Singolare, femminile ♀ #135: La figlia dell'altra
Arriva in sala oggi Le ravissement, esordio della regista francese Iris Kaltenbäck, presentato e premiato alla Settimana della critica di Cannes 2023, e vincitore della miglior sceneggiatura all’ultimo Torino Film Festival. Un film che racconta la solitudine della maternità, protagonista un’ostetrica che fa nascere i figli degli altri. Fiaba Di Martino ha intervistato per noi l’autrice.
Presentato alla Semaine de la critique del 76° Festival di Cannes e in competizione al 41° Torino Film Festival dove si è aggiudicato il Premio speciale della giuria, quello alla miglior attrice (Hafsia Herzi) e alla miglior sceneggiatura assegnato dalla Scuola Holden, riconoscimenti a cui sono seguite due candidature ai César n. 49, Le ravissement – Rapita, in sala per Satine Film dall’8 maggio, è l’esordio della francese Iris Kaltenbäck. La regista, classe 1988, studi alla Fémis, alle spalle un cortometraggio applaudito al Festival di Bruxelles (Le vol des cigognes, 2015), sonda lo smarrirsi lento e implacabile dei punti di riferimento nella vita di una giovane parigina, Lydia, che per un cortocircuito della sorte si trova ad assecondare un fraintendimento che diventa una bugia dalle conseguenze devastanti, per lei e per la sua migliore amica Salomé (Nina Meurisse). Ecco la nostra intervista a Iris Kaltenbäck.
Il tuo è un film in dialogo confidenziale con i modi e le forme dolorose di una solitudine intimamente femminile, quella paralizzante che vive Salomé nel post-partum, e quella sofferta e taciuta da Lydia, che assiste alla perdita del rapporto simbiotico con la sua amica, ora madre e moglie mentre lei, ostetrica, si occupa di far venire al mondo i figli degli altri, viene lasciata dal compagno e rifuggita da un potenziale nuovo amore. La ricognizione di questo groviglio è però affidata alla voce narrante di un uomo, Milos, il co-protagonista, immigrato di seconda generazione dalla ex Jugoslavia, e ignara spalla nell’azione criminale verso la quale si spinge via via Lydia. Come mai questa scelta?
L’ho presa essenzialmente per due motivi: innanzitutto volevo poter seguire da vicino questa donna lasciando al tempo stesso che aleggiasse intorno a lei un mistero, ma senza la pretesa di possedere tutte le risposte dalla mia posizione di “superiorità”. Necessitavo perciò di una presenza che si interrogasse sulla persona-Lydia e che facesse nascere un dubbio negli spettatori. La seconda ragione è il fatto che volevo che Milos non restasse soltanto una vittima che successivamente chiederà giustizia per quanto ha subito, perché penso che il cinema abbia il potere di andare oltre a queste qualificazioni facili e frettolose e volevo quindi che lui si domandasse quanto fosse stato in verità anch’egli complice del degenerare delle cose. C’è questo momento spartiacque in cui lui e Lydia si rivedono nell’ascensore dell'ospedale, e il suo sguardo cambia notandola con una neonata in braccio: tutto nasce da questo malinteso, dal suo crederla madre, e lei si appropria di tale misunderstanding. Trovo che nel meccanismo della menzogna ci siano sempre due parti in gioco, quella di chi mente e quella di chi riceve e accetta la bugia, e desideravo che lui attuasse una critica nei confronti del proprio ruolo. Al cinema i personaggi femminili si stanno finalmente trasformando, ma anche quelli maschili è importante che si evolvano dallo stereotipo abituale, che procedano a un’autoanalisi.
Lydia è un personaggio mutevole, sfuggente, talvolta impenetrabile nel suo rincorrere uno schema che può permetterle una felicità benché presa in prestito e passeggera, una normalità, benché contraffatta e illusoria. Ma è anche dolce, naturalmente materna, prima di tutto verso l’amica. Come hai lavorato con Hafsia Herzi, che la incarna?
