Singolare, femminile ♀ #144: Sisters act!
L’arrivo in sala di Immaculate di Michael Mohan e su Disney+ di Omen: L’origine del presagio di Arkasha Stevenson, due film usciti negli Stati Uniti a distanza ravvicinata, e simili a livello di immaginario, dà alla guest Cristina Resa l’occasione di riflettere sulla figura della suora nel cinema di genere, sia d’exploitation sia contemporaneo.
Cecilia e Margaret sono due giovani novizie appena arrivate in Italia dagli Stati Uniti: la prima, interpretata da Sydney Sweeney, è in procinto di prendere i voti in un convento isolato in campagna, adibito alla cura delle suore anziane nei loro ultimi giorni di vita; la seconda, Nell Tiger Free, è chiamata a prestare servizio in un orfanotrofio cattolico di Roma. Sebbene le loro storie si svolgano, almeno così pare, a diversi decenni di distanza l’una dall’altra e siano raccontate in due film – Immaculate di Michael Mohan, in sala dall’11 luglio, e Omen: L’origine del presagio di Arkasha Stevenson, prequel del film del 1976, disponibile su Disney+ – che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, le esperienze di Cecilia e Margaret sono sorprendentemente simili ed entrambe le protagoniste si trovano coinvolte in vicende oscure che si consumano tra le mura di due strutture religiose di cura.
I due horror differiscono chiaramente per modalità produttive: Immaculate è un film indipendente che mette in scena una sceneggiatura originale, prodotto peraltro dalla stessa Sweeney, mentre Omen: L'origine del presagio è il prequel di un franchise diventato di culto che ha visto alti e bassi (più bassi, in realtà, se si esclude il capostipite di Richard Donner con Gregory Peck), diretto però da una regista, Stevenson, sconosciuta al pubblico mainstream e alla sua prima prova con un grande budget, nonostante il talento dimostrato nel dirigere alcuni episodi di serie tv e un’intera, sorprendente, stagione della serie Channel Zero.
I due horror, dalla genesi differente, condividono non solo le premesse, ma lo stesso immaginario, mettendo al centro una figura come quella della suora, che porta con sé la propria significativa e peculiare storia di rappresentazione nel cinema di genere, sviluppatasi a partire dall’esperienza dell’exploitation. Con questo termine, che si può tradurre con “sfruttamento” e definisce un modello di produzione a basso budget in voga soprattutto tra gli anni 50 e 70, si intende un tipo di cinema di intrattenimento caratterizzato generalmente da un’estrema violenza grafica e dall’oggettificazione del corpo femminile, che aveva come scopo principale quello di generare profitto attraverso lo “sfruttamento”, appunto, di situazioni esplicite e argomenti considerati tabù, rivolgendosi, come ci dice anche Laura Mulvey nel celebre saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975), principalmente a un pubblico maschile.
Tra i diversi sottofiloni dell’exploitation c’è quello che viene definito nunsploitation che, come suggerisce la stessa parola, mette al centro la suora: si tratta di film prodotti negli anni 70 e 80, spesso di contenuto erotico, che, concentrandosi sui corpi, sfruttano il desiderio di voyeurismo del pubblico e permettono di accedere a uno spazio chiuso, proibito, che si può rivelare desiderabile o spaventoso. D’altronde la suora, almeno in tale contesto, rappresenta un segreto svelato: nascosta tra le mura del proprio convento e celata sotto pesanti vesti, è una figura femminile enigmatica che veicola l’idea stessa di abnegazione, di repressione del desiderio, sessuale e materiale, e allo stesso tempo è utilizzata per esplorare il tema della trasgressione. Trasgredire, del resto, significa “oltrepassare” e, proprio per questo, questa figura si colloca in un territorio di confine soggetto a grandi tensioni, uno spazio sottile tra mondo materiale e spirituale che, in questo tipo di storie, ha necessariamente a che fare con quell’abiezione definita da Julia Kristeva nel saggio Poteri dell’orrore (1980) come ciò che non «rispetta i limiti, i posti, le regole» e che «turba un’identità, un sistema, un ordine». Se è il sistema stesso che definisce l’identità della suora in quanto figura legata a un ordine e a un’idea di obbedienza, la suora “trasgressiva”, nel momento in cui viola i confini sacri dei suoi voti, diventa incarnazione dell’abiezione: d’altronde, scrive ancora Kristeva, «l’abietto infrange il muro della repressione e dei suoi giudizi», riportando l’individualità al centro del discorso.
