Singolare, femminile ♀ #138: La parte della gioia
Dalla A di Anora (la Palma d’oro) alla S di Sapienza (la Goliarda di L’arte della gioia), diamo uno sguardo alle autrici e alle rappresentazioni di femminile che hanno animato l'edizione di Cannes 2024, dominata da corpi di donna e dalle opposte valenze degli sguardi che li osservano.
La Palma è donna. E il suo nome è Anora. No, stavolta non c'è una donna dietro la macchina da presa del trionfatore del Festival di Cannes 2024 (ma due autrici hanno portato a casa due tra i premi maggiori: l'indiana Payal Kapadiya il Grand Prix per All We Imagine as Light, la francese Coralie Fargeat la migliore sceneggiatura per The Substance), bensì un ritratto femminile esilarante, ruvido e potente, uno dei tanti film che in questa edizione portavano nel titolo un nome di donna: oltre ad Anora, solo in Concorso, c'erano Emilia Pérez e Parthenope, e poi, sparse qua e là tra le altre sezioni, c'erano Maria (Schneider), Furiosa, Norah, Niki (de Saint Phalle), Maya, Faye (Dunaway) ed Elizabeth Taylor. Passiamo allora in rassegna l'edizione n. 77 di Cannes che si è conclusa lo scorso 25 maggio attraverso questa prospettiva, mettendo in fila, in rigoroso ordine alfabetico, dieci nomi di donna che hanno lasciato il segno.
1. Andrea Arnold
La regista inglese (le abbiamo dedicato la newsletter n. 40) è stata insignita della Carrosse d'or, ossia il premio alla carriera consegnato nell'ambito della Quinzaine des cinéastes (ricordiamo qui, en passant, che un'altra illustre donna ha ricevuto invece la Palma d'onore alla carriera quest'anno: Meryl Streep); a bocca asciutta sul fronte premi, invece, è rimasto il suo Bird, nonostante per molti critici (inclusa chi scrive) fosse tra i papabili per il palmarès. Il ritorno alla fiction di Arnold dopo la parentesi documentaria di Cow resta uno dei film più belli del Concorso 2024, un coming of age ribollente rabbia e compassione, nonché un altro lancinante ritratto di giovane donna - dopo Fish Tank, Wuthering Heights, American Honey - alle prese con i desideri, le contraddizioni, le paure che si originano nel corpo femminile. Bailey, la protagonista di Bird, ha solo 12 anni, ha appena avuto il menarca, vive col padre Bug, giovanissimo (lo interpreta un magnifico Barry Keoghan, perfetto genitore-bambino, coperto di tatuaggi e di sorrisi disarmanti), e col fratello, ma sta per traslocare con loro una nuova matrigna (anche lei poco più che adolescente): la cosa a Bailey non va giù, così come non le va giù l'assurda tuta di paillettes leopardate che dovrà indossare al matrimonio in quanto damigella d'onore, e nel suo girovagare il più lontano possibile da casa incontra Bird (Franz Rogowski, ormai abbonato ai ruoli da emarginato e da outsider, ma in ogni caso perfetto), un uomo in cerca della famiglia perduta. È un coro stonato e appassionato di figli cresciuti troppo in fretta, di genitori smarriti, di famiglie spezzate e disfunzionali, Bird; è un film dove un gruppo di ragazzini si inventa una ronda per punire gli uomini adulti che maltrattano donne e bimbi; dove quasi tutti hanno nomi di animali, e dove gli animali sono parte del nucleo familiare (lo spirito antispecista è lo stesso di Cow, ma applicato a una struttura narrativa che si avventura nel realismo magico), se non dell'economia domestica. Bug compra un grosso rospo esotico sperando di estrarre dalla sua bava sostanze allucinogene che lo rendano ricco; pare che la musica ne stimoli la produzione, e pare che il rospo apprezzi la "musica sincera". Ecco, Bird è come quella musica sincera, appassionato ed empatico, un inno alle famiglie non convenzionali e alle seconde chance, dalla parte dei deboli, sempre.