Mi sono basata sul suo istinto, molto spontaneo, grintoso, Hafsia è un’attrice che, se incoraggiata, non si tira indietro e sul set si assume dei rischi. Abbiamo sempre cercato di porci delle domande concrete nei riguardi di Lydia evitando di psicanalizzarla troppo, tentando semplicemente di comprendere come succede che finisce rinchiusa in questa menzogna senza aria per respirare. Conosciamo molto bene questo tipo di meccanismo perché nessuno di noi è esente dalle piccole bugie di ogni giorno, anche se nel caso di Lydia poi tutto deraglia in qualcosa di più grande e di più grave. Ogni volta che giravamo lasciavo grande libertà a Hafsia, a volte permettevo a lei e agli altri attori di improvvisare anche se il copione era perlopiù vincolante, ma poi tornavamo al testo. Erano strade da percorrere in modo da far emergere e cogliere tutti i suoi colori interpretativi, come da una tavolozza.
Parallelamente al racconto della bugia e del conflitto vissuto da Lydia c’è un discorso sull’amicizia femminile, tra due donne giunte agli estremi opposti della propria vita. Nel caso della depressione di Salomé, la protagonista le viene in aiuto con efficacia, e con lei anche Milos, che ama genuinamente la piccola e si occupa di lei. È come se il film stesse suggerendo una idea nuova di famiglia possibile, con margini più ampi di respiro, responsabilità, ruoli.
Il film solleva assolutamente questa questione. Oggi esiste un approccio molto individuale alla genitorialità, ci sono un padre e una madre, oppure due padri o due madri... Io tuttavia volevo mettere in discussione il concetto stesso di famiglia, nel quale sarebbe interessante che intervenisse e incidesse di più il fattore dell’amicizia. Possono esistere altre forme sane di legame con un bambino, una dimensione più corale in cui crescerlo. Il film si chiede cos’è la maternità, un tema appestato da cliché e da miti che lo affaticano.
Nel film la parola ha un ruolo importante: fino a che punto Le ravissement è informato dal tuo background letterario, dalle autrici che ti hanno ispirata nella delineazione di questo personaggio? Mentre lo guardavo pensavo per esempio alle eroine di Marguerite Duras...
Sicuramente proprio Il rapimento di Lol V. Stein mi è stato di grande ispirazione, inoltre con “ravissement”, “rapimento”, non s’intende solo quello letterale, è un termine che può riferirsi anche a una sorta di beatitudine, di sentimento amoroso. A me interessava proprio il senso mistico che potevo dare al concetto di rapimento. E poi in una storia sulla menzogna l’attenzione alle parole è fondamentale, penso al monologo di Lydia quando racconta il parto dell’amica come fosse stato il suo – e lei era lì a occuparsene... Ecco, quel monologo tende continuamente alla verità, ma anche alla bugia, e ho cercato di sfumarlo al massimo in ogni sua parte puntando a una commistione tra vero e falso. La letteratura mi ispira sempre immensamente, nel film adopero appunto la voce fuori campo e altri aspetti di derivazione letteraria.
Le ravissement è un dramma e uno studio di personaggio, ma anche un thriller interessato a condensare una tensione emotiva anche magnetica. Ci sono state esperienze cinematografiche che ti hanno similmente rapita?
In questo film mi sono divertita a mischiare i generi, volevo evitare a tutti i costi il naturalismo. L’aspetto del thrilling era essenziale, io d’altronde mi sono nutrita di Truffaut, di Hitchcock, penso a Marnie e soprattutto a La donna che visse due volte in cui c’è un ritratto di donna che si è portati a indagare trattenendo il respiro, e trovo che questa categoria di racconto ben si adatti al personaggio di Lydia. Altre componenti più “atmosferiche” del film scaturiscono dal mio amore per Taxi Driver e per i lavori di Lucrecia Martel, che sono sempre portatori di una tensione sotterranea nonostante magari nella scena non accada nulla, come in La niña santa. È quell'enigma perturbante che cerco sempre di catturare anche io. FIABA DI MARTINO
I figli degli altri s’intitolava il film di Rebecca Zlotowski presentato in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia 2022: storia del rapporto tra una felice quarantenne senza prole (la sempre meravigliosa Virginie Efira) e la giovane figlia del suo nuovo compagno. Sul n. 39/2022 Luca Pacilio aveva intervistato per noi la regista: vi riproponiamo la loro chiacchierata.
