Da qualche giorno è disponibile on demand anche in Italia I Saw the Tv Glow – Ho visto la tv brillare, l’opera seconda di Jane Schoenbrun: un horror ipnotico e affascinante per cui è finalmente appropriato usare l’aggettivo “lynchano”, che parla della lotta costante tra noi e il mondo, e che al centro della sua storia mette la passione rivoluzionaria per una serie tv che ricorda moltissimo Buffy l’ammazzavampiri.
«E a te? Ti piacciono le ragazze?»
«Non lo so…»
«I ragazzi?»
«Penso… penso che mi piacciano le serie tv.»
Chissà se è ancora così, e se qualcuno si è preso di nuovo la briga di contarli, ma fino a una decina d’anni fa era un fatto acclarato che Buffy l’ammazzavampiri fosse la serie televisiva su cui in assoluto erano stati scritti più paper accademici, a cui erano stati dedicati più saggi universitari e analisi critiche. Non I Soprano, o The Wire, non Lost e nemmeno Twin Peaks, nonostante le prime siano (a ragione) considerate le fondamenta della rivoluzione della quality television, nonostante i secondi abbiano raccolto indiscutibilmente, all’epoca della loro messa in onda, un seguito popolare e una presa sull’immaginario collettivo più ampi e trasversali di Buffy. Nel primo capitolo della sua (sempre consigliatissima) raccolta di saggi Mi piace guardare, la critica statunitense Emily Nussbaum ricorda distintamente la prima volta che, nel 1997, su un televisore senza telecomando che ancora la costringeva ad alzarsi per cambiare canale, mentre stava facendo un dottorato sulla letteratura inglese dell’età vittoriana, ha visto per la prima volta un episodio di Buffy, per la precisione quello in cui un gruppo di studenti posseduti si “trasforma” letteralmente in un branco di iene, e finisce per sbranare il preside del liceo. «Non avrei terminato il dottorato» scrive. «Buffy ribaltò interamente il mio modo di pensare e mi spedì incespicando su un percorso del tutto nuovo. La mia infatuazione per quella serie non era diversa da ogni primo amore. Occupava tutta la mia vita, era più che sproporzionata rispetto all’oggetto del mio amore e faceva sì che ne volessi parlare con tutti, che a loro piacesse o meno. Mi era già successo di essere entusiasta di qualcosa, ma non ero mai stata una fan in questo modo folle e ossessivo, da stalker. Nonostante i miei altri impegni come insegnante, per molti anni desiderai soltanto analizzare Buffy l’ammazzavampiri».
Per Nussbaum – come per chi scrive – l’amore per Buffy l’ammazzavampiri e per la serialità televisiva ha indirizzato studi e lavoro, con una naturalezza col senno di poi abbastanza sorprendente. Certo, la congiunzione temporale non è ininfluente: è sempre Nussbaum a mettere in relazione Buffy e I Soprano, la serie di David Chase che, cominciata due anni dopo quella di Joss Whedon, nel 1999, avrebbe spalancato una nuova era televisiva. I Soprano non era tv, e non solo perché andava in onda su HBO, corrispondendo al famoso motto del network più celebrato di sempre: era la serie che, per prima, ha fatto concepire a tutti il piccolo schermo come luogo di “cultura alta”, era “il Grande romanzo americano”, era un nuovo Il Padrino, era «l’opera della cultura pop più importante dell’ultimo quarto di secolo» (“New York Times” dixit) e sarebbe diventata «una delle produzioni tv più influenti di tutti i tempi». Buffy l’ammazzavampiri invece era tv, e per chi l’amava era proprio questo il punto; il desiderio di studiarla, analizzarla, vivisezionarla, in questo modo dunque legittimandola criticamente, accademicamente e artisticamente, era un ulteriore atto d’amore da parte dei fan, un gesto di protezione. Una forma di infinita riconoscenza.
