Singolare, femminile ♀ #179: Ma libera veramente
Da qualche settimana è disponibile su Disney+ Dying for Sex, mentre su Netflix è apparso Showing Up, il penultimo film di Kelly Reichardt: in entrambi la protagonista indiscussa è Michelle Williams, attrice dalla carriera prolifica e singolare, che ha esordito giovanissima nel successo tv Dawson’s Creek ma ama la cinematografia indipendente. Ne approfittiamo per ripercorrere la sua strada, e per omaggiarla.
Michelle Williams è entrata nella vita di più di una generazione di spettatori scendendo da un taxi e camminando al ralenti nell’idilliaco scenario di un New England filmato in North Carolina: era l’episodio pilota di Dawson’s Creek, per la prima volta in onda in Usa nel gennaio del 1998 (in Italia la serie sarebbe arrivata nel 2000), il teen drama di Kevin Williamson ambientato nella finzionale cittadina di Capeside, scritto con ispirazioni autobiografiche dall’autore di Scream. La grammatica di quella scena, e la reazione dei protagonisti ci dicono a chiare lettere quale archetipo il personaggio di Williams dovrebbe incarnare: la bomba sexy, irresistibile ed enigmatica, venuta dalla grande città per sconvolgere la vita degli “innocenti” ragazzi di provincia, insomma, una femme fatale in piena regola.
Solo che, fin da quei primi episodi, la sua Jen Lindley si rivela qualcosa d’altro – ed è, a ripensarci in prospettiva, uno dei pregi di quel teen drama così influente: ognuno dei suoi personaggi principali si emancipa presto dallo stereotipo narrativo di partenza, nei pregi e soprattutto nei difetti. Jen è, da subito, un’outsider, mai integrata fino in fondo nella dinamica strettissima dei tre amici d’infanzia Dawson, Pacey e Joey, e mai davvero pacificata con il paesaggio provinciale che la circonda; nel corso delle stagioni, per esempio, litigherà testardamente con la nonna iper religiosa, si abbandonerà a una fase autodistruttiva con la bad girl Abby, diventerà una capo cheerleader ribelle in anfibi e calze strappate. Mentre Dawson, Joey e Pacey saranno impegnati in un estenuante triangolo amoroso (che qualche volta Jen rende un effimero quadrangolo), le sue relazioni più importanti nel corso della serie non sono romantiche (ma, per chi scrive, tra le più belle ed emozionanti dello show): quella che da scontro aperto si trasforma in affetto e comprensione totali con la nonna, e la grande amicizia con Jack, che Jen difende, sostiene, accoglie durante tutto il suo osteggiato percorso di coming out. Non possiamo – ancora, dopo tutti questi anni – non pensare che la tragica conclusione che attende Jen nello strappalacrime series finale, sia inconsapevolmente anche la risposta conformista di un mondo – narrativo, ma non solo – che non accetta l’irriducibilità alle regole del suo personaggio.
Dawson’s Creek è un teen drama atipico, nonostante la sua influenza, e Michelle Williams è stata, fin dall’inizio, una presenza atipica al suo interno: la stessa attrice ha sempre raccontato che, pur trovandosi molto bene sul set (come anche gli altri attori ha vissuto per ben sei anni a Wilmington, North Carolina, dove si girava la serie), si preoccupava nello stesso tempo del pericolo di rimanere ingabbiata in un ruolo immediatamente tanto cruciale per l’immaginario adolescenziale. Quella di Jen è la sua prima vera parte importante (l’esordio sullo schermo l’aveva fatto a 13 anni in una puntata di Baywatch), quando inizia ad andare in onda Dawson’s Creek Williams non ha neanche 18 anni, ed è naturale che, come tanti suoi omologhi, tema i pericoli del typecasting, o peggio ancora la maledizione che aggancia tutta una carriera a un singolo ruolo d’enorme successo. Così, fin da subito, si adopera per lavorare, nelle pause tra una stagione di Dawson’s e l’altra, in progetti piccoli, indipendenti e diversi tra loro. In realtà, almeno un altro obliquo teen cult nel suo curriculum ce l’ha, e se non lo conoscete vi consigliamo di recuperarlo: la scombiccherata commedia Le ragazze della Casa bianca, in cui recita accanto a una altrettanto giovane Kirsten Dunst (e che è molto amata dalla produttrice Gale Anne Hurd, come dicevamo in uno dei primissimi numeri della newsletter). Le due interpretano una coppia di amiche nei primi anni 70: ossessionate da Nixon, finiscono per far scoppiare lo scandalo Watergate (il titolo originale, con voluto doppio senso, è Dick).