Madre parallela - Intervista a Rebecca Zlotowski
In I figli degli altri, in Concorso alla 79a Mostra di Venezia, Rebecca Zlotowski narra di Rachel (Virginie Efira), quarantenne che si lega alla figlia del suo nuovo compagno (Roschdy Zem). Un film che non parla solo della precarietà di certe relazioni affettive, ma anche di desiderio di maternità, tema che la regista ha affrontato dopo lunga riflessione: «Dovevo in qualche modo chiarirmelo nell’aspetto politico, laddove mi coinvolgeva anche a livello personale».
La storia del film nasce dunque da una tua esperienza.
All’inizio volevo adattare un romanzo di Romain Gary sull’impotenza maschile il cui titolo, Au-delà de cette limite votre ticket n’est plus valable (in Italia Biglietto scaduto, edito da Neri Pozza, ndr), risuonava dentro di me: alla fine ho deciso di essere onesta con me stessa e di parlare di un’altra impotenza, quella femminile rispetto alla maternità, che stavo attraversando personalmente. C’è ancora molta vergogna nelle donne non più giovanissime che desiderano un bambino, nel loro invecchiare senza figli, un senso di colpa che la società instilla, parallelo a quello dell’uomo che non riesce ad avere un’erezione. Volevo anche parlare di una donna che si lega a una bambina che non è sua figlia: un rapporto fragile, contingente, altro aspetto dell’affettività di cui il cinema non si occupa. Mentre giravo sono rimasta incinta e questo mi ha consentito di avere la giusta distanza dal tema. Non rientravo più tra le donne che non riescono ad avere figli, non ero ancora tra quelle che ne hanno: mi muovevo in una zona grigia, liminale, una condizione a suo modo unica.
Il cinema dunque non tratta questi temi?
No, ed è un discorso che riguarda l’industria: certi argomenti - il desiderio di maternità, le nuove famiglie - non possono essere lasciati soltanto ai prodotti delle piattaforme. Non ho nulla contro lo streaming, non sono una feticista della sala, però è indubbio che ci sia del semplicismo su piattaforme in cui basta cliccare una keyword per trovare un film o una serie che tratti della tematica desiderata. Un po’ come avviene su YouPorn dove scegli la categoria che prediligi. Mi immagino ci siano delle riunioni per fissare dei temi taggabili a cui poi ricondurre le storie. In questo senso il cinema è in ritardo, è importante che affronti questi argomenti senza lasciarli a facili schematismi.
Come hai scelto gli interpreti?
Roschdy Zem - incarnazione della virilità e di certe fantasie postcoloniali - mi piaceva pensarlo in un ruolo quasi femminile, accudente. Virginie Efira è straordinaria per come contribuisce personalmente alla definizione dei suoi personaggi. Sullo schermo è avvenente, seduttiva, glamour, anche se poi è una delle donne più celebrali che conosca. Anche io sono molto cerebrale, ma Virginie mi supera di gran lunga.
Mi ha colpito il tono del film: all’inizio ha venature romantiche, a tratti la leggerezza della commedia. Il motivo drammatico, portato avanti dalla protagonista, si impone gradualmente in questo mélange di atmosfere.
