Singolare, femminile ♀ #181: Dietro le palme
Come ogni anno, vi proponiamo il nostro reportage del Festival Cannes accendendo i riflettori sul cinema al femminile, tra grandi ritorni, qualche delusione e una manciata di opere prime molto promettenti.
Non si può dire che a Cannes 78, conclusasi sabato scorso con l'incoronazione del bellissimo film di Jafar Panahi Un simple accident, mancassero le autrici: la presenza in Concorso era addirittura da record, con 7 registe su 22 film in gara, e a una regista è stata affidata perfino l'apertura, per la prima volta nella storia del Festival assegnata a un'opera prima, Partir un jour di Amélie Bonnin. Chi scrive però ha avuto la sensazione che mai come quest'anno si sia trattato in alcuni casi di caselle da spuntare e di un ragionamento da automatiche "quote rosa" che difficilmente valorizza i film delle autrici in questione, e prendiamo come esempio proprio il film dell'ouverture: Partir un jour è un musical a basso budget, esile e tenero, tratto da un omonimo cortometraggio della regista. Un'opera piccola e per certi versi acerba, dalla schiettezza contagiosa, costruito su brani pop francesi dagli anni 60 ai duemila, eseguiti in modo volutamente maldestro dai protagonisti; un film d'esordio che magari altrove, in zone più accoglienti come la Semaine de la critique, o in slot meno esposti dell’attesissima apertura, avrebbe avuto una ricezione meno fredda, ma che come atto inaugurale del festival di cinema più prestigioso al mondo suonava troppo fragile e tiepido, una "delusione" già scritta.
Quando parliamo, e da queste parti ne parliamo spesso, come sa chi ci legge, di valorizzare e mettere in luce i film diretti di donne, parliamo anche di questo: il criterio non può essere solo quantitativo, né mirato a sbandierare la parità di genere; anche la programmazione festivaliera è un gesto politico, e la scelta della collocazione dei titoli, della cura con cui posizionarli e farli dialogare con gli altri film e col presente, ha sempre un significato e un peso. Con questa riflessione ci avviamo alla consueta, non esaustiva, carrellata sui film al femminile di questo festival di Cannes.
Partiamo dal palmarès, dove figurano due dei film firmati da donne del prestigioso Concorso: il più importante è andato a uno dei film più apprezzati e più importanti di questa edizione, Sound of Falling di Mascha Schilinski, insignito del Premio della giuria (ex aequo con Sirat di Oliver Laxe). Un'opera complessa e conturbante, costruita sull'eco ossessiva di traumi e desideri vissuti da quattro generazioni di donne in altrettante, emblematiche epoche della storia della Germania: la Prima guerra mondiale, il secondo dopoguerra, gli anni 80 del Muro e il presente. Edificato su un sistema sofisticato di semina e raccolta, di indizi che tornano ciclicamente a segnare il destino delle protagoniste e di voci narranti sibilline, il film sembra un lontano parente, più oscuro e incrudelito, del cinema di Sofia Coppola, per come mette da parte ogni slancio narrativo in favore di una messa in scena che restituisca il languore, il dolore, l'eccitazione dell'essere (giovane) donna. Costrette al matrimonio o alla servitù, avvinte dalle regole di etichette sociali che mutano negli anni, ma sembrano sempre volte a castrare e colpevolizzare la loro ricerca di libertà, guardate loro malgrado dagli occhi di uomini che nel migliore dei casi non le comprendono, le protagoniste si passano idealmente il testimone (ma il film non procede in ordine cronologico) di una ribellione trattenuta e ribollente, muovendosi tra le mura della medesima fattoria, nei pressi del fiume che segna il confine tra Est e Ovest, in una serie di momenti cristallizzati, contemporaneamente nel tempo e fuori da esso (come in una bellissima sequenza estiva, allo sbocciare di un amore nuovo, dove suona la più bella canzone di questo Festival, Stranger di Anna von Hausswolff).