Oggi, che la serialità televisiva è una forma d’intrattenimento e d’arte popolare trasversalissima e legittimata che più non si può, Buffy l’ammazzavampiri tra chi si occupa di piccolo schermo è giustamente considerata un caposaldo, un’opera seminale, influente sulla produzione successiva non meno di I Soprano: dal modo di parlare dei personaggi alle strutture narrative (il “mostro della settimana” vs “il big bad di stagione”), dalla forza metaforica con cui ha affrontato tutte le complessità, anche le più oscure, del coming of age, dalle sperimentazioni linguistiche (l’episodio muto e l’episodio musical sono quelli più citati, ma le sette annate sono piene d’invenzioni elettrizzanti) fino alla rappresentazione pionieristica per il piccolo schermo di relazioni e sentimenti (Willow e Tara non sono semplicemente la prima coppia lesbica della tv, ma la prima a cui vediamo trascorrere un’esistenza felice, almeno fino alla tragica conclusione che, purtroppo, ricade nell’abusato topos tragico di cui Ilaria Feole parlava nella scorsa newsletter), la serie di Joss Whedon estende la propria eredità su gran parte della produzione non solo televisiva successiva.
Ed è tutto vero, tutto giusto. Ma, prima delle analisi, degli studi, della legittimazione critica, dell’elucubrazione teorica, viene – lo racconta anche Nussbaum, nel sopra citato pezzo – qualcosa di più profondo, intimo, primordiale: quella scarica elettrica della prima visione, uno stato di shock, una sorta di rivelazione che incatena lo sguardo e la mente allo schermo e alla sua luce, la genuina emozione di un riconoscimento e di una meraviglia, quello che scatta quando una storia nuova, detta in modo nuovo, sembra parlare direttamente a chi la sta guardando. È da qui – da questo terreno personalissimo e per certi versi ingenuo, sicuramente vulnerabile, dolorosamente sincero e per questo anche scivolosissimo – che parte I Saw the Tv Glow, il secondo film di Jane Schoenbrun, apprezzato dal pubblico allo scorso Sundance Festival e distribuito in sala in Usa nel corso dell’estate, da qualche settimana disponibile on demand anche in Italia con il titolo Ho visto la tv brillare.
La storia di Owen e Maddy (Justice Smith e Brigette Lundy-Paine) inizia nel 1996, in un sonnacchioso sobborgo qualunque della provincia americana. L’ambientazione e la data sono fondamentali: i protagonisti sono entrambi degli outsider solitari, e nonostante abbiano un paio d’anni di differenza, tra loro nasce una particolare amicizia grazie alla comune passione per The Pink Opaque, uno show per ragazzi in onda il venerdì sera su un canale a target young adult. The Pink Opaque racconta di Isabel e Tara, due amiche che vivono lontane ma che hanno una connessione psichica, e che in ogni puntata combattono un monster of the week inviato dal supercattivo della serie, Mr. Melancholy, che ha il potere di piegare il tempo e la realtà, e che a volte minaccia di imprigionarle nella dimensione sospesa del Midnight Realm. Owen, all’inizio, è troppo piccolo per guardare la serie; più avanti, viene deriso dal padre perché ama «uno show da femmine». E così è Maddy a registrare per lui le puntate su videocassette che poi gli passa, a scuola, corredate di appunti, teorie, collegamenti, commenti entusiasti. «A volte, il mondo della serie mi sembra più reale della realtà» dice Maddy una sera, dopo la visione di un episodio. Dopo qualche anno, la ragazza – i suoi genitori non li vediamo mai, ma sappiamo che ha un padre violento – decide di fuggire dalla piccola città e implora Owen di venire con lei, ma la paura lo paralizza. Maddy scompare, la madre di Owen muore, The Pink Opaque viene cancellata, tutto insieme. Otto anni dopo, Maddy però ritorna, con una rivelazione incredibile.
