Arriva in sala il 19 settembre uno dei trionfatori della scorsa Mostra di Venezia, Vermiglio di Maura Delpero, premiato con il Leone d’argento: un racconto corale, empatico e poetico che guarda all’Italia di oltre un secolo fa per parlare di maternità, di desiderio e di trauma.
Il 7 settembre scorso, durante la cerimonia di chiusura dell’81° Mostra di Venezia, Maura Delpero ritira il Leone d’argento - Gran premio della giuria assegnato al suo Vermiglio. Il titolo del film (che arriva in sala il 19/9 con Lucky Red: abbiamo intervistato la regista sul numero di Film Tv ora in edicola) fa pensare a un colore, e invece è un posto: Vermiglio è un paesino trentino di mille anime o poco più, abbarbicato a 1.200 metri sul livello del mare, ed è il luogo in cui è nato il padre di Delpero, oggi deceduto. Ci dice molto, quel titolo: ci parla innanzitutto di un progetto intimo, personale, “genealogico”, ma racconta anche di un cinema radicato nel suo ambiente, che emana più o meno direttamente dalla terra, dai torrenti, dagli alberi. L’impressione è confermata dalla storia professionale della regista: Delpero viene da un lungo apprendistato nel documentario (il tipo di cinema che, più di tutti, allena all’osservazione paziente degli spazi), e aveva esordito nel lungo di finzione con Maternal, una coproduzione italo-argentina. Titolo di lavorazione: Hogar, “rifugio”, vale a dire la casa famiglia di Buenos Aires in cui si svolgono le vicende di tre donne sole, rappresentative di tre modelli diversi e “irregolari” di maternità. Ancora una volta, è lo spazio a fungere da comun denominatore, da perno narrativo, da centro sentimentale del racconto.
Vermiglio, in ogni caso, non è la storia di un paese ma di una famiglia: è la primavera del 1944, e un figlio torna dal fronte con un compagno disertore, un siciliano, uno che farà bene a nascondersi, almeno finché non si calmano le acque. Il suo arrivo è un piccolo terremoto, in una vita quotidiana scandita dalle lezioni del padre, maestro del villaggio, e dall’imperativo pressante delle fatiche (mungere una vacca, portarla al pascolo, nutrirla e abbeverarla). Delpero intesse un racconto corale, indugiando sulla descrizione ancor prima che sull’azione, e combinando nel suo sguardo due anime antichissime: da una parte, la ricerca di un verismo che si esprime nell’uso caparbio della lingua dialettale, o nel racconto paziente della quotidianità; dall’altro, il gusto per una forma limpida, non oleografica ma certamente pittorica (si pensa molto a Segantini, alle sue cime innevate, ai suoi alpeggi). Vermiglio acquista così uno slancio lirico che non fa rima con l’affettazione – come la poesia che acquista vigore a partire dalla parola semplice, piana e per questo potente. Si staglia, all’orizzonte, il magistero di Ermanno Olmi, con la sua ipotesi audace di un cinema colto e contadino, sacro e umilissimo.
Nell’universo visivo e drammaturgico di Vermiglio la figura umana si inserisce senza fratture, nel segno di una continuità di immagine e di suono. Nel breve discorso di ringraziamento per il premio ricevuto, Delpero parla del dialetto come di una scelta filologica ma anche estetica, necessaria alla costruzione di una “musica interna del film”, e si sofferma poi sul cast, evidenziando come il finanziamento pubblico al progetto abbia permesso di svincolarsi da logiche produttive che impongono volti e nomi noti al pubblico. Con l’eccezione di Tommaso Ragno, nei panni del pater familias, la famiglia di Vermiglio è popolata da interpreti relativamente freschi, privi di uno statuto divistico che affastelli di segni e universi alieni l’immaginario rurale evocato da Delpero. È una scelta coerente e a suo modo rischiosa, ma l’azzardo si può dir vinto alla luce di una direzione di attori in grado di distillare prove convincenti, sfumate, realistiche, capaci insomma di infondere sostanza nel lavoro di cesello psicologico condotto già a partire dalla pagina sceneggiata.