È la sfida del film: quando non proponi svolte evidenti o colpi di scena chiedi al pubblico di attendere, perché comprenderà il tuo disegno solo alla fine. E questo può disorientarlo. Del nucleo narrativo la prima parte del film dà solo piccoli indizi: sta allo spettatore individuarli, porsi delle domande, attivare delle ipotesi. Ma ho voluto questa cosa, è una dichiarazione anche politica. Per tornare a quello che dicevo prima: un film che non si dichiara nei primi 20 minuti probabilmente non sarebbe accettato in una piattaforma. Io stessa quando guardo un film in streaming che non mi soggioga subito, lo mollo e vado a dormire. Questo tipo di sfida la puoi lanciare solo con il cinema: per questo la sala va difesa. Volevo poi che certi canoni fossero presentati in maniera diversa, come la coppia che si separa senza urla o tragedie. E ribaltare lo stereotipo della rivalità tra la ex moglie e la nuova compagna, presentando un legame forte fra le due donne. Contraddire le aspettative del pubblico, i suoi automatismi.
Nel film appare anche Frederick Wiseman, come l’hai coinvolto?
L’ho incontrato anni fa alla Mostra di Venezia, ci siamo incrociati in ascensore: avevo tenuto un corso sul documentario quando insegnavo all’università e amavo la sua opera. Lui abita a Parigi e abbiamo scoperto di avere conoscenze in comune: siamo diventati amici. Sapevo che aveva già fatto dei camei e ho pensato a lui per il personaggio del ginecologo che, per pura pigrizia mentale, avevo ipotizzato come donna sessantenne, portavoce della liberazione femminile, etc. L’ho immaginato come una figura leggera, brillante, l’espressione della saggezza: per questo ho mantenuto il suo nome, dottor Wiseman, intendendolo proprio come wise man, un uomo saggio, agli antipodi di quella aggressività che la società esprime nei confronti delle donne senza figli. Non volevo un dottore che accusasse la donna di aver aspettato troppo, che è un atteggiamento frequente. Nel film non troverai mai un’ostilità di questo tipo, sarebbe stato molto facile prevederla, ma ho scelto scientemente di evitarla. LUCA PACILIO
Comincia tra meno di una settimana, martedì 14 maggio, il 77° Festival di Cannes. Dopo il numero record di registe in Concorso dello scorso anno (e la Palma d’oro a Anatomia di una caduta di Justine Triet), in questa edizione sono solo quattro le autrici in gara: Andrea Arnold con Bird, Coralie Fargeat con The Substance, Payal Kapadia con All We Imagine as Light e l’esordiente Agathe Riedinger con Wild Diamond. Altre opere d’autrice si trovano in altre sezioni, tra cui l’anteprima della serie tratta da L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, firmata da Valeria Golino. Ci sarà però una presidente a guidare la giuria, ovvero Greta Gerwig, reduce dal successo di Barbie, mentre una delle Palme d’onore sarà assegnata a Meryl Streep; il premio Women in Motion verrà consegnato a Donna Langley, produttrice britannica oggi ai vertici di Universal. Durante l’apertura del Certain regard, Judith Godrèche presenterà il suo corto Moi aussi, dedicato alle denunce delle vittime di violenza sessuale. Ne riparleremo.
Inizia domani, 9 maggio, e continua fino al 12, al cinema Nuovo Aquila di Roma, Immaginaria – International Film Festival of Lesbians & Other Rebellious Women. Questa edizione, la n. 19, è dedicata alla poeta Patrizia Cavalli, ha come madrina l’attrice Sara Drago, e comprende proiezioni, concerti, mostre e incontri.
È stato presentato a Milano, lo scorso 18 aprile, il Diversity Media Report 2024, la ricerca annuale che analizza la rappresentazione inclusiva nei media italiani, nei programmi di informazione e di intrattenimento. Nei primi, sono aumentate le notizie su questioni razziali e identità di genere, ma sempre nell’ambito di conflitti internazionali, migrazioni e cronaca nera. Nei programmi d’intrattenimento, sia nelle serie italiane sia negli show tv, si nota un tentativo di allargare lo spettro della rappresentazione, ma purtroppo con una trattazione in molti casi ancora poco matura, superficiale, paternalistica. Fino al 10 maggio potete votare per i Diversity Media Award, che si terranno poi il 28 maggio e andranno in onda su Rai1 il 28 giugno.