2. Anora
Il film di Sean Baker ha ottenuto, parzialmente a sorpresa, il premio principale (mai sottovalutare l'effetto risata: se in gara il 90% dei film è solitamente tetro o segnato da temi ponderosi, una rara commedia capace di far ridere la platea può finire anche per conquistare critica e giuria, si veda il caso Triangle of Sadness), consacrando un autore che sin dagli esordi si interessa di rappresentazione del femminile sullo schermo e di sovversione dei cliché. Con Anora porta avanti il suo discorso sui sex worker (iniziato con Starlet, proseguito col bellissimo Tangerine e con Un sogno chiamato Florida, e approdato all'ex pornostar male in arnese, stavolta al maschile, del penultimo Red Rocket), sulla dignità dei lavoratori sessuali e sulla calcificazione capitalista del nostro immaginario: se in Un sogno chiamato Florida era DisneyWorld l'orizzonte magico a un passo dallo squallore, in Anora è Las Vegas a fungere da controcampo edonistico al grigiume dei sobborghi newyorkesi dove vive la protagonista. Interpretata da una strepitosa (e strepitante) Mikey Madison (già nella Manson Family di Tarantino per C'era una volta a... Hollywood, ma i seriofili la ricorderanno come la scontrosa figlia maggiore di Pamela Adlon nell'ottima Better Things), Anora detta Ani è una lap dancer ed escort che pare finalmente vivere il sogno di «quella gran culo di Cenerentola» (per citare Pretty Woman, di cui il film è in fondo una scatenata e scurrile rivisitazione) grazie a un cliente - il figlio ventunenne di un miliardario russo - che prima la "affitta" per una settimana, poi se ne innamora, salvo incorrere nelle ire dei genitori e dei loro scagnozzi che cercano di impedire l'unione. Sboccato ed erotico, divertentissimo e lucido, Anora miscela lo spirito folle di John Landis con le notti da leoni del cinema americano, e ha negli attori il suo punto di forza (accanto a Mikey Madison è bello ritrovare il bravissimo giovane attore russo Yura Borisov, già amato in Scompartimento n. 6 e La lista di Stalin): una Palma energetica, solare e notturna insieme.
3. Coralie Fargeat
Ci aspettavamo tanto, dall'opera seconda di Fargeat, che con l'esordio Revenge (vedi newsletter n. 47) aveva dimostrato di voler sovvertire le regole del cinema di genere e del male gaze; con The Substance, premiato per la migliore sceneggiatura, la regista non si è tirata indietro, e anzi ha portato alle estreme conseguenze il suo discorso su genere e generi, in un horror repellente e spassoso, grondante sangue e carne, teorico e demenziale insieme. Il colpo di genio del film è aver finalmente dato a Demi Moore un ruolo all'altezza della sua icona: tra i corpi attoriali più emblematici degli anni 90, da tempo la diva (ora 61enne) ha scolpito il suo fisico e il suo volto con la chirurgia plastica "fermando" il passare del tempo in una giovinezza eterna e sintetica, assecondando i dettami di cui più volte abbiamo parlato in questa newsletter, che prevedono che svoltati i 40 (se va bene, i 50) le attrici spariscano dalla ribalta e non ottengano più ruoli da protagoniste. Invecchiare a Hollywood è proibito, e The Substance è una satira di questo stigma, nella forma di un body horror sanguinolento e fuori controllo: Moore interpreta (mettendosi letteralmente a nudo, e facendo della sua immagine un teorema di carne) una diva in declino, che decide di sperimentare con la misteriosa substance, una sostanza che produce sì una rigenerazione cellulare, ma nella forma di un vero e proprio clone, solo più giovane, sodo, luminoso.
