Arriva in sala L’albero, esordio nel lungometraggio di Sara Petraglia, storia d’amicizia e di (tossico)dipendenza con protagoniste due giovani ma già straordinarie interpreti del nostro cinema, Tecla Insolia e Carlotta Gamba. Fiaba Di Martino ha intervistato per noi la regista.
All’esordio come regista e sceneggiatrice, Sara Petraglia ci parla di L’albero, in sala dal 20 marzo, passato in concorso nella sezione Progressive Cinema della Festa del cinema di Roma 2024: il ritratto di un momento nella vita di due ragazze poco più che ventenni, Bianca (Tecla Insolia) e Angelica (Carlotta Gamba), prese nella stretta delle ipotesi future ancora tutte da vagliare, degli amori che passano e tornano, e della cocaina, che consumano sempre più compulsivamente, ma senza disperazione, né euforia apparente: cosa cercano davvero, lì dentro, e l’una nell’altra?
Mi pare che il tuo film si inserisca in un bel momento di cambiamento nello slancio discorsivo e descrittivo nei confronti dell’adolescenza e post-adolescenza nel cinema italiano: la scoperta che il racconto di quest’epoca infinita e maltrattata in “ghetti” stereotipizzanti può andare oltre, penso per esempio al recente Diciannove di Giovanni Tortorici…
Io ho scritto una storia, e poi chi l’ha vista mi ha detto di aver tirato un sospiro di sollievo, per l’assenza della stereotipizzazione di cui parli. Allora mi sono chiesta perché accada, perché ci sia, nel nostro cinema. E ho pensato che è necessario smettere di vedere queste persone, i teenager, come figli, smettere di dipingerli da una posizione di adulti che guardano i loro ragazzini anziché ricordare com’erano loro a quel tempo. La sensazione è che nei film italiani i personaggi adolescenti siano sempre figli di qualcun altro: sono tutti saggi o tutti disperati, magari salvano i genitori perché boomer… Ecco, questo non mi interessava, ma semplicemente perché non mi sono posta il problema, cioè non ho cominciato il mio progetto pensando che non volevo ritrovarmi in uno schematismo, programmando di evitarlo - anche perché magari è proprio quel che sarebbe accaduto. No, mi sono semplicemente innamorata di questi due personaggi mentre li scrivevo, perché li sentivo veri. D’altronde mi sono basata su ciò che ho vissuto, che mi sono raccontata con le mie amiche negli anni, ho attinto dalle foto che ci facevano e dai posti che frequentavamo… Mi sono fidata della sceneggiatura che avevo scritto, perché mi piaceva, anche se ancora non avevo idea di come girarla. Un buon punto di partenza è stato anche trovare due attrici meravigliose.
Ecco, sta appunto sorgendo anche una nuova scuderia attoriale, giovane, da cui tu prelevi due rose rare, Carlotta Gamba, qui sempre pronta a scomparire, regale e fantasmatica, e Tecla Insolia, una folgorazione assoluta. Come hai concertato, sul set, la relazione fra loro due, e come è stata la loro con te?
Innanzitutto mi sono sentita fortunata a lavorarci. Fin dal copione, nelle mie intenzioni L’albero era molto dialogato, molto intenso… Se non avessi scelto bene le protagoniste, perciò, il film sarebbe crollato. Al momento dei casting mi parlavano molto di loro due perché avevano appena finito di girare le rispettive serie, L’arte della gioia Tecla e Dostoevskij Carlotta. Me le hanno molto spinte, al punto che io ero quasi indispettita, avevo paura di farmi troppo persuadere dall’idea di altri, e inoltre non avevo mai provinato nessuno… Poi quando le ho viste, e soprattutto quando le ho viste insieme, in un provino incrociato, ho capito che tra loro c’era quello che stavamo cercando, qualcosa che passava in continuazione dall’una all’altra. Erano una coppia perfetta, perché secernevano già ciò che mi interessava: una dinamica di potere, l’ambiguità su chi tenesse le redini del rapporto. Angelica, la più matta, oppure Bianca, che la strumentalizza per scrivere e per procacciarsi “la roba”? Mi piace che il film non si sbilanci da un lato o dall’altro, che non ti fornisca una risposta, e loro già in quell’audizione si passavano la palla con un senso di gioco e di perfidia. Carlotta ha persino morso Tecla, a un certo punto! E non era nel copione! Tecla si è presa un colpo, le ha dato una sberla… Ecco, questa cosa qui che è scattata è stata un bel dono, sai, poteva finire che si stavano antipatiche, e invece si sono unite in un rapporto simbiotico che si è esteso anche a me. Tale sintonia, il fatto che abbiano trovato da loro un rapporto, credo abbia aiutato tantissimo la riuscita del film.
Mi piace anche come forgi, diversificandola, la narrazione visiva di Roma: è una scenografia tragica, un palco che sembra offrirsi come un’isola rarefatta che fa paura e crea malinconia, soprattutto quando è giorno.
