Singolare, femminile ♀ #131: Cuori, corpi e menti
Si è concluso a Londra, lo scorso weekend, il BFI Flare, uno dei festival sul cinema queer più longevi d’Europa. L’ha seguito per noi la guest star Marta Corato, che in questo numero della newsletter ci accompagna alla scoperta di alcuni tra i titoli più significativi della rassegna, tra le sezioni Hearts, Bodies e Minds.
Alla sua 38ª edizione, il BFI Flare è uno dei festival sul cinema LGBTQIA+ più longevi d’Europa. Non assegnando premi, si concentra sull’essere una rassegna e un momento di festa; il festival stesso si definisce «una celebrazione primaverile del cinema queer». Si divide in tre sezioni – Hearts, Bodies e Minds – più una manciata di presentazioni speciali. L’ospite chiave dell’edizione 2024 è stato Elliot Page, che ha presentato il suo nuovo film Close to You e ha tenuto una masterclass. Almeno ai miei occhi, a ogni modo, il film più celebrato del festival è stato il già classico Love Lies Bleeding di Rose Glass (di cui ha parlato già Ilaria Feole nella newsletter dalla Berlinale 2024). Ma in un programma veramente ricco e sempre più sfaccettato si nascondono altri capolavori (anche se senza Kristen Stewart, ma dobbiamo farcene una ragione).
Dalla sezione Hearts, Lesvia è un documentario che parla di… lesbiche a Lesbo. L’artista e regista Tzeli Hadjidimitriou è, per l’appunto, una donna omosessuale nata sull’isola di Saffo; attraverso il suo film, traccia la storia della sua presa di coscienza in parallelo con la cultura queer che si è sviluppata sull’isola, con grande fastidio dei locali. Mentre Lesbo è stata meta di pellegrinaggio di donne lesbiche a partire dai primi anni del XX secolo (Hadjidimitriou cita per esempio Natalie Clifford Barney), a partire dagli anni 70 e con una particolare esplosione dagli anni 80, il villaggio di Skala Eressos è diventato una meta turistica per la comunità lesbica del mondo occidentale.
Il documentario mescola stupendo materiale d’epoca – foto e video amatoriali, lettere, cartoline, interviste a donne che hanno vissuto l’apice della cultura queer a Lesbo, frammenti di poesie di Saffo, incontri con i nativi di Lesbo (alcuni più astiosi di altri) – creando uno sfaccettato racconto orale. L’elemento più suggestivo, però, sono i passaggi dei diari della regista stessa, a partire da quando era una giovane donna alla scoperta della propria identità, fino agli ultimi anni, quando è tornata a vivere a Lesbo, un luogo profondamente cambiato nei decenni. Le sue riflessioni e la sua narrazione sono ciò che permette di dare un senso a tutte le altre voci e opinioni, necessarie quanto contrastanti. Mi sento inoltre di segnalare anche la presenza di numerosi stupendi gatti lesbiani.
In Hearts si trova anche Who’ll Stop the Rain, il primo lungometraggio della regista taiwanese Su I-Hsuan. Anche questo film torna al passato vicino: è ambientato infatti nei primi anni 90, poco dopo la fine del Terrore bianco. In quel periodo di risveglio dal torpore della legge marziale, gli studenti del dipartimento di belle arti della Chinese Culture University (CCU) si batterono nello sciopero più lungo nella storia di Taiwan, protestando per il loro diritto alla “libertà artistica” contro il direttore della scuola. La studentessa d’arte Chi-wei (Lee Ling-Wei) si scopre sempre più affascinata da Ching (Yeh Hsiao-Fei) che, pur non essendo parte della scuola, è tra i leader del movimento studentesco. Le due si trovano a navigare ambienti fortemente maschilisti, tanto quello dell’istituzione scolastica quanto quello del movimento studentesco; la loro relazione inizia in circostanze poco fortunate, ma diventa lentamente un’oasi per entrambe.
