stessa si era scelta, al marito –, il suo nome omesso dalle ricostruzioni storiografiche e dal neonato canone critico, la sua autobiografia rimasta senza editore fino a diversi anni dopo la sua morte: sarà anche stata una regista eccezionale, ma il modo in cui la sua storia è stata untold non è esattamente un’eccezione. E rivela, ancora una volta, quanto sia necessario indagare e includere : per salvarci da un’immagine parziale e limitante del mondo, per squarciare l’ombra, per venire alla luce. ALICE CUCCHETTI
Un’altra grande cineasta, sperimentatrice, co-fondatrice col marito di una compagnia indipendente, protagonista dell’età dell’oro di Hollywood e non sempre ricordata come dovrebbe dalla storiografia ufficiale è Ida Lupino. Vi riproponiamo la Lost Highway firmata da Giulia D’Agnolo Vallan per il n° 05/2018 di Film Tv.
Prova a prenderla
Discendente di una famiglia di artisti teatrali, la chanteuse che ha conquistato Hollywood con la forza e la determinazione di una vera femminista.
In un universo di donne misteriose, inafferrabili, seducenti e repellenti, spietate e vulnerabili, glaciali e incandescenti come quello del noir, il critico americano J. Hoberman ha descritto Ida Lupino come «quella più complessa». Alta poco più di un metro e 60, più minuta, composta, impercettibile di sirene del genere come Rita Hayworth o Gene Tierney, gli occhi azzurri che perforano con la serietà assoluta, abbagliante, di una bambina anche quando i suoi personaggi sono scheggiati, provati dalla vita, Lupino ritaglia nel fotogramma un’alterità quasi soprannaturale e si muove al suo interno con una determinazione ferrea. La stessa con cui la giudiziosa governante protagonista di Tenebre (un ruolo tra i favoriti dell’attrice) pensa implausibilmente di poter far convivere nel cottage di campagna dell’anziana padrona le sue due sorelle completamente pazze. Quella con cui la sua Marie si affianca al destino segnato di Roy Earle/Humphrey Bogart in Una pallottola per Roy, o con cui la cantante di The Man I Love si vota alla storia impossibile con il marinaio/pianista. La stessa istintiva, solitaria, “selvatica” determinazione con cui Lupino ha perseguito, parallelamente alla sua carriera di attrice, quella inedita nella Hollywood anni 40 e 50 di sceneggiatrice/produttrice/regista, a capo (insieme al marito scrittore e produttore Collier Young) di una compagnia indipendente di sua creazione, battezzata Filmakers, secondo un’accezione totale del cinema così futuribile da scavalcare persino la bella immagine scorsesiana di Lupino «femminista dietro alla macchina da presa». «All’età di 13 anni ho imboccato un sentiero che mi avrebbe portata a interpretare solo prostitute» ha ironizzato lei, ricordando quando venne scritturata nella parte di una seduttrice al posto di sua madre, che aveva accompagnato all’audizione. Era la prima di una fitta galleria di chanteuse, pupe da gangster, donne perdute, indurite, angolari (erano disegnate per tener testa ai duri della Warner Bros.), a cui lei dava le variazioni infinite e le profondità insondabili del blues. Figlia d’arte - nei suoi racconti, dall’Italia rinascimentale dei giocolieri ai palcoscenici inglesi del music hall, dove recitavano sua madre e suo padre - come l’attrice a cui è stata più spesso paragonata - Bette Davis - Lupino pativa la prigione del suo contratto con Jack Warner. Come Bogart e John Garfield, si trovò spesso nel limbo in cui lo studio lasciava gli attori che osavano rifiutare parti che sembravano loro poco interessanti. Una clausola le permetteva di fare radio, ma trovò veramente la libertà solo passando dietro alla mdp per dirigere, tra il 1949 e il 1953, cinque film, e da lì in poi molti interessanti lavori televisivi. Girate in due settimane ciascuna per meno di 200 mila dollari le produzioni Filmakers volevano, disse Lupino, «raccontare come vive l’America». Stupro, bigamia, polio, una clinica per ragazze madri... Titoli come Non abbandonarmi, La preda della belva, Hard, Fast and Beautiful asciugano il melodramma femminile ancorandolo alla cronaca e a un realismo teso ed essenziale. La belva dell’autostrada, come molta della tv che dirigerà, conferma l’affinità di Lupino per il genere. I suoi film, nelle parole di Scorsese, «trattano soggetti difficili con una chiarezza che è quasi propria del documentario, e costituiscono un’opera unica nella storia del cinema americano».
GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Se volete approfondire il cinema di Alice Guy, alcuni suoi lavori si recuperano oggi su YouTube.
Se abitate a Berlino, o avete intenzione di visitarla nella prima decade di aprile, dal 7 al 10 del prossimo mese ci troverete Femminile plurale, una manifestazione promossa da Cinecittà per far conoscere il cinema delle registe italiane. In programma, tra gli altri, Piccolo corpo di Laura Samani, Dove cadono le ombre di Valentina Pedicini, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli… La programmazione avrà poi una circuitazione negli altri paesi europei.
Consigli cinematografici della settimana: il 24 marzo esce Calcinculo di Chiara Bellosi, sul numero di Film Tv in edicola trovate un’approfondita intervista alla regista. Dal 25 marzo arriva in sala anche il bel Una storia d’amore e desiderio di Leyla Bouzid. Questo weekend è anche quello di Spencer di Pablo Larraín, di cui vi abbiamo parlato sul . Buone visioni!
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