Elisabeth/Moore espelle dunque una copia di sé, Sue (incarnata da Margaret Qualley), con la quale può restare sullo schermo grazie al potere di bellezza e gioventù; la formula, però, prevede che i due corpi si alternino tassativamente una settimana ciascuno, e qui cominciano i guai. «Ricordatevi che siete una sola» intimano i messaggi della misteriosa azienda che produce la sostanza, ma Elisabeth e Sue finiscono per detestarsi e intralciarsi a vicenda, con effetti orripilanti ed esilaranti; un modo per dire che la sorellanza e la solidarietà al femminile sono ancora molto indietro, e che il miraggio di poter fare fronte comune è spesso ostacolato dalle regole del sistema. Un sistema, Fargeat lo dice chiaro e tondo, nel più didascalico e strillato dei modi, che è governato dal patriarcale dominio del male gaze, lo sguardo maschile di cui qui si fa portatore un viscido e lubrico Dennis Quaid: destinato a dividere (c'è chi lo ha detestato con cocente passione, e a chi lo trova troppo "schierato" consigliamo di "rifarsi gli occhi" col male gaze da manuale - o consapevole manuale del male gaze? - del Parthenope di Sorrentino), il film osa tutto l'osabile, scavalca ogni possibile momento WTF (per dirla con Nanni Moretti) e si fa preciso ed estenuato manifesto della visibilità del femminile sullo schermo, trasformando la vecchiaia in orrore.
4. Emilia Pérez
Altro colpo di fulmine per chi scrive, il musical queer dell'eclettico Jacques Audiard è la storia di uno spietato boss del narcotraffico messicano che decide di piantare tutto e tutti, moglie e figli compresi, per cambiare identità: non per sfuggire alla giustizia o ai rivali criminali, bensì per diventare finalmente la donna che ha sempre saputo di essere. Manitas diventa così (con l'aiuto di un'avvocata frustrata e ambiziosa) Emilia, misteriosa e generosa promotrice di un'associazione che aiuta le mogli e le madri delle vittime del cartello a recuperare i resti dei propri cari. Gangster movie e mélo vanno a braccetto, come spesso accade nella filmografia del grande regista francese (vincitore del premio della giuria), ma in questo caso si fondono a numeri di danza e canto che mettono in parole le istanze identitarie delle protagoniste, interpretate dalla rivelazione spagnola Karla Sofia Gascon e da una sensazionale Zoe Saldana, cui si aggiunge Selena Gomez nel ruolo della "vedova" di Manitas: tutte e tre hanno vinto la palma alla migliore attrice, un premio il cui spirito collettivo ben si sposa con l'idea di sorellanza che il film incarna. Non l'ha presa bene Marion Maréchal (figlia di Jean-Marie Le Pen e sorella di Marine Le Pen), esponente del partito francese di estrema destra Reconquête, che all'indomani del palmarès ha commentato la vittoria della transessuale Gascon twittando: «Così un uomo vince a Cannes il premio per la migliore interpretazione... femminile. Il progresso per la sinistra è la cancellazione delle donne e delle madri». Sei diverse associazioni LGBT+ l'hanno denunciata per insulti transfobici.
5. Goliarda Sapienza
La più moderna delle autrici a Cannes è nata nel 1924. E morta nel 1996, due anni prima che venisse pubblicato il suo capolavoro L'arte della gioia. Da domani nei cinema italiani con la prima parte (ovvero i primi 3 di 6 episodi), la serie di Valeria Golino (co-diretta con Nicolangelo Gelormini) è stato l'unico evento seriale di questo Festival, nonché una delle pochissime presenze italiane in Croisette. Portare sullo schermo il romanzo postumo di Sapienza è un'impresa ambiziosa, che Golino affronta con i mezzi produttivi di Sky Studios e con la forza delle parole della grande scrittrice: la giovane Modesta (la serie traspone solo la prima parte del romanzo, quella che copre i primi 20 anni della protagonista) parla ogni tanto direttamente con lo spettatore, rompendo la quarta parete per rivolgere a noi il flusso di pensieri così irruenti e poco ortodossi che caratterizzano questa donna "mostruosa", perché fuori da ogni canone e convenzione. Nata il 1° gennaio del 1900, Modesta è dotata di intelligenza acuta e di flessibili confini etici, che le permettono di sottrarsi a un destino di povertà e violenza per dare la scalata al mondo nobiliare, conquistandosi così il diritto di farsi una cultura, e di godere del proprio corpo come preferisce. Bisessuale, indomita, insofferente ai lacci delle norme sociali, Modesta è una creatura fuori dal suo tempo, che Golino racconta costeggiando il genere, tra gotico e horror, e piantando la macchina da presa su scene erotiche patinate ma potenti (sulla visibilità del nudo femminile in questo Festival, vedi anche alla voce Noémie Merlant).