Who’ll Stop the Rain ripercorre elementi già visti in infiniti media su lesbiche infelici e tormentate, ma lo fa con un’onestà innegabile. Lo stile di Su è a volte impreciso, ma questo stranamente si sposa bene con le tematiche della lotta studentesca e “DIY”. Il senso di scoperta di sé è fortissimo: nate in un ambiente fortemente oppressivo e conservatore, le due scoprono contemporaneamente la loro coscienza politica e il loro desiderio romantico. Non è male sapere che da questo clima di protesta sia nato qualcosa di pregevole: a Taiwan il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legale dal 2019.
Senza dubbio, la mia visione preferita del festival è Woman Of… dei registi polacchi Małgorzata Szumowska e Michał Englert (sempre nella sezione Hearts), già in Concorso a Venezia lo scorso settembre.
Ci sono due parti nette in questa storia. La prima è frammentaria, impressionistica, con pochissimo dialogo e molti salti temporali, e comincia dai primissimi anni 80 per seguire Andrzej, un ragazzo e poi un uomo che soffre sempre di più a causa della sua disforia di genere. La storia sboccia in una narrazione drammatica più convenzionale, ma ugualmente coinvolgente, quando finalmente la protagonista comincia a presentarsi al mondo come Aniela. È chiaro che le sue vicissitudini sono tutt’altro che finite – tanto che il film si conclude ai giorni nostri, nel 2023.
Non è facile raccontare una storia del genere senza cadere nella disperazione o sembrare stupidamente ottimisti, ma è quello che riescono a fare Szumowska e Englert, il cui amore e cura per ogni dettaglio e ogni personaggio di Woman Of… traspaiono chiaramente. È visivamente splendido (nelle mie note ho scritto: «un bagno di bellezza») e incredibilmente complesso in quanto a riferimenti storici e tematici, dall’onnipresenza del cattolicesimo in Polonia all’avvento di Solidarnosc, all’ostilità che le persone trans incontrano anche ora.
Per completezza, va sottolineato che ancora una volta una protagonista trans viene interpretata da due – bravissimi – attori cisgender, Małgorzata Hajewska-Krzysztofik e Mateusz Wieclawek. I registi spiegano nelle note di produzione che questo è dovuto al fatto che le scuole di recitazione polacche sono ancora totalmente eteronormative; la scelta è ricaduta su attori cis di comune accordo con i consultant trans che hanno lavorato al film. Nei ruoli secondari, invece, attori trans hanno interpretato personaggi sia cis sia trans.
Backspot, film canadese con al centro un team di cheerleader agoniste, fa parte naturalmente della sezione Bodies. La protagonista Riley (Devery Jacobs, che è anche una delle produttrici, e che potreste riconoscere dalle serie Reservation Dogs e Echo) è, come da titolo, una backspot nella sua squadra di cheerleading, ovvero la persona che fa da base alle piramidi e conta il tempo delle acrobazie di chi le vola sopra la testa. Insieme alla fidanzata Amanda (Kudakwashe Rutendo) e all’amica Rachel (Noa DiBerto), Riley viene selezionata per unirsi a una squadra di livello più alto, le Thunderhawks, guidate dalla coach Eileen (una Evan Rachel Wood più splendida che mai), a sua volta «una lesbica sposata», con grande diletto delle protagoniste. Con una squadra più avanzata arriva anche molta più pressione, che si unisce alla intricata situazione domestica di Riley (completa di madre assente interpretata dalla magica Shannyn Sossamon) e a un preesistente problema di ansia.
Non c’è dubbio che Backspot sia una variante di una grande tradizione, quella dei teen movie con una chiave sportiva – pensiamo a Ragazze nel pallone, tanto per rimanere nell’ambito del cheerleading, ma anche a Sognando Beckham, che la regista D.W. Waterson cita tra le sue ispirazioni. Trovo molto rincuorante che, a differenza dell’ambigua relazione tra Keira Knightley e Parminder Nagra in quel film, qui le teenager del 2024 possano specchiarsi in protagoniste effettivamente queer. Backspot non è un film completamente riuscito, e ci sono delle grosse domande a cui non dà mai risposta, ma trovo che anche solo la sua esistenza sia un grosso segnale positivo, e che essere gay possa non costituire minimamente l’unico centro narrativo di una storia come questa.