Se questa figura si muove al confine tra ordine e individualità, la liminalità emerge non a caso in un’opera che, pur estranea all’esperienza produttiva della nunsploitation, ne rappresenta uno dei più celebri antecedenti: I diavoli di Ken Russell, adattamento di I diavoli di Loudun, romanzo del 1952 di Aldous Huxley ispirato alla presunta possessione demoniaca di massa in un convento d’orsoline in Francia nel 1634. Questa vicenda storica ha trovato altre declinazioni cinematografiche rilevanti per il filone. Se ne trovano tracce in una sequenza di Häxan (o La stregoneria attraverso i secoli), film muto del 1922 in cui il regista danese Benjamin Christensen mette in relazione la storia della stregoneria in Europa con le diagnosi di isteria (su questo tema, rimandiamo al numero #113 di Singolare, femminile), in cui un gruppo di suore sperimenta il delirio collettivo della possessione. La vicenda di Loudun è, tuttavia, raccontata anche in Madre Giovanna degli Angeli, diretto dal regista polacco Jerzy Kawalerowicz nel 1961. Un’opera che, prima di essere una storia di possessione, costituisce un’indagine sulla repressione e la condizione femminile e, grazie alle rigorose composizioni formali che enfatizzano gli oppressivi bianchi e neri della fotografia, rappresenta quasi un contraltare alla dirompente e caotica violenza visiva del film di Russell.
Forse proprio a causa di questa furia espressiva, tutt’ora censurata nella sua forma completa, I diavoli di Russell ha indubbiamente influenzato in modo indelebile l’immaginario cinematografico della suora. Presentato alla Mostra di Venezia del 1971, I diavoli viene, infatti, accusato di blasfemia per l’uso di una violenza cruda e dissacrante, unita alle immagini religiose e alla sessualità esibita. Come scrive la ricercatrice Tamao Nakahara nel saggio Barred Nuns: Italian Nunsploitation Films, «I diavoli suscitò una reazione esplosiva e sollevò un interesse mondiale per i film che sfruttavano le trasgressioni delle suore [...]. Il film di Russell ha stabilito un nuovo standard per la rappresentazione del “proibito” e delle punizioni di una società patriarcale [...]. Sebbene facesse affermazioni profonde sul desiderio umano, sulla possessione, sul delirio di massa e sulla caccia alle streghe, gran parte del suo impatto si è inizialmente perso a causa dell’alto tasso di scene di sesso e violenza». Tuttavia, è proprio l’eccesso che veicola la tagliente e dolorosa riflessione sul potere di Russell presente in I diavoli, in cui la presunta possessione della madre superiora Giovanna degli Angeli (Vanessa Redgrave) viene strumentalizzata politicamente dagli emissari del cardinale Richelieu, per giustificare la condanna di padre Grandier (Oliver Reed) e la distruzione della città di Loudun. Un potere temporale e spirituale spaventoso nella lucidità sistematica con cui si accanisce sui corpi, li rinchiude, ne limita l’azione, li sevizia e li usa come strumenti politici e di controllo, in modo analogo a quello che succede in Salò di Pasolini. Tra questi corpi, naturalmente, ci sono prima di tutto quelli delle donne, delle suore del convento esorcizzate in un violento rito collettivo che ha la forma di un abuso e le trasforma in ingranaggi di un sistema messo in atto da uomini di potere per colpire altri uomini di potere.
