Singolare, femminile ♀ #185: La donna di domani
Al festival Il Cinema ritrovato, in corso a Bologna fino al 29 giugno, Katharine Hepburn è al centro di una retrospettiva e, fino al 7 settembre, anche della mostra fotografica Femminista, acrobata e amante: la nostra guest Marzia Gandolfi traccia il profilo di una (anti)diva leggendaria e rivoluzionaria per la rappresentazione delle donne al cinema.
Jo March si taglia i capelli, scrive drammi avventurosi, si trasferisce da sola a New York dopo la Guerra Civile e trova la felicità sotto la pioggia e sotto l’ombrello del professor Bhaer (Piccole donne), Cynthia Darrington, fanatica dell’aviazione, stabilisce record di altitudine e di distanza prima di andare (letteralmente) in fiamme per un uomo sposato (La falena d’argento), Tess Harding, editorialista politica di punta del New York Chronicle, sempre a filo diretto con dittatori ed eroi della resistenza, rinuncia a tutto per diventare una moglie come si deve e preparare una colazione coi fiocchi a Spencer Tracy, in uno dei finali più liricamente divertenti e politicamente “riprovevoli” del cinema americano (La donna del giorno).
Nei panni di più di 40 eroine del grande schermo, che condividono il suo volto e il suo accento, Katharine Hepburn ha incarnato i punti di forza della donna moderna, per poi seguire, da copione, un uomo nella confusione o nella disfatta. Quei punti di forza - intelligenza, indipendenza, spirito libero, anticonformismo professionale e politico - erano la nota memorabile dei suoi ruoli e costituivano una premessa drammatica a sé stante. Gli esiti funesti o semplicemente domestici di molti dei suoi film si possono liquidare invece come esigenza di un’epoca poco illuminata e segno sempre mancato di come avrebbe potuto concludersi la storia di una donna veramente “moderna”.
Ma una cosa è sicura, per più di mezzo secolo (1932-1994), Katharine Hepburn ha davvero interpretato se stessa. Né vamp né vittima, imperiosamente libera e insolente, era l’immagine sublimata della donna indipendente dagli uomini, dalla famiglia, dalle convenzioni. Ostentatamente moderna, «more modern than tomorrow», dichiaravano le riviste cinematografiche dell’epoca, Hollywood non aveva mai visto niente di simile. La sua apparizione nel 1932 in Febbre di vivere fu una rivoluzione. La novità non stava tanto in quello che faceva, ma in quello che era, un tipo di donna decisamente nuovo, come un colpo di frusta, su cui per primo scommette George Cukor. Tra i suoi film più belli, quattro sono firmati da lui (Piccole donne, Il diavolo è femmina, Scandalo a Filadelfia, Lui e lei), che la dirige meravigliosamente, magnificandola e identificandosi perfettamente con lei. In Il diavolo è femmina, Katharine Hepburn interpreta una ragazza travestita da ragazzo, riecheggiando la sua presunta bisessualità e l’omosessualità del regista. Sylvia Scarlett è la forma inaugurale dei motivi essenziali del cinema di Cukor: l’ambiguità sessuale, la confusione di genere, il travestimento, lo scambio di identità, la disparità tra essere e apparire. È questa possibile porosità tra i sessi a spiegare la loro indiscutibile complicità.
Nella vita e sullo schermo, Katharine Hepburn appare come una donna ribelle e anticonvenzionale. Il suo allure e le sue maniere rimandano al milieu “aristocratico” del New England, da cui proveniva e per cui fu subito percepita come una snob. Non fece mai niente per smentirlo. A questa problematica identità di classe, si aggiungeva un’identità di genere non meno complicata: la sua indipendenza e androginia la separavano sensibilmente da quelli che erano i canoni dominanti della femminilità. Katharine Hepburn si rivelò subito in contraddizione profonda con il panorama ideologico della metà degli anni 30, caratterizzato da una riconferma dell’ordine patriarcale e una ricostruzione nazionale attorno ai valori della classe media dopo gli sconvolgimenti economici e sociali della Grande Depressione.