Sempre nella sezione Bodies, e di nuovo con un’accezione letterale dell’attenzione al corpo, il film britannico Silver Haze segue Franky, un’assistente sanitaria che non riesce (comprensibilmente) a superare il trauma dell’incendio che le ha ricoperto il corpo di cicatrici durante l’infanzia. Le sue relazioni amorose sono sempre difficili e poco significative fino a quando non incontra Florence (Esmé Creed-Miles), una paziente dell’ospedale dove lavora, e successivamente la famiglia adottiva di Florence, dove per la prima volta si può sentire amata incondizionatamente.
Questa è la seconda collaborazione tra la regista Sacha Polak e la sua protagonista, l’attrice semi-professionista Vicky Knight: mentre in Dirty God (2019) le cicatrici dell’attrice erano causate da un attacco con l’acido, Silver Haze ripercorre in maniera più biografica la storia di Knight, che nel 2003 fu vittima di un incendio doloso accaduto al pub dello zio e che, come Franky, lavora tuttora come assistente sanitaria. Nonostante la relazione centrale tra Franky e Florence sia a dir poco problematica, questo film si dedica così teneramente al concetto di famiglia acquisita e accettazione assoluta da riuscire comunque a essere confortante. Questo è merito della premura di Polak per i suoi personaggi secondari, a ciascuno dei quali viene dato spazio per svilupparsi e lasciare un’impressione sullo spettatore.
Delicato e onirico quanto perturbante, Heavy Snow, dalla sezione Minds, segue l’intrecciarsi delle vite di due giovani donne; la vita dell’aspirante attrice Suan (Han Hae-in), un’adolescente solitaria e incompresa, viene completamente stravolta dall’arrivo di una nuova compagna di classe, la già famosissima Seol (Han So-hee), che diventa rapidamente la sua prima vera amica. In soli 77 minuti, la loro relazione si ricompone e si disfa a più riprese, e con risultati diversi, attraverso gli anni. La lente del regista Yun Su-ik è intima ma fuorviante: non è mai chiaro cosa sia vero e cosa esista soltanto nell’immaginazione di Suan. Han Hae-in riesce ad essere tanto spavalda quanto innocente; Han So-hee una superstar carismatica e una persona frantumata dalle ambizioni degli altri.
Quello di Suan e Seol non è un sogno a occhi aperti: è il Weltschmerz di Leopardi applicato alla vita moderna in Corea e le aspettative ancora schiaccianti della società (non è un caso che la Corea abbia il tasso di suicidi più alto dell’OCSE). A questo proposito, è interessante sottolineare che, durante il Q&A con il pubblico, il regista abbia detto di aver smesso di seguire le reazioni al film provenienti dal pubblico coreano. Al di là dell’arretratezza in tema di diritti LGBTQIA+ della Corea del Sud, Yun si è dovuto scontrare con il fatto che Han So-hee, che era una sconosciuta quando ha girato Heavy Snow, è diventata nel frattempo estremamente popolare: il suo pubblico di fan non ha preso per niente bene il fatto che interpretasse una ragazza queer. A ogni modo, proprio in questi giorni, dopo essere diventata la beniamina del paese, Han è ora nel bel mezzo di una crisi di immagine a causa di un “dating scandal”.
Sempre nella sezione Minds c’è anche Les jours heureux, della regista canadese francofona Chloé Robichaud. Emma (Sophie Desmarais) è una giovane direttrice d’orchestra alle prese con le sue prime scelte professionali di peso; a guidarla c’è il padre Patrick (Sylvain Marcel), che sembra più voler mantenere una presa totale su di lei che cercare il suo bene. Allo stesso tempo, Emma sta cercando di costruire una relazione con la violoncellista Naëlle (Nour Belkhiria) e suo figlio.
Anche solo per recency bias e generale rarità di film che parlano di direttrici d’orchestra lesbiche, è impossibile non pensare a TÀR; per fortuna, Emma non ha niente a che fare con la temibile Lydia, anche se da angoli diversi entrambi parlano di abuso. Le due sono forse totalmente opposte: se Lydia è un genio diabolico della manipolazione e del controllo, Emma non ha alcun controllo e si fa manipolare dagli altri.