È interessante notare che un simile senso di predestinazione e di generazioni in dialogo permea Romería, l'opera terza di Carla Simón, l'autrice di Estate 1993 e Alcarrás, che porta in Concorso un'opera complessa e parzialmente autobiografica, più frammentata e ambiziosa dei precedenti lavori, su una diciottenne in cerca di verità sul passato della sua famiglia; come i genitori della protagonista, anche quelli della regista sono morti di AIDS. Anche qui voci narranti e punti di vista oscillano, nel dialogo tra il diario della defunta madre e i video amatoriali della giovane figlia, cercando di agguantare una verità che è soprattutto una ricerca identitaria, la ricerca di pezzi di sé nella vita di genitori mai realmente conosciuti.
L'altro film premiato è La petite dernière, opera terza dell'attrice Hafsia Herzi, da qualche anno passata anche dietro la macchina da presa, che ha ottenuto il riconoscimento per la migliore interprete, la magnetica esordiente Nadia Melliti, nonché la Queer Palm, premio collaterale assegnato ogni anno al miglior film a tema LGBT+. E di tema, anzi di Tema con la T maiuscola, è lecito parlare per l'opera di Herzi, tratta dal romanzo autobiografico La più piccola di Fatima Daas (Fandango Libri), storia di una ragazza musulmana, figlia di immigrati algerini in Francia, che si affaccia all'amore e al sesso tentando dolorosamente di coniugare identità che famiglia e chiesa le hanno insegnato essere inconciliabili: è contro la sua religione desiderare altre donne, amarle, toccarle, come invece capisce prepotentemente di voler fare. Coming of age per molti versi assonante a La vita di Adele di Kechiche, ma più solare, La petite dernière racconta in quattro stagioni, tra la fine del liceo e l'inizio dell'università, i tentativi della protagonista di vivere la sua identità di donna queer, dapprima con vergogna, nascondendosi fisicamente (un cappellino calato sul volto) e simbolicamente (nome falso, falsa discendenza egiziana); poi con libertà e desiderio, nella storia d'amore con una donna che le spezza il cuore. Un po' acerbo nella messa in scena, ancorata a un montaggio troppo spesso didascalico, il film di Herzi ha dalla sua la spontaneità di un cast ottimo, a partire dalla premiata Melliti, capace di trasmettere epidermicamente tutte le incertezze e le contraddizioni di una donna che lotta per definire se stessa in primis davanti allo specchio, davanti al proprio sguardo giudicante e colpevolizzante, frutto di norme sociali troppo radicate per essere messe da parte con leggerezza.
Tra gli altri titoli queer firmati da donne, ne segnaliamo due: il primo è l'esordio dietro la macchina da presa della diva Kristen Stewart, The Chronology of Water, presentato al Certain regard, ovvero la biografia della nuotatrice e scrittrice statunitense Lidia Yuknavitch (incarnata da un'ottima Imogen Poots), attraversata da un complesso rapporto con la violenza, che lega in un filo rosso e tabù gli abusi subiti in famiglia con l'esplorazione di un desiderio segnato dalla propensione per le pratiche BDSM. Il secondo è l'opera prima di Alice Douard, presentata alla Semaine de la critique e intitolata Des preuves d’amour: le prove d'amore del titolo sono da intendersi in senso giuridico, e sono le 15 testimonianze che le protagoniste, una coppia lesbica sposata da tempo, devono fornire secondo la legge francese perché l'una possa adottare il bimbo che l'altra porta in grembo, una gravidanza che hanno cercato, progettato e accudito insieme, ma che ha bisogno di supporti "esterni" per poter essere definita una maternità condivisa. Le ottime interpretazioni di Ella Rumpf e Monia Chokri sono al servizio di una sceneggiatura brillante, che incasella con precisione un tema come quello della genitorialità in una coppia omosessuale - ancora problematica a livello giuridico in molti paesi d'Europa - all'interno di una narrazione in aggraziato equilibrio fra dramma e commedia, dove le incertezze di una donna di fronte alla maternità sono moltiplicate per due dai tanti e differenti dubbi che le due mogli vivono nei mesi dell'attesa.