Alta, rossa, la pelle fragile, il volto triangolare, gli zigomi pronunciati, compone col fisico anti-hollywoodiano eroine la cui funzione, nella commedia screwball, è di trascinare i suoi compagni, sempre maldestri, in una cascata di situazioni imbarazzanti e di condurli a una nuova consapevolezza. Jo March, la ragazza indisciplinata che vuole fare la scrittrice, il maschiaccio che sta a cavallo della balaustra, la ragazza energica che soffoca gli impulsi del suo cuore e che alla fine scopre la sua femminilità e l’amore, è il punto di partenza e l’archetipo di questo personaggio femminile, articolato a ogni nuovo incontro tra gli autori e la loro attrice (Cukor, Hawks, Stevens, Minnelli, Ford…)
Insieme a Cukor o lontano da Cukor, colleziona fiaschi al botteghino, fantasticherie shakespeariane, damigelle vittoriane e sovrane tragiche come Maria di Scozia, regina di cuore e opera(zione) senza musica che punta a sottomettere l’attrice, sullo schermo, agli standard tradizionali, in particolare preferendo l’amore all’ambizione e al potere. Il film è sopravvissuto soprattutto per alimentare le speculazioni sulla relazione di Hepburn col suo regista, John Ford, una “passione" insolita e difficile da intendere attraverso il prisma dei costumi attuali ma c’è certamente qualcosa di comprensibilmente attraente, quasi patriottico, nell’unione di questi due rapaci decisamente americani. Se “in coppia" con Ford mise fuori gioco il pubblico e al fianco di Cukor lo fece fuggire in preda al caos, fu comunque lei a sovvertire le regole di un Paese che cercava di ristabilire la legittimità della dominazione maschile e di gestire la perturbazione nell’ordine del genere. Un Paese che non riusciva a decidere se “tali donne” dovessero esistere e nemmeno a controllare una star la cui immagine gli sfuggiva continuamente.
Ma dentro la commedia di Howard Hawks e attaccata a Cary Grant, che le stacca la metà posteriore della gonna d’argento - lei farà altrettanto e senza volere staccando a lui una coda del frac -, si fa corpo quanto mai necessario al genere, scivolando, inciampando, rialzandosi e avanzando sul filo teso tra incoscienza e scaltrezza. Difficile per gli studios temperare quella sua immagine di aristocratica femminista e in contrasto con l’ideologia dominante. In Susanna! e di fronte a Grant, modello di compostezza dietro gli occhiali tondi alla Harold Lloyd, è un tornado, è ultra-fisica, quasi meccanica. Praticamente un’esordiente nel registro comico, che sarebbe poi diventato una delle sue specialità, accanto a Spencer Tracy.
Impossibile in quegli anni cambiare le regole del gioco ma l’attrice cambiò il profilo della giocatrice, attraversando un secolo di cinema (e di teatro), vincendo quattro Oscar, accarezzando il sogno di interpretare Rossella O’Hara (Via col vento) e consolandosi comprando coi soldi del fidanzato dell’epoca, Howard Hughes, i diritti del grande successo teatrale di Philip Barry (Scandalo a Filadelfia), che consegnerà a Cukor e alla MGM, alle sue condizioni.
Nasce così nel 1940 la commedia di ri-matrimonio perfetta. Impossibile fare meglio. Katharine Hepburn oscilla tra James Stewart e Cary Grant, George Cukor, in pieno possesso dei suoi mezzi, trascende il sofisticato boulevard di Philip Barry. Il film fu un successo e permise a Kate di scrollarsi di dosso le commedie che non avevano funzionato, ritrovare la popolarità e incontrare nei corridoi della MGM Spencer Tracy, un attore specializzato nel ruolo dell’americano equilibrato, tranquillo, sincero, non bello, fedele agli ideali fondatori e imbarazzato dalle donne. Affatto elegante, ma robusto, era il perfetto contrario di Hepburn, sempre vivace e sofisticata. Fuori dallo schermo, Spencer si ritrovò nella stessa situazione di John Ford: cattolico di origine irlandese, molto sposato, infelicemente sposato, infedele e per nulla disposto a divorziare. Ma che importa, al cinema e lungo un intero decennio, disegnarono il modello di una nuova intesa coniugale, aperta sulla vivacità dei conflitti ma destinata alla più ragionevole resa dei conti. Insieme e a partire dal 1942 (La donna del giorno) accumuleranno molti successi, film teneri e toccanti, che resero Kate più appetibile al pubblico, ma meno ambigui e divampanti di quelli condivisi con Cary Grant.