È interessante come, in molti film successivi di nunsploitation, filone che non a caso si sviluppa in modo specifico in contesti cattolici, in Europa e in particolare in Italia, anche se non mancano esempi provenienti dal Sudamerica e dal Giappone, vediamo le suore, appunto, trasgredire, uscire dai confini della vita monacale e, in un certo senso, sottrarsi al sistema, attraverso l’uso del proprio corpo. Le suore di questi film sono prese da passioni sfrenate, indugiano in atti sessuali di svariata natura o diventano amanti, come accade in Immagini di un convento di Joe D’Amato (1979). Oppure si ribellano e pianificano la loro vendetta nei confronti dell’istituzione che le ha richiuse, come fa il personaggio di Florinda Bolkan in Flavia, la monaca musulmana di Gianfranco Mingozzi (1974). O ancora, semplicemente uccidono, come suggerisce l’esplicito titolo di Suor Omicidi, diretto da Giulio Berruti (1979). Questi naturalmente non nascono come atti di autodeterminazione e liberazione, dal momento che sono raccontati attraverso uno sguardo maschile volto alla feticizzazione, ma in un certo senso restano comunque “atti” di figure che passano da una condizione passiva e subordinata a una agente. Come tutte le narrazioni, sono espressioni di tendenze culturali. Nello specifico, riguardano il corpo femminile che, ancora una volta, diventa catalizzatore di dinamiche sociali ed è indicativo che siano emerse dal terreno dell’exploitation proprio negli anni interessati dai movimenti controculturali di liberazione sessuale e rigetto dell’autorità.
Se questo accade negli anni 70, cosa dobbiamo pensare oggi dell’uscita di due film come Immaculate e Omen, che mettono al centro i corpi delle loro protagoniste? Perché è vero che le due opere non cercano mai di ascriversi al filone, né lo riproducono, come avviene invece in Benedetta di Paul Verhoeven (2021), che gioca con i topoi della nunsploitation in maniera satirica e racconta una guerra di potere attraverso una lente contemporanea, ma è altrettanto chiaro che non solo entrambe sembrano guardare a quell’esperienza anni 70, ma quasi si pongono in dialogo con essa. I due horror partono dallo sfruttamento dei corpi femminili, che vengono feriti, lacerati, degradati, utilizzati come strumento dall’autorità, costretti a gravidanze forzate, e in un certo senso mutano, aderendo in senso lato alla tradizione del body horror.
Se Michael Mohan sceglie di accennare alla rappresentazione dell’orrore corporeo con poche sequenze veramente impressionanti e inquadrature strette che alludono, più che mostrare, Arkasha Stevenson decide di enfatizzare questa dimensione abietta, facendo scelte anche coraggiose ed estreme per un film mainstream, ma coerenti con la materia narrativa e supportate da uno spiccato sguardo femminile sui corpi, capace di compartecipare al trauma. Lo scopo di entrambe le narrazioni è quello di tracciare un percorso di autodeterminazione e ridefinizione dell’autonomia sul proprio corpo che, nel caso specifico di Immaculate, può essere ricondotto alla struttura dello slasher, se consideriamo Cecilia una final girl sui generis, ma anche al rape & revenge, ovvero quel filone, anch’esso nato in seno all’exploitation, in cui uno stupro viene punito con un atto di vendetta dalla stessa vittima o da un agente (approfondito in questo numero di Ghinea Newsletter).