Restiamo sul tema maternità per un'opera di tutt'altro segno, che ha molto diviso la critica cannense e che la giuria presieduta da Juliette Binoche ha lasciato a bocca asciutta, nonostante la prova d'attrice maiuscola di Jennifer Lawrence: Die, My Love di Lynne Ramsay. Incontriamo la protagonista, dall'antifrastico nome Grace, all'inizio della sua convivenza con il partner (Robert Pattinson), in una relazione incandescente e sensuale, fatta di complicità animale e di coiti esaltanti. La ritroviamo madre di un bimbo di sei mesi, e in pezzi: alienata dalla solitudine e dalla fatica solo in parte condivisa col marito spesso assente, Grace è diventata una creatura ferina e frustrata, una donna-belva (il film è, anche, la versione più folle e complessa di Nightbitch di Marielle Heller, insistendo sulla medesima "mutazione" bestiale della neo madre) i cui desideri e bisogni non vengono più accolti, come se il mondo intorno, a partire dal marito che non fa sesso con lei da mesi, le avesse appiccicato addosso l'etichetta esclusiva di "madre" al posto di quella di "persona". Ramsay si lascia trascinare dalla sua magnifica attrice in un film-performance vulcanico e provocatorio, scomposto nell'ordine cronologico e inondato di musica rock ad altissimo volume, in cui la depressione post partum non è più un rimosso, anzi; diventa un'altra etichetta, un'altra gabbia in cui Grace si vede incasellare (in primis dalle altre donne, dalla suocera Sissy Spacek alle ipocrite vicine di casa), trattata col paternalismo che si riserva a chi "non è in sé". Slabbrato e dominato dalla furia animale di Jennifer Lawrence, è un film imperfetto che proprio per questo amiamo.
E a proposito di film imperfetti, ci aspettavamo di più, probabilmente, da un'altra autrice in Concorso, la Julia Ducournau di Raw, già Palma d'oro con Titane, che con Alpha firma un'opera tra fantascienza e mélo; un coming of age, come già la sua fulminante opera prima, ambientato in una versione alternativa del nostro presente, dove un'epidemia trasforma in statue, rigide e tragicamente friabili, le persone contagiate. La piccola Alpha, tredicenne già alle prese con la definizione di sé, si ritrova per casa lo zio ex tossicodipendente (Tahar Rahim, dimagrito in modo impressionante per il ruolo) e costruisce con lui un legame che si fonda sulla condivisa intolleranza alle regole e alla disciplina che invece sua madre (Golshifteh Farahani), medico intransigente, incarna. Scoperta metafora dell'epidemia di AIDS, mélo familiare dai toni survoltati, opera di fantascienza cupa e opaca, il film di Ducournau vive di sequenze visivamente impressionanti pur mancando di una coerenza e di un'incisività narrativa che invece caratterizzavano i suoi film precedenti.
Ampliando lo sguardo oltre Alpha e il Concorso, risulta un po' sottotono - soprattutto dopo il trionfo di The Substance dell'anno scorso - tutta la produzione di genere al femminile di questa edizione: la Quinzaine des cinéastes in particolar modo ha dato spazio a horror e sci-fi, con risultati altalenanti. Non memorabile il pur divertente Amour apocalypse della quebecoise Anne Émond, improbabile love story ai tempi del cambiamento climatico che vede protagonista un uomo, single ed eco-ansioso, e una donna sposata, attratti da irrefrenabile passione e spinti l'una nelle braccia dell'altro da un evento atmosferico disastroso che investe il Canada e sembra presagire, appunto, l'apocalisse. Più interessante l'horror Que ma volonté soit faite della francese Julia Kowalski, che evoca atmosfere da B movie sanguinolento per mettere in scena il cruento coming of age di una ragazza posseduta dal maligno, o forse solo convinta (speranzosa?) di esserlo: mentre una misteriosa malattia fa fuori una dopo l'altra le mucche della fattoria di famiglia, la giovane fa i conti col proprio desiderio indicibile in un crescendo horror che evoca medievali cacce alle streghe, come a dire che il Male viene sempre identificato con la donna, soprattutto se libera, autonoma e incurante del fatto di vivere pienamente la sua sessualità.