Dopo seguiranno Robert Taylor, Robert Mitchum, Humphrey Bogart, Laurence Olivier e una carriera che non sfuggirà alla crudele legge di Hollywood: il numero ridotto dei ruoli principali per le attrici sopra i cinquant’anni. I film realizzati dopo il 1960 includono l’adattamento di Sidney Lumet di Il lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill, gli Oscar vinti per oscuri film medievali (Il leone d’inverno) o per simposi geriatrici (Sul lago dorato). Film d’addio di Jane Fonda al padre, Henry, Sul lago dorato è un melodramma su una coppia al tramonto e ribadisce che le donne se la cavano meglio degli uomini. Sotto la coperta della finzione, abbondano le allusioni alla decrepitezza di Henry Fonda (morto pochi mesi dopo aver vinto l’Oscar) e alla salute insolente di Katharine Hepburn, 74 anni, atletica, ironica e altera. Avrebbe vissuto altri 22 anni, lasciando in eredità un’autobiografia gioiosamente egocentrica (Io, in Italia edita da Sperling & Kupfer) e l’immagine della donna testarda, sfrontata e sempre più forte dell’uomo e degli ostacoli: fallimenti, amori e conclusioni della maggior parte dei suoi film. Con quella silhouette androgina che le permetteva di giocare con i generi, fu l’affermazione di una personalità perennemente in divenire, una conflagrazione comica fiaccata (soltanto un po’) dall’amore. MARZIA GANDOLFI
La grande Katharine Hepburn non poteva mancare in una puntata della rubrica di Film Tv dedicata agli interpreti, Corpo a cuore, sul n. 5/2019: ve la riproponiamo.
Il diavolo è femmina
Cukor, che qui dirigeva Katharine Hepburn per la terza di dieci volte, disse che «il pubblico non aveva mai visto una ragazza come lei; pareva che gli abbaiasse contro». Talmente inedita e sovversiva che, dopo un disastroso test di proiezione, il regista inserì l’incipit in cui si taglia le lunghe trecce, come a dire “ehi, è una femmina, state tranquilli”. Non funzionò: il film fu un flop clamoroso, ma ormai era forgiata l’icona di Kate the Great, selvatica creatura che saltava gli steccati di genere, atletico Pierrot dalle misure fuori canone. Alta (1 metro e 71, quando andavano di moda le primedonne scricciolo), sportiva (praticò per tutta la vita nuoto, tennis e golf), dal petto minuto. E poi quegli scandalosi pantaloni da uomo, che Hepburn portava anche fuori dal set; nel 1935, prima che la Seconda guerra mondiale obbligasse le donne a essere dinamiche, vestirsi così era un oltraggio, perfino passibile di arresto. Ma prima di essere trasformata in maschiaccio (pur con quegli zigomi da sogno) dal truccatore Mel Berns, Kate era stata un lui sin da bambina, quando metteva abiti maschili e si faceva chiamare Jimmy; quando prese per sé il compleanno dell’amato fratello morto. Oltre la mascherata di Sylvia/Sylvester, c’è lo spirito indomabile di una diva che si disegnò solo come voleva lei. A 74 anni, in un’intervista, sintetizzò così: «Non ho vissuto da donna, ho vissuto da uomo. Ho fatto quello che mi pareva, ho guadagnato abbastanza da mantenermi, e non ho paura di essere sola». ILARIA FEOLE
Singolare femminile va in trasferta a Cesena: in occasione della rassegna Piazze di cinema, in programma dal 27/6 al 7/7, Alice Cucchetti e Ilaria Feole dialogheranno sui temi della newsletter e del cinema al femminile con Giulia Quintabà venerdì 27 giugno alle 19 al Chiosco Giardini Savelli (ingresso libero); la stessa sera alle 21.30 presentano L’albero di Sara Petraglia (vedi newsletter n. 173) insieme alla regista e all’interprete Tecla Insolia (Arena San Biagio, biglietto euro 3,50).
Parte oggi, 25 giugno, e prosegue fino al 28 a Torino la quinta edizione di Mind the Gap, festival transfemminista intersezionale quest’anno sottotitolato Divento rivoluzione. Moltissimi i talk e gli incontri in programma su temi come abilismo, corpi non conformi, erotismo, antirazzismo, salute mentale, diritti civili; tra gli eventi anche la proiezione del documentario Human Lights di Fabio Masi, sui 50 anni di Amnesty International, e la presentazione del libro Utero con vista di Domitilla Pirro e Benedetta Petroni.
Non solo Katharine Hepburn al Cinema ritrovato di Bologna: è partita in concomitanza con il festival e si può visitare fino al 30 settembre anche la mostra Above and Below the Line - Il lavoro delle donne nel cinema italiano del Dopoguerra, omaggio alle donne nell’industria cinematografica nostrana. Non solo registe, sceneggiatrici e produttrici come Suso Cecchi d’Amico e Cecilia Mangini, ma anche le tante segretarie di edizione, direttrici di casting, aiuto registe che hanno fatto la storia pur restando “sotto la linea” che convenzionalmente distingue i contributi artistici da quelli tecnico-produttivi.