Alla luce del sole, qualsiasi città per due persone che fanno così tanto uso di sostanze è un luogo opprimente perché rivelatorio, brutale. Perché quella luce è impietosa. Sul set mi è stato chiesto di aggiungere comparse, visto che giravamo in un quartiere molto vivo - gentrificato, pieno di studenti, illuminato dalla movida… - ma io preferivo che fosse abbastanza vuoto, per dare l’idea di un posto che, a differenza del suo impatto reale, portasse fuori la solitudine, fosse una dimensione in cui ti puoi perdere. Credo possano confermarlo tutti i romani: la Capitale ha qualcosa di mortifero e di eterno al tempo stesso, ne parli male ma poi non riesci mai ad andartene davvero. Ho provato a instillare nel film quella specifica bellezza, credo per esempio che via del Mandrione, dove vediamo Bianca in bicicletta, sia una delle vie più belle del mondo, ma non volevo l’effetto cartolina, non volevo spettacolarizzare la città. Stessa cosa per Napoli: era importante per me stare su ciò che vede la protagonista, su quello sguardo di ragazza.
Nella sua recensione per Film Tv, Flavio De Bernardinis fa corrispondere la presenza e il senso dell’albero del titolo a quello della ginestra leopardiana. Io trovo sia un simbolo che nel tuo film, anche quando invisibile, si fa vertiginoso… E mi ha ricordato l’albero spezzato che in Nymph()maniac è il correlativo oggettivo della protagonista, del suo spirito, di una resistenza dolorosa. Una esistenza non controllata, dalla quale Bianca non cerca mai conforto; il cuore del film, che però rimane in lontananza.
Sì, il conforto loro non lo cercano e non lo trovano mai. Ho ritenuto interessante mostrare un pino che sorge tra i palazzi di Roma, peraltro in un momento in cui vengono tutti buttati giù perché malati. È un’immagine di resistenza, sicuramente avevo in mente la ginestra di Leopardi, sì… Ma la presenza dell’albero nasce da un mio fatto biografico, perché avevo un pino fuori dalla finestra di casa e lo guardavo ogni giorno, gli facevo foto, ne ero ossessionata. Aveva qualcosa di magnetico. Così l’ho inserito nel film senza attribuirgli un significato, e a fine sceneggiatura ha assunto un valore simbolico che non mi ero spiegata dapprincipio. Per me è quel qualcosa che non dimentichi, che, dopo anni in cui perdi persone e oggetti, continui a ricordare. Quell’immagine resterà con me per sempre. Ho voluto lasciarlo lì, misterioso, cosicché chiunque potesse vederci ciò che vuole. Poi, tutte le interpretazioni che ho letto mi sono piaciute molto, e forse ci hanno capito più di me!
Mentre guardavo il tuo film ho anche pensato a una torsione femminile, interiorizzata, di Non essere cattivo, però con questa amicizia femminile che toglie dal sommerso il sottotesto erotico-romantico, comunque non rendendolo il punto. Angelica è più una amica geniale, il personaggio di una storia, quindi Bianca la odia e la ama, la vorrebbe raccontare e al tempo stesso sembra volerla mantenere misteriosa; ne è dipendente, e mi sembra proprio che sia questo un focus fondamentale del film, l’attaccamento, l’assuefazione a una cosa o a una persona, da lasciar andare per poter crescere.
È venuto tutto naturalmente, nella scrittura stavo molto sul personaggio di Bianca e le persone come lei, che hanno bisogno che la vita somigli a un film, hanno perciò bisogno di incontrare e di innamorarsi di persone incomprensibili, più intense di loro che invece sono cerebrali. La dipendenza viene da questo, dal fatto che la persona che la attrae è la persona meno salutare da avere accanto, nonostante io credo che il loro sia un rapporto di amore vero: in fondo le amicizie che si interrompono sono quelle che amerai per sempre, sono gli amori che durano di più. Il legame con la dipendenza da cocaina nel racconto è venuto dopo, è qualcosa che accade a queste due ragazze e che corre in parallelo alla relazione. Racconto un doppio passaggio, che dura pochi mesi: quello dall’abuso alla dipendenza, e quello dall’amicizia all’amore. Entrambi sono eventi che si dipanano di pari passo, c’è un sentimento che potrebbe evolversi ma poi non può proprio perché c’è questa caduta… Nella vita, è giusto un piccolo momento, perché non te ne accorgi subito quando diventi tossicodipendente e nemmeno quando ti innamori della tua migliore amica. Penso sia capitato a tutti noi, non di essere tossicodipendenti ma di avere un rapporto del genere, che non riesci a leggere, non riesci a capire se è amore o ossessione, se ti fa bene oppure no. Questo film è stato un modo per provare a rispondere a domande molto mie, è la storia mia e dei miei vent’anni, ed è anche un inno a quel tipo di amicizia che nell’età più adulta si perde un po’. Insomma, ho fatto un film pensando “Mo’ dico tutto!”, provando a essere più sincera che potevo. Perché poi, se ci pensi, Bianca è innamorata ma anche manipolatoria, e quindi mi piaceva conservare questa sfumatura: di chi è la colpa quando i rapporti non vanno? Non lo sappiamo mai davvero. E ribadisco che per me l’amicizia femminile è sempre anche un amore, le mie le vivo in modo osmotico, come una famiglia, come un amore. E quando mi dicono che è una cosa adolescenziale, be’: per me è un complimento.