I Saw the Tv Glow è un horror. Non ci sono scene splatter né gore, non scorre il sangue e non si salta sulla sedia, ma l’angoscia cola in ogni fotogramma, nell’ambiguità insolubile che imbeve ogni aspetto del racconto. La stessa luminosità dello schermo, l’effetto che fa allo spettatore (i molti primi piani sui volti imbambolati, il senso d’ipnosi che innesca, la catatonia che sembra prendere anche i personaggi di contorno quando siedono al buio davanti alla tv) ha sempre un’aura di pericolo, anche quando siamo messi a parte delle sue potenzialità salvifiche. The Pink Opaque, il fittizio show nel film, ha chiari riferimenti a Buffy l’ammazzavampiri – sia tematici, con le sue protagoniste combattenti, sia strutturali, con il mostro della settimana e il villain generale, sia estetici, come il font che recita “creata da Josh Pemberton” identico a quello che nella sigla di Buffy annunciava “creata da Joss Whedon” –, ma richiama volutamente anche altri show, da quelli più infantili – Piccoli brividi, Are You Afraid of the Dark?, So Weird, il sempreverde Doctor Who e soprattutto il meno noto da noi The Adventures of Pete & Pete i cui protagonisti appaiono qui in un cameo, come pure l’Amber Benson/Tara di Buffy – al capostipite Twin Peaks. I Saw the Tv Glow è infatti un film esplicitamente lynchano – e, almeno per chi scrive, si tratta di una delle rare volte in cui l’omaggio-apparentamento non è invocato a sproposito, ma è anzi è perfettamente allineato al senso e al tono del racconto, e rivisitato in modo intelligente e proficuo. Non solo nelle caratteristiche più immediatamente ricollegabili al cineasta di Missoula – l’inquietudine profonda nascosta sotto la linda superficie della borghesia di provincia, il surreale perturbante in agguato agli angoli della quotidianità – ma anche e soprattutto (ed è la parte più scivolosa da gestire) nella restituzione della sua logica onirica, “trascendentale”, fantastica che informa gli eventi della storia.
Schoenbrun ha confermato più volte la “parentela”, e a proposito di I Saw the Tv Glow ha citato in particolare l’ormai celebre ottava puntata di Twin Peaks: The Return, la terza imprendibile stagione di Twin Peaks realizzata da Lynch e Frost nel 2017, oltre un quarto di secolo dopo le due annate originali. Della serie è rintracciabile una citazione diretta nelle sue immagini finali, l’urlo d’orrore di Owen perfettamente sovrapponibile a quello di Laura Palmer alla fine di Twin Peaks: The Return, e nell’insistenza sul senso del tempo, e su un suo passaggio non necessariamente lineare («what year is this?»/«time wasn’t right»). Il punto centrale del film, poi, si svolge in un locale che – oltre che al Bronze di Buffy – rimanda direttamente alla Roadhouse di Twin Peaks, con le esibizioni dal vivo di Sloppy Jane e Phoebe Bridgers e di Kristina Esfandiari /King Woman a fare da commento diegetico alla vicenda (la colonna sonora di I Saw the Tv Glow, «il miglior mixtape anni 90 che ancora non esisteva» come l’ha definita Schoenbrun, è un altro grande punto di forza del film, “anni 90” soprattutto nello spirito, anche cinematografico, con cui in quel periodo molti filmmaker, anche diversissimi tra loro, utilizzavano la soundtrack nei propri lavori). In fondo, è soprattutto nel tentativo di sintonizzarsi su una dimensione altra, su un piano dell’esistente che scorra in mezzo alle cose, o appena sopra o sotto a esse (ricordate l’ossessione per l’elettricità in Twin Peaks: The Return?), che Schoenbrun dialoga con Lynch, provando a parlare il suo linguaggio, oltre che a guardare al suo stile tra eerie e weird.