Ma Michelle Williams è uno dei rari esempi d’attrice in grado di emanciparsi (peraltro, letteralmente: in accordo con i genitori ha sostenuto in adolescenza la procedura d’emancipazione per poter lavorare senza esser sottoposta alle restrizioni per i minorenni) da esordi in giovanissima età e da un primo grande ruolo cult televisivo; l’ha fatto, però, seguendo con estrema consapevolezza una strada “laterale”: non cercando ostinatamente una parte spettacolare sul grande schermo, ma dedicandosi con costanza e continuità al cinema indipendente, dove – ha sempre spiegato – ha potuto trovare una libertà di sperimentare, e dunque crescere, per forza di cose assente dai grandi set. Cresciuta nella natura selvaggia del Montana, ha dato più volte credito alla propria infanzia anticonvenzionale, trascorsa ad andare a pesca e a caccia con il padre, e alle difficoltà di adattarsi alla vita urbana una volta che la famiglia si è trasferita in California, per il suo temperamento sempre sottilmente da outsider. A scorrere la sua filmografia, negli ultimi anni di Dawson’s Creek (che si conclude nel 2003) e in quelli immediatamente successivi, si trovano progetti piccoli ma notevoli – come The Station Agent, il film che fa conoscere al mondo Peter Dinklage, di cui Williams interpreta l’interesse romantico, o l’opera seconda di Ethan Hawke, L’amore giovane – e titoli di autori riconosciuti: Wim Wenders scrive pensando direttamente a lei La terra dell’abbondanza, esplorazione degli Usa post 11 settembre.
A proiettarla definitivamente a Hollywood e verso la sua prima (di cinque, a oggi) nomination agli Oscar è I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, nel 2005, 20 anni fa: quello di Alma, la giovane moglie dell’Ennis di Heath Ledger, è un ruolo piccolo e fondamentale, che Williams riesce a rendere gigantesco in poche scene, infondendovi tutto il tumulto di sentimenti contrastanti che attraversano un personaggio dolce e ferito, furioso ma pieno d’incrollabile affetto per il marito. Il 2008 è poi un anno spartiacque, sullo schermo e nella vita: è quello della morte di Heath Ledger, suo ex (da pochissimo) compagno e padre della sua prima figlia Matilda (la notizia della tragedia la raggiunge sul set svedese di Mammoth di Lukas Moodysson, a proposito di “lontananza” dallo stardom hollywoodiano), ed è anche quello dell’inizio del suo prolifico sodalizio artistico con Kelly Reichardt (oltre che dell’uscita di un cult imprendibile come Synechdoche, New York, esordio da regista di Charlie Kaufman). Wendy and Lucy, la prima collaborazione tra Williams e Reichardt, è subito un lavoro emblematico dei punti di forza dell’attrice e del lavoro cinematografico che predilige: una parte in cui i silenzi e le geografie contano quanto e più delle parole, un impianto produttivo leggerissimo, ridotto all’osso, in cui l’improvvisazione e la libertà di movimento sono essenziali. Con Reichardt, a oggi, Williams ha girato altri tre film, dimostrandosi perfettamente aderente al minimalismo dell’autrice: il “rivoluzionario” western Meek’s Cutoff, la “raccolta di racconti” Certain Women (che ha riportato Williams nel “suo” Montana) e il recente Showing Up, in Italia uscito su Netflix qualche tempo fa senza alcuna promozione, nonostante fosse stato presentato in Concorso al Festival di Cannes 2022, in cui l’interpretazione di un ruolo d’artista, per la precisione di scultrice, non può che dialogare, anche per sottrazione o contrasto, con il suo essere attrice.
E, a proposito di dialoghi “serendipici”, al cuore della filmografia di Michelle Williams ci sono poi due film inconsapevolmente “gemelli”, usciti a un anno di distanza l’uno dall’altro: Blue Valentine di Derek Cianfrance nel 2010 e Take This Waltz di Sarah Polley nel 2011. Storie d’amore spezzato, piccole e semplici, e insieme strazianti, rese vive, intensissime e spietate, dai dettagli e dalla quotidianità in cui sono immerse: in Blue Valentine (con cui ottiene la seconda nomination agli Oscar), Williams recita in coppia con Ryan Gosling, mettendo in scena la fine livida e l’inizio luminoso di un amore, in frammenti temporali giustapposti, e in una performance di autenticità lancinante ottenuta anche attraverso numerosi momenti d’improvvisazione (Cianfrance ha voluto che i due attori vivessero insieme, per un mese, con un budget limitato come quello dei loro personaggi working class); Take This Waltz è invece un “passo a tre”, danzato con un Seth Rogen “insospettabile” (perfetto il suo “contro casting” rispetto alle predominanti commedie di allora) e con un Luke Kirby ancora pochissimo noto, il racconto che inizia tenero e finisce amaro di un tradimento consumato e di un matrimonio finito, denso di rimpianti. «You always hurt the ones you love», la canzone d’amore della coppia di Blue Valentine, potrebbe essere il tappeto sonoro perfetto per i giri di valzer del terzetto di Take This Waltz.