Les jeurs heureux è una pentola a pressione: nei mesi in cui si avvicinano performance sempre più cruciali per la carriera di Emma, sia la sua vita professionale sia quella personale sembrano gradualmente diventare sempre più complicate da gestire. Robichaud costruisce efficacemente un’escalation di tensione, scoprendo solo poco a poco il tema centrale del film, ovvero l’ampiezza e profondità del trauma e tossicità nella relazione tra padre e figlia. È solo in retrospettiva che capiamo che i “giorni di felicità” del titolo sono quelli a venire, dopo la fine del film. MARTA CORATO
Se dopo aver letto il report di Marta Corato sul BFI Flare di Londra avete voglia di una scanzonata commedia orgogliosamente queer, in sala trovate ancora Drive-Away Dolls, film firmato in solitaria da Ethan Coen e da lui scritto insieme a Tricia Cooke. Un film strambo e certamente disorientante, che gli autori ci hanno spiegato in un’intervista pubblicata sul n. 10/2024 di Film Tv, e che qui vi riproponiamo.
Allacciate le cinture!
I fratelli si saranno anche “separati”, ma non per questo il cinema dei Coen smette di essere un “affare di famiglia”. Drive-Away Dolls, primo lungo di fiction ufficialmente “in solitaria” di Ethan (dopo il doc Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind del 2022) è in realtà un progetto cullato per oltre vent’anni con la moglie, Tricia Cooke, che della filmografia coeniana è spesso stata co-montatrice (insieme a Roderick Jaynes, che però è lo pseudonimo da montatori di Joel e Ethan). Proprio presentando questo film Coen e Cooke hanno parlato anche del proprio matrimonio, una relazione aperta da loro descritta come «non tradizionale» e che coinvolge altri partner; e Drive-Away Dolls è uno scanzonato road movie queer, con le strepitose Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan, un viaggio verso la Florida, molto sesso lesbico e una valigetta misteriosa. «Per fortuna ci sono sempre più “film queer allegri”» esclama Cooke. «Ed è importante: la nostra è una comunità marginalizzata, ed è fondamentale diffondere le nostre storie. Quando abbiamo iniziato a scrivere questo film, a inizio millennio, non esistevano praticamente storie lesbiche che non fossero anche tragiche. Niente lieto fine per le lesbiche! Ma neanche una narrazione leggera, o perfino sciocca, come in questo film. E questo mancava soprattutto a me». «Sono convinto che esista un pubblico poco considerato, affamatissimo di “stupidi film gay”!» interviene Coen. Nel corso di due decenni, però, il film si è trasformato. «Soprattutto è diventato un “film in costume”, ambientato nel passato (gli anni 90, ndr), perché non funzionerebbe come opera contemporanea» spiega Cooke. «Nel frattempo è cambiato anche il mondo lesbico, e io stessa non sono più così esperta di quella cultura, non quanto allora. Oggi c’è anche un cinismo maggiore, nessuno si stupisce più di niente». «In Drive-Away Dolls», aggiunge Coen, «c’è un livello di innocente provocazione, una certa impertinenza, per esempio quando Margaret parla dei suoi incontri sessuali, che oggi non avrebbe lo stesso effetto». Qualley interpreta l’irrefrenabile Jamie, caotica e trascinante, mentre Geraldine Viswanathan è la tranquilla, pacata e sessualmente inesperta Marian. «Jamie è basata su una mia cara amica» ricorda Cooke. «È un vero spirito libero, senza freni né inibizioni. Volevamo mettere il suo totale libertinaggio in contrasto con un carattere opposto, qualcuno che potesse essere lo yin al suo yang. Ethan direbbe che la repressa Marian è ispirata a lui (ridono entrambi, ndr), ma non sono sicura sia vero. Per noi era importante creare due personaggi femminili forti e interessanti, e abbracciare il loro universo sessuale. È stato divertentissimo e liberatorio». «Il film non esisterebbe nemmeno senza Margaret e Geraldine» interviene Coen. «Sono persone fenomenali e ottime attrici. Hanno capito perfettamente non solo il personaggio, ma anche come si inseriva