È difficile parlare di I Saw the Tv Glow senza anticipare troppo della trama, ed è necessario rivelare qualcosa in più per affrontare uno dei suoi aspetti cruciali, ovvero la sua messa in scena dell’esperienza queer da parte di Jane Schoenbrun, regista trans e non binary all’opera seconda dopo We’re All Going to the World’s Fair. Cerchiamo di farlo il meno possibile (se però non volete sapere proprio nulla, saltate pure alla fine di questo paragrafo). Quella che I Saw the Tv Glow mette in scena è, soprattutto, l’esperienza di esistere in un mondo, un contesto, un sistema che non aderisce – non può aderire – alla soggettività di chi lo abita. Maddy è dichiaratamente lesbica, mentre, per quel che riguarda il suo orientamento sessuale, Owen a domanda diretta risponde (come da citazione in apertura) che a lui «piacciono le serie tv»; ma mano a mano che la vicenda prosegue diventa evidente che il disagio di Owen dipende dal fatto che non si sente corrispondere né al proprio corpo né all’ambiente in cui quel corpo si muove. Ma I Saw the Tv Glow è un horror, e quello che racconta è soprattutto il terrore: quanto può essere spaventoso continuare a sopravvivere come se si fosse già morti, con il cuore strappato («buried alive and suffocating to death on the other side of a television screen»), chiedendosi se non si dovrebbe, in realtà, essere qualcun altro («someone beautiful and powerful?»); e allo stesso tempo quanto è terrificante pure il momento della comprensione, della rivelazione, quello in cui “l’uovo si rompe” (per usare una terminologia trans, ripetuta anche da Schoenbrun in varie interviste), quanto può essere paralizzante la paura della fuga, della possibilità, dell’ignoto, del dopo. L’intuizione geniale di Schoenbrun è quella di collegare le potenzialità salvifiche della passione televisiva con la potenzialità di concepire e raggiungere un’alternativa: dentro lo schermo Owen potrebbe esistere davvero, oltre che specchio lo schermo potrebbe essere un portale – di mezzo, però, c’è anche la morte, che potrebbe, oppure no, essere solo figurata.
Nella sua recensione sui 400 Calci, Quantum Tarantino mette giustamente in relazione I Saw the Tv Glow e Matrix delle sorelle Wachowski: l’allegoria trans è chiara, e, nel film di Schoenbrun più ancora che nella saga di Neo e Trinity, non rinuncia alla propria specificità; ma è anche universale, rivelando che le radici di una non appartenenza all’esistente, il rigetto verso un mondo binario e codificato (è geniale in questo senso anche la scelta di casting che vede Fred Durst, il cantante dei Limp Bizkit, emblema di una certa mascolinità stereotipica, nel ruolo del padre di Owen) sono un sentimento ampio e condiviso, indipendente dall’identità di genere. Come condiviso e condivisibile è anche il modo che ha Schoenbrun di esperire e raccontare la nostalgia, un’emozione che nell’ultimo decennio (e oltre) è stata spolpata fino all’osso, appropriata e sfruttata dall’industria dell’intrattenimento fino a svuotarla progressivamente di significato. Non c’è nostalgia per gli anni 90 in I Saw the Tv Glow: l’infanzia e l’adolescenza sono un territorio angosciante e pericoloso, illuminato dalla luce allo stesso tempo rassicurante e sinistra dello schermo, e da istanti di bellezza che spesso possono rivelare in un attimo il proprio lato oscuro. Non c’è nostalgia nemmeno per “le belle serie che guardavamo da piccoli”: il riconoscimento del loro potere, soprattutto della capacità di creare una connessione profonda tra gli spettatori che le amano, è un dato di fatto, non in discussione, riconosciuto e celebrato, oggi come ieri. Ma The Pink Opaque, rivista da adulto su un mega tv a schermo piatto, su una piattaforma streaming, sembra a Owen ridicola e puerile, stucchevole e per nulla affascinante, completamente diversa da come se lo ricordava.