In questi ultimi 15 anni di carriera ormai solidissima, Williams è tornata più volte ad affacciarsi al mainstream – seppure, ci pare quasi ogni volta, non completamente a proprio agio. Il ruolo di Glinda in Il grande e potente Oz l’ha accettato esplicitamente per fare qualcosa che potesse piacere a sua figlia, più recentemente l’abbiamo vista in The Greatest Showman e perfino nei supereroici film di Venom accanto a Tom Hardy, oltre che nella commedia con Amy Schumer Come ti divento bella. Ha diradato volutamente i suoi impegni sullo schermo, scegliendosi progetti variegati, collaborando con autori diversissimi – il Kenneth Lonergan di Manchester by the Sea (sua quarta nomination all’Oscar; sulla terza torniamo a breve) l’ha cercato lei stessa con convinzione, mentre è diventato un caso la sua esperienza sul set di Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott. Un film che potremmo definire “simbolo del #MeToo”, e non per i suoi contenuti: non solo l’originario protagonista Kevin Spacey è stato sostituito in tutte le sue scene, all’ultimo momento, in seguito all’emersione delle molteplici accuse di molestie sessuali a suo carico; ma, chiamata a rigirare le proprie scene con Christopher Plummer, Michelle Williams ha accettato di farlo per il minimo sindacale, poco meno di 1.000 dollari, per sostenere il film, per poi scoprire che per un impegno immensamente minore il collega Mark Wahlberg aveva ricevuto ben 1 milione e mezzo. Un esempio estremo del gender pay gap che da Hollywood in giù affligge tutto il lavoro femminile, e che ha reso Williams una fervente attivista per la parità di genere.
Oltre a Blue Valentine e Take This Waltz, ci sono altri due titoli della filmografia dell’attrice che ci viene spontaneo accostare, perché sono quelli – rari – in cui si dedica a interpretare personaggi realmente esistiti, per di più appartenenti al mondo dello spettacolo. Il film Marilyn nel 2011 (eccola, la terza nomination all’Oscar) e la miniserie Fosse/Verdon nel 2019 la vedono incarnare due icone: del cinema, ovviamente, nel caso di Marilyn Monroe, e di Broadway per la Gwen Verdon di Fosse/Verdon. E sono entrambe performance ricchissime e profondamente interessanti proprio nel modo in cui affrontano, ed evitano, tutte le trappole del biopic. Se Marilyn è un film abbastanza convenzionale, ed estremamente timido nell’accostarsi al “mistero Monroe” (d’altronde sposa il punto di vista adorante di un giovane maschio “innamorato” dell’immagine della diva), l’interpretazione di Williams è il vero valore aggiunto, capace contemporaneamente di ricreare in modo convincente i frammenti d’immaginario associati a Marilyn Monroe (le scene di Il principe e la ballerina, per esempio) e nello stesso tempo rifuggirne ogni imitazione, cercando Marilyn nello spirito e nell’intenzionalità più che nella gestualità o nella voce. Qualcosa di simile capita in Fosse/Verdon, dove Williams deve anche “compensare” il divario di abilità nella danza che la separa dal personaggio che interpreta (è una brava ballerina, ma Gwen Verdon è considerata all’unanimità una delle migliori danzatrici che abbiano mai calcato i palchi newyorkesi), oltre a coprire un arco temporale pluridecennale. Di nuovo, Michelle Williams offre una prova d’attrice straordinaria, acciuffando l’essenza della protagonista, anche e soprattutto nell’incommensurabile contributo artistico e creativo che Gwen Verdon ha dato alla propria carriera e a quella del marito che soprattutto nella seconda parte della vita l’ha spesso oscurata, Bob Fosse (interpretato da un altrettanto strepitoso Sam Rockwell). Da notare, inoltre, che Fosse/Verdon arriva dopo una pausa dal cinema di un paio d’anni che Williams si è presa proprio per mettersi alla prova a Broadway, tra le altre cose nel difficile ruolo di Sally in Cabaret: ancora oggi (che è sposata con Thomas Kail, regista oltre che di Fosse/Verdon del blockbuster di Broadway Hamilton) sostiene che quello sia stato l’impegno più difficile di tutta la sua carriera.