6. Greta Gerwig
Presidente di giuria, ha coordinato Eva Green, Lily Gladstone, Juan Antonio Bayona, Ebru Ceylan, Pierfrancesco Favino, Hirokazu Kore-eda, Nadine Labaki e Omar Sy nella scelta del palmarès, nel segno di un cinema giovane (Sean Baker e Miguel Gomes hanno poco più di 50 anni, Coralie Fargeat ne ha 48, Payal Kapadiya 38, mentre nessuno dei "grandi vecchi" in gara, da Coppola a Cronenberg a Schrader, ha portato a casa premi), queer (due premi a Emilia Pérez), sprezzante delle etichette e dei confini tra generi: non si deve per forza essere d’accordo, ma c’è un’idea di cinema - e dunque di mondo - precisa. Gerwig ha descritto Anora come «un film incredibilmente umano che ha catturato i nostri cuori, ci ha fatto ridere e sperare, e non ha mai perso di vista la verità», con qualcosa che ricorda «i classici, strutture di Lubitsch e Howard Hawks». Aggiungiamo noi: in fondo, la villa miliardaria in cui il protagonista di Anora porta la sua Cenerentola/Pretty Woman è una sorta di mojo dojo casa house di Ken in Barbie, e il salto brusco dalla favola glitterata al patriarcato nudo e crudo lo fa anche Anora...
7. Isabelle Huppert
Che festival sarebbe senza una Huppert? La divina interprete francese è sempre garanzia della presenza di un femminile non riconciliato, ruvido e perfino temibile, soavemente crudele e opaco, e non ha fatto eccezione questa Cannes, dove era co-protagonista di uno dei film al femminile più interessanti, La prisonnière de Bordeaux di Patricia Mazuy, alla Quinzaine des cinéastes: una commedia drammatica sull'imprevista amicizia tra due mogli di detenuti che si ritrovano ai rituali colloqui in prigione, l'una ricca e stralunata (Huppert, ovviamente), l'altra povera in canna e con due figli a carico (la sempre bravissima e umbratile Hafsia Herzi, ora al cinema in Le ravissement, vedi newsletter n. 135). L'unione tra le due è anche l'incontro di due vite diversamente spezzate e incomplete, uno spiraglio su altri modi di essere donna che innesca un'alleanza fragile ma confortante, un confronto tra sorriso e sospetto, dove niente è come sembra e nulla va dato per scontato. Un bel duetto, scritto con intelligenza, recitato con grazia.