Ma, ed è la domanda cruciale: è la nostalgia che riscrive i nostri ricordi, facendoli retroattivamente brillare di una luce che non hanno mai avuto, e poi spogliandoli di ogni valore e bellezza alla prova del presente? O sono la nostra trasformazione in adulti («when you grow up, your heart dies» recitava la celebre battuta di The Breakfast Club), la forza dell’abitudine a un mondo che giorno dopo giorno ci diventa controvoglia meno estraneo, la rinuncia quotidiana a un’alternativa, l’intervento vittorioso di Mr. Melancholy, a riscrivere lo schermo per i nostri occhi, a restituirci un’immagine distorta, impoverita delle storie che così profondamente abbiamo amato, quelle che hanno saputo guardarci dentro? I Saw the Tv Glow non risponde, perché una risposta non c’è. C’è una speranza, però, perfino contro il più bastardo dei nemici, e sta scritta sull’asfalto a colori fluo: «There is still time». ALICE CUCCHETTI
[P.S.: Buffy l’ammazzavampiri è ancora bellissima. Ho controllato.]
Del primo film di Jane Schoenbrun, We’re All Going to the World’s Fair, abbiamo parlato sul n. 31/2022, nella rubrica dedicata ai film inediti. Vi riproponiamo qui la recensione, firmata da Giulio Sangiorgio.
We’re All Going to the World’s Fair
Il titolo non è banale. “Andiamo tutti all’esposizione universale”. Basterebbe leggere Walter Benjamin per verificare quanto la prima EXPO, la Great Exhibition al Crystal Palace di Londra del 1851, sia un momento cruciale, di passaggio, tra il modo di esistere nell’Ottocento e quello del Novecento, un movimento verso «l’esibizione, l’esponibilità, la disponibilità» (Andrea Somaini), un cambiamento fondamentale nel visuale, nell’idea di merce, nella sensibilità dell’uomo. Nei suoi orizzonti. Jane Schoenbrun, regista non binary (che chiameremo col pronome loro, dunque, perché chi siamo noi per scegliere il pronome con cui interpellare una persona?) e già firma (con nome Dan) di progetti perturbanti a tema internet come il doc A SelfInduced Hallucination e il progetto seriale The Eyeslicer, decidono di nominare la questione in questo piccolo film sulla solitudine e le possibilità dell’online, presentato al Sundance Film Festival 2021. Non è un dettaglio. Protagonista è un’adolescente, che decide di partecipare a una challenge in rete. Un contest orrorifico, atto a fondare un creepypasta, una leggenda del terrore, attraverso video amatoriali in cui le persone coinvolte devono seguire un rituale, mettendo in scena – video dopo video – un progressivo spossessamento identitario, un percorso allucinatorio di deriva. La giovane è poi contattata in rete da un uomo adulto, che si presenta prima come manipolatore sadico, poi come protettore impaurito: come se anche il suo ruolo, il suo sguardo maschile, tentennasse di fronte all’enigma dell’inquieta fanciulla che pare credere (o volere credere) effettivamente al gioco, voler perdersi al suo interno, andare oltre, scomparire dentro esso. Il film (laconico, opaco, disorientante, ambiguamente dissolto nel dispositivo che mette in scena) è questo, principalmente: una serie di finti video amatoriali (la maggior parte firmati dalla protagonista) in cui si performano ipotesi di terrore a bassa definizione, situazioni bislacche sino al disgusto, momenti realistici e impaurenti (come se l’idea di orrore di questo tempo nascesse dal realismo di Paranormal Activity). Ma il punto è la ricerca identitaria, il bisogno della protagonista di entrare in una dimensione differente, disturbante, incomprensibile, non riducibile. È un computer screen film, come Host. Ma è, principalmente, un film transessuale. Sull’essere e lo sguardo, sul sentire e l’EXPO. GIULIO SANGIORGIO
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