In questo senso, il migliore del gruppo per distacco è L’engloutie, fiaba nerissima ambientata nel candore delle Alpi che si muove in territori simili al precedente titolo citato: anche qui c'è una giovane donna in una comunità isolata (stavolta si tratta di una maestra chiamata a insegnare, allo scoccare del 1900, in un piccolissimo villaggio montano), anche lei travolta da un desiderio erotico che la trasforma, agli occhi del paese, in una sorta di strega da murare viva. Ironico ed elegante, l'esordio nel lungo di Louise Hémon usa con intelligenza le sue location fiabesche ma perturbanti, la colonna sonora e i chiaroscuri dei lumi di candela, confezionando un horror sottile e femminista, dove la protagonista, colta e progressista (una donna del Novecento, in una comunità che pare aggrappata al secolo morente), ma pure borghese e un po' viziata, si ritrova assediata dall'ignoranza del villaggio e messa alla prova dalla schietta autenticità delle tradizioni popolari.
Tra le altre opere prime di rilievo, oltre a L'engloutie, citiamo due bei film dalla Semaine (sezione a netta e un po' sfacciata prevalenza francese, certo, ma pure dimostrazione di come l'industria audiovisiva francese sappia dare alle registe esordienti i mezzi per realizzare opere personali e interessanti), entrambi col nome di battesimo: Kika di Alexe Poukine e Nino di Pauline Loquès. Kika è un ritratto femminile irresistibile, che inizia come un mélo - una donna abbandona la famiglia per seguire un amore nuovo e travolgente, salvo poi perderlo di colpo - e si trasforma in inattesa esplorazione dei meandri della comunità BDSM: Kika, al verde, si mette in gioco come dominatrice a pagamento, ma per imparare le regole del gioco deve conoscere, e accettare, anche il suo dolore, il suo piacere, e le resistenze che ha costruito intorno a essi. Un film divertente e commovente, girato da una regista che viene dal documentario, scritto con grande sensibilità e rispetto per ogni forma di kink e per le lavoratrici sessuali, interpretato da un'attrice che per noi è la rivelazione del festival, Manon Clavel.
Nino è invece un film al maschile, scritto con abbondante maturità per essere un esordio assoluto nel lungo: il protagonista è un giovane uomo che scopre, nei primissimi minuti, di avere un cancro, curabile e con buone percentuali di sopravvivenza. La chemio però, lo avvisano, azzererà la sua fertilità, quindi se vuole nel futuro diventare genitore deve depositare un campione di sperma in ospedale prima delle cure: iniziano così 72 ore di odissea, urbana ed esistenziale, in cui Nino, smarrite le chiavi di casa, vagabonda tra la sua cameretta di adolescente, l'appartamento della ex, quello del migliore amico e così via, in una serie di incontri tutt'altro che illuminanti, ma che serviranno al protagonista per scendere a patti col nuovo corso della sua vita.
Tra le altre illustri esordienti dell'edizione, anche Scarlett Johansson, al Certain regard con Eleanor the Great, film un po' troppo convenzionale per gli standard della sezione e troppo spesso alla ricerca della lacrima facile, ma illuminato dalla meravigliosa June Squibb, neo diva a 95 anni, in un ruolo da protagonista assoluta che a Hollywood è spesso precluso ad attrici della terza età.
Terminiamo la disamina del Concorso con gli ultimi due titoli firmati da donne: il bel coming of age Renoir di Chie Hayakawa e il ritorno della grande Kelly Reichardt (vedi newsletter n. 9) con The Mastermind. Renoir è un'opera autobiografica con protagonista un'undicenne dalla fantasia iperattiva, ambientato nella torrida estate del 1987 in Giappone; il padre della protagonista è malato terminale, lei tenta esperimenti di trasmissione del pensiero e prende (rischiosi) appuntamenti virtuali tramite segreteria telefonica. Ingiustamente sottovalutato da critica e giurati, è un film tenero e cupo come un'opera animata di Miyazaki, capace di restituire lo sguardo e la logica di una ragazzina al pari di una Céline Sciamma. Con The Mastermind, invece, Reichardt prosegue nel segno di una stilizzazione anche ironica come già accadeva col precedente e bellissimo Showing Up (vedi newsletter n. 179): qui il protagonista è Josh O'Connor, nei panni (curiosamente assonanti a quelli del suo personaggio di La chimera) di un rapinatore da quattro soldi che pare uscito da un film di Wes Anderson (un po' Fantastic Mr Fox, un po' Un colpo da dilettanti), incapace di gestire la vita familiare (sua moglie è Alana Haim, rivelata da Licorice Pizza di PT Anderson) e le conseguenze di un furto andato storto, in un'ennesima e intelligente dissezione di esistenze ordinarie di cui Reichardt è maestra.