È proprio la scrittura di Vermiglio, con la sua polifonia che non si fa mai caotica, a consentire l’introduzione di una serie di “grandi temi”: il potere emancipatorio dell’istruzione, in un contesto difficile ma non disperato; il trauma della guerra, evocata solo per metonimia, e delle cicatrici invisibili che imprime sulle sue vittime; il mistero inattingibile del desiderio, femminile in primis, raccontato attraverso la soggettività di chi, per inquadramento morale e humus culturale, fatica persino a dargli un nome. È proprio nella disamina dei rapporti sentimentali che si fa più riconoscibile lo sguardo personale di Delpero – la sua cifra o, per così dire, la sua poetica –, mentre appare programmatica la volontà di indagare modi e forme possibili di maternità. In questo senso Vermiglio, che racconta nel terzo atto una gravidanza solitaria, prima gioiosa e poi tragicamente dolorosa, non è altro che un ulteriore tassello nell’atlante inaugurato da Maternal, in cui si descrivono con eguale dignità le storie di madri agli antipodi (una amorevole ma sola; una “degenere” ma non disumana; una simbolica ma non per questo meno “vera”). In questa fenomenologia di modelli materni, che scardinano la forma rigida della sacra famiglia cristiana, Delpero inscrive una visione ideologica che si fa agenda estetica: l’esercizio della pietas, la pratica quotidiana dell’empatia. MARIA SOLE COLOMBO
Prima opera di fiction della documentarista Delpero, Maternal è disponibile in streaming su RaiPlay: qui vi riproponiamo la recensione da Film Tv n. 19/2021.
Maternal
Hogar, centro per l’accoglienza di ragazze madri a Buenos Aires, luogo che esclude l’esterno giorno. Fuori ci sono i “mostri”, gli uomini. A Corman sarebbe piaciuto. Qualcosa come Sesso in gabbia di Jack Hill. L’atmosfera rarefatta, lo spazio immobile, il tempo sospeso, i corridoi in penombra. Una bambina corre sotto il portico verso la stanza di suor Paola, la novizia italiana (perfetta Lidiya Liberman, ucraina, già in Il mangiatore di pietre e Respiri) dal sorriso incollato sulla bocca. Esordio narrativo della documentarista Maura Delpero, passato a Locarno 2019, premiato dovunque, Maternal offusca i confini tra realtà e thriller nella carnalità forte delle diciassettenni Fati (Denise Carrizo) e Lu (Augustina Malale), interpreti di loro stesse. Un desiderio proibito aleggia nella stanza delle culle e dei giochi abitata da suore impassibili e da piccole bulle sguaiate e rissose, perlopiù incinte. Velo e minigonne. Il Padre non è mai quello vero, come San Giuseppe, e nel fuoricampo massacra di botte la vogliosa Lu, madre per caso della piccola Nina (l’aborto in Argentina è stato un delitto fino al dicembre 2020). Lo scandalo, però, non verrà dall’evasione sessuale. Il perturbante si rivela nei capelli di suor Paola sciolti nell’abbraccio di un amore non più “spirituale”, ma terreno, con la bambina dimenticata. La regista ha passato molto tempo nell’Hogar, mimetizzata tra le ragazze, seguendo la strada dell’osservatore-regista che si tramuta a sua volta in oggetto dell’indagine filmica. Le immagini, disposte a sorpresa, ieratiche e pop, sono scandite dal montaggio geniale di Ilaria Fraioli (Un’ora sola ti vorrei) e di Luca Mattei. MARIUCCIA CIOTTA
Ci sono anche la pioniera del cinema Elvira Notari e la mitica Tina Pica tra le Donne di Campania della docuserie che parte venerdì 20/9 su RaiStoria (e sarà poi disponibile su RaiPlay): Antonia Truppo, Maria Pia Calzone, Iaia Forte, Marisa Laurito, Monica Nappo e Rebecca Furfaro sono le voci chiamate a narrare le vite di sei donne che hanno lasciato il segno nella Storia italiana, affermandosi nei propri settori in un’epoca in cui a dominare era la presenza maschile.
Da giovedì 19 settembre tornano Le vie del cinema e I grandi festival, ossia le rassegne, rispettivamente a Milano e Roma, che ripropongono titoli dalla Mostra di Venezia e (per quanto riguarda Milano) dai festival di Cannes e di Locarno. Tra i titoli segnaliamo proprio Vermiglio, April di Dea Kulumbegashvili, L’attachement di Carine Tardieu e To Kill a Mongolian Horse di Xiaoxuan Jiang (di tutti quanti abbiamo parlato nello scorso numero della newsletter).
Si terrà il 1° ottobre (alle 17 nell’Aula del Tempio della Mole Antonelliana), ma sono già aperte le prevendite per la masterclass di Jane Campion al Museo del cinema di Torino: la grande regista di Lezioni di piano dialogherà col direttore del Museo Domenico de Gaetano e con Grazia Paganelli.