Dunque, omaggiando la tradizione del cinema di genere – non solo la nunsploitation, il body horror, lo slasher, il film di possessione, ma anche il giallo argentiano, dal momento che emergono in entrambi i film chiari riferimenti a Suspiria – questi lavori finiscono per parlare della contemporaneità. È cosa nota che in molte analisi critiche, soprattutto provenienti da contesti statunitensi, la concomitanza delle due opere sia stata letta come una risposta alle ansie e paure, mai tanto attuali e giustificate, emerse in seguito all’annullamento nel 2022 della sentenza Roe contro Wade, che nel 1973 aveva stabilito il diritto costituzionale delle donne all’aborto, riconoscendo la libertà individuale di scelta e sottraendola all’ingerenza statale. In sostanza, tale decisione dà la possibilità per i singoli Stati federali di limitare i diritti riproduttivi individuali. La cosa appare plausibile nella misura in cui, come si menzionava prima, le storie dell’orrore mettono in scena, attraverso la lente del fantastico, traumi sia individuali sia sociali, restituendo talvolta immagini sovvertite che hanno a che fare con il concetto di mostruoso e che, mettendoci in relazione con l’alterità, ci forniscono uno specchio per guardare e codificare la realtà in cui viviamo.
Come scrive Jeffrey Jerome Cohen in Monster Theory in riferimento al mostruoso, «quest’ansia si manifesta sintomaticamente come una fascinazione culturale per i mostri, un’ossessione che nasce dal duplice desiderio di dare un nome a ciò che è difficile da comprendere e di dominare (e quindi depotenziare) qualcosa di minaccioso [...]. Le fantasie di aggressione, dominio e inversione possono esprimersi in modo sicuro nello spazio chiaramente delimitato e permanentemente liminale». È quello che accade in questi due film nati dalle stesse paure sociali legate al controllo del corpo femminile e della privazione della scelta, che si intrecciano a doppio filo al tema della maternità e della cura, considerata prerogativa della sfera femminile dal sistema patriarcale. Come già accennato, senza rivelare troppi particolari della trama, sia Immaculate sia Omen: L’origine del presagio si costruiscono intorno al motivo narrativo della gravidanza e della maternità imposta dall’autorità. In questo orizzonte, la presenza della suora arricchisce il discorso di un’ulteriore sfumatura di significato, in quanto donna che viene sottratta alla riproduzione biologica attraverso il voto di castità, rinunciando alla propria autonomia attraverso il voto di obbedienza, ma che svolge un lavoro di cura non diverso da quello che il patriarcato riserva alle figure materne. Prendere i voti, come evidenziano Danielle Juteau e Nicole Laurin in From Nuns to Surrogate Mothers: Evolution of the Forms of the Appropriation of Women (1989) - un saggio un po’ datato, quindi per certi versi da contestualizzare in alcuni passaggi, ma interessante dal punto di vista dell’analisi della ruolo sociale della monaca da una prospettiva marxista materialista - può essere definito una «forma collettiva di appropriazione che permette alle suore di mettersi a disposizione della classe degli uomini». Da questo punto di vista colpisce come in Immaculate il personaggio di Cecilia viva in un luogo abitato sostanzialmente da donne, ma sia sempre oggetto di valutazioni dell’autorità maschile. Una sequenza su tutte sembra rappresentativa di questo aspetto: Cecilia viene portata in una stanza con tre uomini, tra cui un cardinale, che le pongono domande sulla sua intimità, all’interno di una conversazione pronunciata in una lingua che la ragazza capisce a malapena, che ha come oggetto il suo corpo, trasformato dai quei discorsi in corpo collettivo, senza naturalmente il consenso della legittima proprietaria.
In un certo senso, sia Immaculate sia Omen: L’origine del presagio portano questo concetto alle estreme conseguenze, per poi mettere in atto un violento ribaltamento che porta le sue protagoniste, prigioniere dell’autorità patriarcale, nella condizione di decidere per sé e, soprattutto, di agire. In Immaculate il tema della scelta è evidenziato anche nel dialogo in cui viene introdotto il personaggio di suor Cecilia: alla domanda sui motivi della sua decisione di prendere i voti, la ragazza risponde «non è una scelta». La vocazione è vissuta come una predestinazione, un modo per ripagare la porzione di vita che, secondo la sua logica, le è stata donata dopo un grave incidente. Anche suor Margaret, potremmo dire, considera la vita monacale l’unico modo per tenere a bada le proprie allucinazioni e mantenere la salute mentale. Per entrambe far parte di un ordine sembra una necessità frutto di manipolazione, più che una scelta personale.