8. Maria (Schneider)
Fuori concorso al Certain regard c'era il corto Moi aussi di Judith Godreche, l'attrice che ha denunciato per molestie sessuali i registi Jacques Doillon e Benoît Jacquot, ma il vero film manifesto del #MeToo francese, che sta vivendo mesi caldissimi e convulsi su cui promettiamo di tornare, è stato Maria di Jessica Palud. Biopic di Maria Schneider, si concentra sul set di Ultimo tango a Parigi e sugli anni immediatamente successivi, segnati dalla tossicodipendenza e dall'impossibilità di uscire dall'icona erotica creata dal capolavoro di Bernardo Bertolucci. Il film ricostruisce con cura il set (Brando è incarnato da un sorprendente Matt Dillon) e lavora con una certa precisione a partire dalle interviste rilasciate da Schneider e dal suo racconto di come la celebre scena del burro fosse stata improvvisata, di comune accordo tra il regista e Marlon Brando, per strapparle una reazione più autentica (di fatto umiliandola apertamente, senza avvisarla che sarebbe stata simulata una sodomia). A interpretare Schneider, con intensità lontana dalla mimesi, c'è l'ottima Anamaria Vartolomei di La scelta di Anne, ma il film si schiera in modo molto semplicistico ribadendo una visione vittimistica dell'attrice: Bertolucci (di cui Palud è stata assistente, da giovane, sul set di The Dreamers) è dipinto come un cinico manipolatore, e la struttura narrativa, pur accennando ai complicati legami familiari della donna, pare attribuire al singolo episodio sul set di Ultimo tango la responsabilità di ogni aspetto negativo nell'esistenza dell'attrice. Diluendo così l'urgenza di un film che, pure, prende le mosse da un discorso assai necessario, quello sulla mancanza di una cultura del consenso nell'industria cinematografica.
9. Noémie Merlant
«I tuoi occhi sono così... occhi» dice a un certo punto uno sconosciuto al personaggio di Noémie Merlant in Les femmes au balcon, e in effetti il primo piano dell'attrice francese, già magnifica protagonista per Céline Sciamma in Ritratto della giovane in fiamme, rivela iridi fuori dal comune. Il suo ruolo, una svampita aspirante attrice che entra in scena vestita da Marilyn Monroe, non è però che un tassello dell'affresco femminile che Merlant dipinge innanzitutto come regista e sceneggiatrice; all'opera seconda dietro la macchina da presa, l'attrice ha presentato il film fuori concorso, con la collaborazione al copione proprio di Sciamma. Difficile etichettare Les femmes au balcon, commedia nera che si muove tra l'Almodóvar più lieve e i condomini isterici di Álex de la Iglesia, con un trio di amiche coinvolte loro malgrado nella morte violenta di un affascinante dirimpettaio del cui cadavere devono sbarazzarsi. Coloratissimo, ironico e ambientato in un'estate distopicamente torrida, il film è però soprattutto un altro esempio di film-manifesto, che affronta il tema della violenza sessuale e della cultura dello stupro a partire dal personaggio di Souheila Yacoub (già vista in Dune: parte due), cam girl disinibita e discinta che si trova a dover ribadire il diritto di dire no. Combattuta tra lo spirito ludico e citazionista di una commedia gialla e la militanza di un film teorico sul corpo delle donne (abuso sessuale, violenza domestica, interruzione di gravidanza; sono tanti i temi messi in campo), Merlant confeziona un'opera claudicante, per quanto battagliera, che non rivela granché la penna della nostra amata Sciamma, ma che rivendica con ostinazione la libertà di un femminile nudo e provocatorio, in questo inserendosi appieno in una tendenza di questa Cannes, dove si sono visti tantissimi nudi integrali (anche frontali). Dal coming of age Diamant brut, su un'influencer giovanissima che modella il suo corpo sui canoni dei social, alle prestazioni della stripper/escort Anora, passando per i nudi horror di The Substance, lo sguardo sulla pelle e la carne delle donne si è fatto fortemente teorico, denso di implicazioni e di sfide aperte alla consuetudine dello spettatore.