Domanda di rito. Qual è il tuo film della vita, che ti ha creato uno shock?
Mulholland Drive. L’ho visto al secondo o terzo anno di liceo e non ci ho capito niente, mi sono innervosita tantissimo. Sono uscita e c’era il diluvio, e lì, sotto la pioggia, continuavo a pensarci perché mi aveva contorto dentro. Prima vedevo film più “da ragazzina”, mettiamola così, e invece Mulholland Drive è un film sul cinema. Non avevo mai visto niente del genere, è partito tutto da Lynch per me, dall’ossessione per il suo lavoro. E ho compreso che la cosa che amo più di lui, rispetto a ciò di cui si parla di solito - l’assurdo, l’onirico, il simbolico - è il lato sentimentale. Ho visto quelle due che si tenevano la mano e poi una donna che cantava una canzone, e infine sveniva… E ho pianto senza capire perché, proprio come accade ai due personaggi. Ecco, il bello di Lynch per me è questo amore enorme che trasudano i suoi film, con la realtà che si turba e si sconquassa. Da allora ho guardato in modo diverso i film, il cinema, ma anche la mia vita. FIABA DI MARTINO
Abbiamo recensito L’albero di Sara Petraglia sul numero ora in edicola di Film Tv. Vi proponiamo anche qui la bella recensione firmata da Flavio De Bernardinis.
L’albero
Roma, quartiere del Pigneto. Bianca, 23 anni, sogna di scrivere un romanzo, aggrappandosi disperatamente alla coetanea Angelica, che dai sogni però è immune. La cocaina impasta entrambe di amicizia e sensualità. Fino a che bisogna smettere, e allontanarsi l’una dall’altra. Pena la vita. Opera prima di Sara Petraglia, un romanzo di formazione con gli eventi trattenuti fuori campo, tenendo dentro, invece, il flusso indistinto che questi si lasciano dietro. Film fatto di volti affondati nell’inquadratura, di dettagli capaci che sfuggono, di esperienze che si mostrano ma non appaiono. A volte sembra un Ecce bombo XXI secolo, ritratto di una generazione immersa nel nulla, talaltra la versione italiana di More - Di più, ancora di più, il film di Barbet Schroeder sull’annientamento da droga. L’albero del titolo, che campeggia nel vuoto, è l’unico segno di qualcosa che resta, contro tutto e tutti: come fosse la ginestra leopardiana, di cui il film è esplicito debitore. Film caparbiamente definito nei propri limiti, fatto di poesie scritte quando la poesia è finita, ma il desiderio ancora scintilla. Un esordio ambizioso, che scava nel vuoto che oggi tutto avvolge, per chiedere: come può essere il mondo, là dove la macchina da presa registra ciò che ancora non accade, e forse mai succederà? Un film, allora, quale puro e semplice problema. Problema attorno a ciò che adesso può e deve essere filmato. Anche se forse non c’è più niente da filmare, se non gli ultimi personaggi, ossia Bianca (Moretti?) che cerca l’assoluto, e Angelica (Ariosto? Visconti?) che coglie invece l’occasione e se ne va via, a Milano, quasi fossimo ancora all’inizio di Rocco e i suoi fratelli. FLAVIO DE BERNARDINIS
È scomparsa lo scorso 12 marzo Linda Williams, storica e studiosa di cinema e pioniera nell’analisi dei generi cinematografici attraverso il femminismo e le prospettive di genere, razza e sessualità. Per omaggiarla, un numero speciale della newsletter La Smarginatura ha pubblicato un estratto tradotto del suo fondamentale Film Bodies: Gender, Genre and Excess, che potete leggere qui.
È stato pubblicato lo scorso 8 marzo, da Chora Media, il nuovo podcast Echoes of Harm, in cui la giornalista Marisa Bate racconta le conseguenze e le ferite invisibili che la violenza maschile lascia sulle sopravvissute, in un viaggio che attraversa tutta l’Europa. Potete ascoltarlo su ogni piattaforma di podcast [in inglese].
L’ultimo videosaggio di una delle nostre youtuber cinefile preferite, Be Kind Rewind, analizza la figura della Bionda (e, per contrasto, anche quella della “Non Bionda”) nel cinema di Alfred Hitchcock. [in inglese]