Un altro ruolo ispirato a una persona vera è quello dell’ultima – a oggi – nomination all’Oscar per Williams, la Mitzi Fabelman di The Fabelmans di Steven Spielberg: uno dei rari casi in cui il cineasta statunitense mette al centro del racconto un personaggio femminile, che in questo caso – il film è esplicitamente autobiografico – è ricalcato proprio sulla madre del regista. Non una figura pubblica, come Marilyn Monroe e Gwen Verdon, ma forse ancor più delicata da approcciare, e un personaggio complesso, ancora una volta pieno di contraddizioni insolubili, superficialmente respingente eppure con cui, soprattutto grazie alla resa di Williams, è impossibile non empatizzare. Ed è un’altra figura d’artista – Mitzi è una pianista, che rinuncia a una grande carriera per la sua famiglia, e che non riesce a venire a patti con i rimpianti che questo comporta – tra le molte impersonate da Williams, che curiosamente chiude anche un cerchio (un giro di valzer?) con il Seth Rogen di Take This Waltz: questa volta è lui il “terzo incomodo”, l’innamorato per cui Mitzi/Williams finisce per lasciare il marito/Paul Dano.
E veniamo infine al progetto più recente dell’attrice, il suo secondo ritorno al piccolo schermo dopo Fosse/Verdon, cioè la miniserie Dying for Sex, disponibile su Disney+, in gran parte diretta da Shannon Murphy (Babyteeth), co-creata da Liz Meriwether (autrice per noi interessantissima, da New Girl a The Dropout) e Kim Rosenstock, a partire dal podcast di Molly Kochran e Nikki Boyer. Di nuovo, una persona realmente esistita è l’ispirazione, e la parte, sulla carta, è tanto densa d’insidie da terrorizzare qualsiasi attore, anche il più navigato: Molly è (stata) una donna che, ricevuta la diagnosi di un cancro terminale, sceglie di dedicare tutto il tempo che le resta a esplorare i propri desideri sessuali, cercando di ottenere quel che nella vita le è sempre sfuggito, ovvero un orgasmo con qualcuno che non sia se stessa. Dying for Sex cammina su un confine strettissimo e sdrucciolevole, sia per l’ispirazione reale, sia soprattutto perché parla di malattia e morte con toni di commedia.
La serie aderisce alla sua interprete: entrambe sono coraggiose, generose, temerarie, buffe, spaventate e spericolate, disposte a sprofondare in luoghi oscuri, disagevoli, terrificanti per provare a scardinare davvero alcuni dei pochi tabù che ci restano, quelli del fine vita e del piacere femminile perseguito senza remore. «Poter scegliere come godere vs poter scegliere come morire sono due faccende che riguardano lo stesso set di diritti fondamentali, e che implicano scelte difficili, lucidità e capacità di dichiarare i propri limiti. Come vogliamo essere toccati, chi vogliamo accanto, quando possiamo dire basta, sono domande cruciali sia se parliamo di sesso, sia se parliamo di fine vita» spiega perfettamente Ilaria Feole nella sua recensione di Dying for Sex pubblicata su Film Tv n. 16/2025, notando poi che alla rappresentazione di questi temi ingombranti la serie sa affiancare anche quella, inedita, travolgente e commovente, di una meravigliosa amicizia femminile (la co-protagonista Jenny Slate è un altro personaggio indimenticabile).
In un percorso così fitto di dialoghi interni e “giri di valzer” – e che ha davanti a sé una strada ancora potenzialmente lunghissima e chissà quanto sorprendente –, ci pare che anche Dying for Sex possa configurarsi come un’altra “chiusura del cerchio”: proprio con Dawson’s Creek, la serie che ha lanciato Williams e dalla cui ingombrante eredità Williams è subito riuscita a fuggire. D’altronde, già lì interpretava una (giovane) donna irrequieta ma determinata, desiderosa di sperimentare, d’inseguire il proprio piacere e i propri sentimenti, generosa negli affetti e dedita a edificare relazioni anticonvenzionali e famiglie elettive. E se là la morte, nel finale, non poteva non suonare, almeno in parte, come una “punizione” per il suo sottrarsi alle regole che la società impone alle donne, in Dying for Sex la morte è invece “reclamata” come parte indissolubile di una rivendicazione di libertà, e di un percorso di audace e abissale autoconsapevolezza. Proprio le caratteristiche che Michelle Williams, ha sempre, e da sempre, cercato nei suoi lavori. ALICE CUCCHETTI
L’ultimo film di Kelly Reichardt sarà presentato in Concorso al Festival di Cannes 2025, che è cominciato ieri e proseguirà fino al 24 maggio. Il precedente lavoro di Reichardt, Showing Up, con protagonista Michelle Williams, è invece apparso silenziosamente qualche settimana fa su Netflix. Ne ha parlato il direttore Giulio Sangiorgio su Film Tv n. 19/2025: vi riproponiamo il suo pezzo, ideale proseguimento della newsletter sull’autrice scritta da Ilaria Feole nel 2021, che potete rileggere qui.