nella storia, e soprattutto lo spirito del film, il fatto che volesse essere prima di tutto divertente. Io e Tricia siamo persone che, per la maggior parte del tempo, se ne fregano di cosa è appropriato e cosa no, e questo tipo di ironia è quella che dà benzina alla sceneggiatura. Una volta che ti dai il permesso di “fare lo scemo” e di scrivere battute stupide, è difficile fermarsi... Volevamo che Drive-Away Dolls fosse, prima di tutto, liberatorio». Non sono solo il plot, che corre sulle strade statunitensi tra deviazioni impreviste e colpi di scena, o il progressivo risveglio sessuale di Marian a renderlo tale, ma anche l’ispirazione cinefila e lo spirito del film che si ricollegano a quelli dei B movie, specificamente anni 60 e 70. «È qualcosa con cui siamo cresciuti entrambi, un certo tipo di cinema pulp» conferma Cooke. «Per me sono stati soprattutto i film di Russ Meyer e John Waters...». «Per me invece i film noir, e diversi titoli precursori di quello che poi è stato chiamato cinema trash, o sexploitation» si inserisce Coen. «L’exploitation, anche la blaxploitation, alcuni western... hanno tutti una certa libertà, una qualità “informale”, “abborracciata” se così posso dire, che è entusiasmante, fresca. Hanno una forza propulsiva inconfondibile». «Però, a parte per una sola precisa inquadratura, non abbiamo utilizzato altri riferimenti cinematografici diretti per questo film» prosegue Cooke. «Bad Girls Go to Hell di Doris Wishman è un film molto importante per me (e ha un titolo bellissimo), e potrei certo citare Faster, Pussycat! Kill! Kill! per la “cultura automobilistica”, il ritmo veloce e i personaggi femminili forti...». «Ma anche quanto abbiamo parlato con Ari Wegner, la nostra direttrice della fotografia, non abbiamo indicato titoli specifici, quanto più una sensazione generale, un’atmosfera cinematografica». In comune, come si diceva all’inizio, Ethan Coen e Tricia Cooke hanno anche il mestiere di montatori: come li ha influenzati nella scrittura e nella regia? «Sicuramente molto!» risponde Coen. «In che modo, esattamente, è più difficile da spiegare. Mentre scriviamo siamo molto consapevoli di due cose a cui magari altri sceneggiatori non pensano. Abbiamo sempre in mente quale sarà il tipo di “copertura” visiva, lo stile di regia effettivo, come apparirà il film sullo schermo. E, allo stesso modo, sappiamo già dove ci saranno gli stacchi di montaggio. Sono tutte decisioni che sono contemporaneamente di scrittura e di regia, al punto che non percepiamo neanche più una separazione tra le cose. Questi titoli - “sceneggiatore”, “regista”, “montatore” - ci suonano in un certo senso artificiali. Come già con Joel, ci siamo semplicemente noi che facciamo film». ALICE CUCCHETTI
È cominciata ieri e proseguirà fino al 10 maggio la rassegna Orizzonti Queer organizzata dal Festival Orlando in collaborazione con il cinema Nuovo Eden di Brescia e il Circolo del cinema di Verona. Paul B. Preciado ha presentato il suo primo film, adattamento di Orlando di Virginia Woolf: ne riparleremo, non perdete la prossima newsletter!
Dopo il cinema queer, la tv: all’inizio di quest’anno ha festeggiato il proprio ventennale The L Word, serie fondamentale – tra pregi e difetti – nell’ampliare i confini del piccolo schermo, raccontando le tribolazioni sentimentali di un gruppo di amiche lesbiche. Potete ripercorrere la sua storia con questo articolo di IndieWire, che evidenzia anche gli inaspettati passi indietro che la rappresentazione queer televisiva sta attraversando negli ultimi anni [in inglese].
Juliette Binoche è stata nominata nuova presidente dell’EFA, l’European Film Academy, sostituendo Agnieszka Holland, che era stata la prima donna a ricoprire il ruolo. La grande attrice francese, che abbiamo visto da poco nel ruolo dell’icona della moda Coco Chanel in The New Look, ha compiuto 60 anni lo scorso 9 marzo: potete celebrarla leggendo questa lunga intervista pubblicata da “Vanity Fair”.