Tenendo conto che il film di Mohan sia un’opera originale che non deve pagare pegno a nessun universo narrativo già codificato e può muoversi più liberamente rispetto a Stevenson, in qualche modo, sia Immaculate sia Omen: L'origine del presagio raccontano, utilizzando un immaginario trasgressivo che mette al centro la figura della suora, una storia capace di sovvertire un ordine costituito: tracciano così un percorso di consapevolezza e riappropriazione del proprio corpo, che si conclude nel più classico dei modi, quando si tratta di genere horror e in particolare materno (vedi anche Singolare, femminile ♀ #099: Buone madri, cattive madri), ovvero un attraversamento, sia letterale sia allegorico dei territori dell’abiezione. È attraverso la possibilità di agire, anche di compiere atti estremi, che le protagoniste riprendono possesso del proprio corpo e scelgono come occupare il proprio spazio nel mondo. In un certo senso, nel farlo, sembrano dialogare con le protagoniste della nunsploitation, a cui questa scelta consapevole era preclusa. CRISTINA RESA
Non è una suora, ma una fervente cattolica che parla con Dio la Santa Maud del film d’esordio di Rose Glass. Vi riproponiamo la recensione, pubblicata su Film Tv n. 15/2021.
Santa Maud
Maud con Dio parla tutti i giorni, un monologare interiore affidato a colui che, da cattolica di recente conversione, sa per certo essere in suo ascolto. Fa da infermiera privata per Amanda, una malata terminale brillante e atea, che si lascia carezzare dalla promessa di vita eterna offerta dalla fervente badante. Santa Maud, esordio dell’inglese Rose Glass, comincia come un sardonico gioco di seduzione reciproca fra due donne agli antipodi (la folgorante Morfydd Clark e la sempre magnifica Jennifer Ehle), goticamente rinchiuse in una casa isolata, finché il thriller psicologico si sfalda nelle visioni deformanti di un horror di possessione: solo che a invasare Maud non è il maligno, ma lo spirito santo. Giocando al ribasso con gli effetti speciali, il film dà vita a un’antieroina opaca, al cui punto di vista deviato, però, la regia ci costringe ad aderire finché i suoi gesti folli non diventano chiari e quasi inevitabili. L’orrore si insinua nella figura accudente, a smentire e problematizzare quella che è considerata vocazione femminile (si pensi ad altri horror di e sulle donne, come Babadook o Relic, dove occuparsi del proprio figlio o della propria madre diventa una prigionia). Peccatrice penitente, come la Maria Maddalena che porta al collo, Maud vive nella sua carne la scissione tra le uniche modalità di femminile che le sono concesse, ovvero la santa e la puttana: una schizofrenia (la voce di Dio è sempre quella della protagonista, modificata digitalmente) che si incarna negli sguardi giudicanti delle altre donne, e che la relega a una solitudine fatale, a un senso di impostura (non abbastanza sexy, non abbastanza pia) cancellabile solo col sacrificio. ILARIA FEOLE
Abbiamo parlato di L’arte della gioia nella newsletter dedicata all’ultimo Festival di Cannes, ma le celebrazioni per il centenario della scrittrice continuano, e oltre al podcast Gagliarda potenza di cui vi avevamo già parlato, vi segnaliamo anche questo articolo di Antonella Lattanzi su Lucy. Sulla cultura.
Lo scorso 4 luglio ha compiuto 100 anni Eva Marie Saint: il “Guardian” ha messo in ordine i suoi film più celebri, gli highlight di una carriera hollywoodiana durata 75 anni. [in inglese]
Su “Interview” l’autrice millennial per eccellenza, Lena Dunham, dialoga [in inglese] con Pamela Adlon, straordinaria protagonista e creatrice della dramedy Better Things (che, se non avete mai visto, vi consigliamo caldamente di recuperare su Disney+).