10. Renate Reinsve
Di Armand, film vincitore della Caméra d'or (il premio trasversale assegnato alla migliore opera prima in tutto il Festival), non è solo la straordinaria interprete ma anche la produttrice, dimostrando l'ambizione e l'intelligenza di un'attrice che in una manciata di anni si è imposta tra le figure più rilevanti del cinema europeo contemporaneo. Rivelata da La persona peggiore del mondo (per il quale vinse la Palma come migliore attrice), la norvegese classe 1987 quest'anno è anche in A Different Man (al Sundance e a Berlino) e in Another End (da poco passato nelle nostre sale), oltre all'imminente serie Apple TV+ Presunto innocente, e in questo claustrofobico dramma scandinavo (presentato al Certain regard) interpreta la madre del piccolo Armand, convocata a scuola in seguito al comportamento aggressivo del bambino. Va in scena una sorta di Carnage cupo e velenoso, costruito per atti quasi teatrali che rivelano progressivi (ma sempre scivolosi) brandelli di verità, e in cui Reinsve, che incarna un'attrice segnata da traumi personali, si muove nei binari di un'ambiguità carismatica e frustrante, con pezzi di bravura sconvolgenti (un attacco di ridarella prolungato oltre ogni sostenibilità, un momento di danza, una coreografia di violenza) e una capacità di reggere il primo piano davvero notevole. La sua prova dà vita a un ritratto femminile spigoloso e prismatico, affascinante e imprendibile, che resta a lungo nella memoria. ILARIA FEOLE
Con L’arte della gioia, serie tv targata Sky che approda però anche sul grande schermo (la prima parte dal 30 maggio, la seconda dal 13 giugno), prosegue la carriera dietro la macchina da presa di Valeria Golino (l'abbiamo intervistata sul n. 22/2024 di Film Tv, ora in edicola), che nel 2013 esordì come regista con Miele: vi riproponiamo la recensione pubblicata su Film Tv n. 19/2013.
Miele
Dona la morte a chi ne ha bisogno, Miele, sotto forma di gocce di barbiturico a uso veterinario. Sulla scatola del medicinale proibito, che in Messico si vende senza ricetta, c'è il disegno di un cane: dettaglio incongruo per chi da quella boccetta riceve il lasciapassare per abbandonare un'esistenza di malattia e dolore. Un'ironia funebre che coglie in pieno l'anziano ingegner Grimaldi, cliente anomalo cui non servono patologie del corpo, né ulteriori spiegazioni, per desiderare di morire. Tra lui e Miele/Irene si instaura un rapporto di affetto cruento, fatto di slanci passionali, di imbarazzi reciproci, di dialoghi ed equivoci quasi morettiani («le parole sono importanti» e i due, complice il divario generazionale, si rimproverano vicendevolmente la scelta di termini infelici). Nell'opera prima di Valeria Golino, più del tema (scottante solo sulla carta) dell'eutanasia a domicilio, a imprimersi sulla pellicola è l'energia di Miele, ovvero di Jasmine Trinca: portatrice sanissima di tutta quella vita che sottrae ai pazienti consenzienti, è in costante movimento, corre, nuota, prende treni e aerei, non accetta legami e non si lascia prendere da niente e nessuno. Solo dall'amorevole macchina da presa della regista, che la dirige con adesione travolgente e fa dimenticare anche qualche (inevitabile?) vezzo da debutto autoriale (un ralenti di troppo). E l'alchimia fra la Trinca, sensuale e a tratti animalesca, e Carlo Cecchi, misurato e ironico, è di quelle che da sole valgono il prezzo del biglietto. ILARIA FEOLE
Women in Motion è l’iniziativa nata dalla collaborazione tra il marchio Kering e il Festival di Cannes, che ogni anno vede protagoniste alcune donne dell’industria audiovisiva, al centro di panel e talk pubblici. Quest’anno, fra le altre, c’erano la premiata Zoe Saldana e Julianne Moore; i loro incontri si possono vedere sul canale YouTube di Kering.
Si è appena conclusa alla Cinémathèque française una retrospettiva dedicata al cinema della poliedrica Marguerite Duras, in occasione dei 110 anni dalla nascita dell’autrice: Il Post le ha dedicato un piccolo omaggio a partire da una manciata dei suoi film, mentre vi ricordiamo che su MUBI è disponibile il suo Baxter, Vera Baxter.
È in corso fino al 31 maggio, a Palermo, la 14ª edizione di Sicilia Queer - International New Vision FilmFest, con lunghi e cortometraggi in anteprima, concerti e incontri con gli autori; la sezione Eterotopie è dedicata quest’anno alla Palestina.