Lo spazio tra le cose
Mentre Cannes 78, in Concorso, propone The Mastermind, su Netflix è finalmente disponibile Showing Up: cioè il penultimo film di Kelly Reichardt, anch’esso presentato in Croisette nel 2022. Un film rubricato scioccamente come “minore”, poco visto, poco amato (anche se i “Cahiers du cinéma” lo han consacrato come decimo miglior film del 2023), e per nulla premiato (e non sto parlando soltanto di Palme). Eppure. Eppure - pronti per la punchline? - non c’è nulla come un film con poco o nulla da raccontare per capire di cosa è fatto il cinema. Ambientato in una Portland ridotta agli appartamenti/studio di artisti che gravitano intorno a una scuola (in una geografia mentale che al montaggio costruisce lo spazio come un alveare soffocante e afoso), il film segue il personaggio di Lizzy, una Michelle Williams dimessa da ogni possibile posa e veste divistica, qui alla quarta prova con Reichardt dopo Wendy and Lucy, Meek’s Cutoff e Certain Women: una scultrice di non specificato valore in attesa di esporre in una galleria di non precisata importanza, che sbarca il lunario facendo da segretaria alla scuola in cui lavora anche la madre e gestisce la burocrazia per artisti che sono anche vicini di casa (se non i padroni, che continuano a non aggiustarle il fottuto scaldabagno). Ed è tutto un poco stretto: tanti tasselli, agio limitato, equilibrio precario. Ma in un improbabile continuum tra il pedinamento neorealista e la screwball nevrotica, Showing Up si situa decisamente verso il primo polo: guarda, accompagna, mostra la sua protagonista, e non ha mai nulla da dimostrare. Il che significa che - proprio come nella realtà - non ci sono premesse al nostro incontro con Lizzy, si impara a conoscerla frequentandola di minuto in minuto, scena dopo scena (ma nessuna scena madre), e non c’è nessuno (e tantomeno nessun rigo di sceneggiatura) che spieghi allo spettatore come sta, cosa sente, quel che pensa. La vediamo fare, guardare, reagire, e serve solo questo a Reichardt (che è laureata alla School of the Museum of Fine Arts) e Williams per regalarci un magnifico ritratto umano, di donna e d’artista: entrambe sanno - una col corpo e con la voce, l’altra con la macchina da presa - che il cinema sta nella relazione tra le cose. Anche tra una donna con una consegna imminente e un piccione ferito da un gatto. Quindi Showing Up lascia lo spazio (e dunque il tempo, perché il cinema è scultura del tempo) affinché lo spettatore si chieda cosa c’è dietro quello che è Lizzy (traumi, rapporti, desideri), e dunque di cosa sono fatte quelle sculture (firmate da Cynthia Lahti). Ovvero: come quel contesto forma la protagonista, e come lei lo o si traduce in gesto e argilla. Tanto che direi che il film comincia soltanto, sullo schermo, ma è soprattutto fuori, nelle domande che lo spettatore è portato a farsi, nei buchi di comprensione che è chiamato a riempire: questioni che concernono i rapporti umani quanto il senso dell’arte. E scusate se è poco. GIULIO SANGIORGIO
Apre i battenti a Roma, il 16 maggio, la mostra InVisibili – Le pioniere del cinema, organizzata da Archivio Luce Cinecittà: un percorso pensato per restituire uno sguardo nuovo alla Storia del cinema, illuminando le voci femminili che l’hanno animata fin dai suoi inizi. La mostra proseguirà fino al 28 settembre.
Venerdì 16 maggio a Milano, all’Anteo Palazzo del cinema, il Festival Mix (la cui prossima edizione si svolgerà a settembre) organizza una serata evento alla vigilia della giornata mondiale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. Verrà proiettato il film Problemista di Julio Torres, con Tilda Swinton e Isabella Rossellini. L’ingresso è gratuito con prenotazione.
È giunto alla quarta edizione il Festival del ciclo mestruale: si svolgerà a Milano, questo weekend, dal 16 al 18 maggio, con talk, performance, dj set, incontri per parlare di un tema che è ancora inspiegabilmente tabù.