Menzione speciale per un film Fuori concorso che ci ha divertito come pochi: Vie privée di Rebecca Zlotowski, commedia gialla sghemba e buffa, dominata da una meravigliosa Jodie Foster che sfodera, oltre a un impeccabile francese, anche doti di attrice brillante che così di rado la vediamo usare.
Concludiamo la carrellata con due film firmati da registi, ma legati alla rappresentazione del femminile e del femminismo: in Concorso c'era (e c'è ora nelle sale italiane) Fuori, il film di Mario Martone ispirato alle opere di Goliarda Sapienza e al suo racconto del carcere (in particolare a L'università di Rebibbia). Accorato e animato da una generosa Valeria Golino (già autrice, dall'altra parte della macchina da presa, della fortunata trasposizione di L'arte della gioia, vedi newsletter n. 171), capace di incarnare di Sapienza la malinconia, la curiosità e il candore, il film è firmato anche dalla sceneggiatrice Ippolita di Majo, che aveva già portato a teatro Sapienza con Il filo di mezzogiorno, ma a Martone interessa più ritrarre la dinamica contraddittoria tra libertà e prigionia, in senso letterale e simbolico, che il personaggio della scrittrice o la sua militante poetica. Così, pur ritrovando la messa in scena di un grande regista e alcune sequenze di lancinante bellezza, siamo rimaste deluse dal trovare nel film - che è, lo ribadiamo, tutt'altro che un biopic - troppo poco di Sapienza, rimasta forse chiusa in quel baule col manoscritto di L'arte della gioia che si intravvede a un certo punto, ma difficile da rintracciare in questa visione del femminile così convenzionalmente affascinante e imprendibile: detenute bellissime e sensuali (Matilda de Angelis, Elodie), levigate e acconciate anche tra le mura del carcere, forti ma fragili, evanescenti come creature fatate (appaiono e scompaiono senza lasciare traccia), ci sembra abbiano poco a che fare con le parole e lo sguardo di Sapienza.
Mette invece direttamente le mani avanti sul suo male gaze il regista di La ola (Fuori concorso), il cileno Sebastian Lelio: ispirato alle proteste femministe che hanno infiammato le università cilene nel 2018, è un musical militante e corale, che segue le vicende di alcune studentesse alle prese con abusi di potere, molestie e stupri, trasformando scioperi e occupazioni in coreografie a ritmo rap e pop. A un certo punto il set si manifesta come tale e le protagoniste interpellano il regista medesimo, che compare in scena rompendo la finzione: perché una storia come questa è stata raccontata da un maschio? Un escamotage divertente che resta però un po' fine a se stesso, in un'opera accorata e pessimista, come dimostra il post-finale che rivela come i molestatori la facciano, in fin dei conti, sempre franca, mentre le vittime devono scontare il fatto di essersi esposte. ILARIA FEOLE
Un nuovo libro fotografico, uscito peri il 25° anniversario del film, raccoglie gli scatti sul set di Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola: su “Internazionale”, Daria Scolamacchia ripercorre la storia della celebre fotografa di moda che la regista ingaggiò per immortalare le riprese, Corinne Day, scomparsa nel 2010.
Interrogata dall’ineludibile Letterboxd sui suoi film favoriti, Kristen Stewart a Cannes ha citato un capolavoro di Agnès Varda, Il verde prato dell’amore alias Le bonheur: lo trovate tra le nuove uscite di maggio su MUBI.
Dopo 8 anni e 6 stagioni è giunta al termine ieri The Handmaid’s Tale, la serie tratta da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood: su “Variety”, una lunga intervista alla protagonista e produttrice esecutiva Elisabeth Moss e sul suo rapporto col ruolo di June. [in inglese]