Dahomey, opera seconda della franco-senegalese Mati Diop, è l’Orso d’oro della 74ª Berlinale: a partire dal vincitore, documentario anti-colonialista, diamo uno sguardo ai numerosi film con donne dietro la macchina da presa di questa edizione, tra esperimenti di genere e favole femministe.
La cerimonia di premiazione della 74ª Berlinale ha visto trionfare l'opera seconda della regista francese di origini senegalesi Mati Diop: classe 1982, nipote d'arte del cineasta Djibril Diop Mambéty (proprio al suo film Touki Bouki la giovane Diop dedicò uno dei suoi primi mediometraggi, Mille soleils), già premiata a Cannes 2019 col suo esordio nel lungometraggio Atlantique. A Berlino ha portato Dahomey, un documentario breve (solo 67 minuti, una rarità per i concorsi dei festival internazionali) che prende il titolo dall'antica denominazione dell'attuale Repubblica del Benin, e che segue una assai mediatizzata operazione di restituzione da parte della Francia di 26 manufatti originali, tesori sottratti al regno di Dahomey dai suoi colonizzatori. Il registro del film, pur proponendosi a livello visivo come osservazione alla "mosca sul muro" stile Frederick Wiseman, è sospeso - come già il precedente Atlantique - tra realismo e slanci di genere, guidato per tre quarti dalla cavernosa voce narrante di uno dei tesori reali: la statua in legno e metallo di un re del Dahomey, ribattezzato semplicemente "26" nel suo tragitto transoceanico di ritorno "a casa". Da un museo francese a uno del Benin, analizzato minuziosamente dagli esperti e imballato con cura in una cassa nel ventre di un aereo, il re “26” racconta la sua storia in prima persona allo spettatore, prima di essere accolto in patria da una cerimonia impettita e popolatissima. «Mati Diop inventa il cinema fantastico anti-coloniale» ha titolato a caratteri imponenti il quotidiano francese "Libération", e il film è stato incoronato vincitore dell'edizione dalla giuria presieduta dall'attrice messicano-keniota Lupita Nyong'o; “piccolo” e coerente, il documentario va dritto al punto mettendo in scena la liberazione e la rivendicazione del fiero passato dello stato africano tramite un apparato narrativo molto diretto e un escamotage - quello del racconto in prima persona della statua "protagonista" - didascalico ma efficace.
L’idea è quella di ridare voce a un popolo e a una cultura depredati, e Diop lo fa letteralmente, attribuendo alla statua la responsabilità e la libertà di guidare la narrazione tramite un monologo effettato al vocoder; e in modo, per chi scrive, decisamente più stimolante si impegna a dare voce all’Africa l'ultimo quarto di film, che scarta bruscamente rispetto al viaggio dei tesori restituiti per soffermarsi, invece, sulla documentazione di un'assemblea di giovani studenti dell’Università di Abomey-Calavi. I ragazzi si interrogano sul significato della restituzione dei manufatti, più in generale sul colonialismo e sul capitalismo, sull’arte e sul concetto di libertà, mettendo in campo riflessioni contraddittorie e provocatorie: una su tutte, l’idea che l’istituzione museale sia intrinsecamente occidentale, e che dunque poco ci sia di liberatorio e compensatorio nel piazzare nuovamente il re 26 e gli altri 25 tesori dentro le teche di un museo africano. Un forum liberissimo che testimonia di una vitalità osservata da Diop con sguardo partecipe e curioso.
Disseminati nelle varie sezioni della Berlinale, erano documentari anche altri dei più interessanti film diretti da donne in questa edizione: la veterana Ruth Beckermann ha firmato in Encounters il contagioso Favoriten, ritratto collettivo di una classe di bimbi delle elementari di Vienna seguiti attraverso tre anni scolastici, guidati da una giovane insegnante dai metodi e dalla schiettezza felicemente poco ortodossi. Quasi tutti di religione musulmana, con famiglie provenienti dai quattro angoli del mondo e da regioni dilaniate dalla guerra come la Siria, i piccoli protagonisti del doc sono osservati a distanza ravvicinata e chiamati anche, tramite l'assegnazione di cellulari appositi, a filmare se stessi, per dar vita a un autoritratto spensierato e senza filtri, colmo di candore e contraddizioni, e a dispetto dell'ambientazione rassicurante e dello spirito ludico, anche profondamente politico: la classe di Favoriten è uno spaccato in miniatura di una società, quella austriaca, percorsa da tensioni e pregiudizi profondi, da razzismo e sessismo, e da una allarmante incapacità di aprirsi all’altro e di empatizzare col diverso.
Era in Encounters - sezione ideata dal direttore uscente Carlo Chatrian, per quattro anni spesso la selezione più stimolante dell’intera Berlinale - anche Une famille di Christine Angot, film con cui la scrittrice francese cerca di mettere un punto alla sua lunghissima opera autobiografica di elaborazione di un trauma insostenibile: quello dell’incesto subito da ragazzina, e poi ancora da adolescente, dal padre. Une famille è un film furioso, problematico, per molti versi sbagliato: un film che non si tira indietro davanti a nulla, che gioca senza ritegno con l’ambiguità fra reale e “scripted”, e che spesso mette sullo schermo una sorta di autobiografica pornografia del dolore. Eppure, forse questa forma slabbrata, irata ed eticamente scivolosa (Angot, si scopre durante il doc, è stata denunciata dalla moglie del padre, ormai defunto, per il modo decisamente aggressivo in cui si è introdotta in casa sua per effettuare le riprese) è l’unica forma possibile per portare sullo schermo la voragine incandescente di una violenza subita e, soprattutto, la fame divorante di legittimazione di una donna che sente di non essere mai stata creduta, né realmente ascoltata.
Lavorano sull’archivio altri due doc nella sempre eclettica sezione Forum: Il cassetto segreto di Costanza Quatriglio (in sala dal 18 aprile) è il tenero e accorato omaggio della regista al padre Giuseppe, celebre giornalista e scrittore che dalla Sicilia ha viaggiato in tutto il globo, accumulando tra le librerie della sua casa palermitana una quantità stupefacente di fotografie e bobine in 8mm. Un tesoro inestimabile che la cineasta scandaglia, cataloga e sutura con amorevole curiosità, ricostruendo la vita e le gesta di un uomo che ha attraversato con spirito inscalfibile pagine di Storia.
Il cortometraggio Grandmamauntsistercat della giovane regista polacca Zuza Banasinska (in Forum Expanded, premiato col Teddy Award, lo storico Orso queer della Berlinale) parte invece dai materiali dell’Educational Film Studio di Łódź per tracciare una fantasmatica e fantapolitica storia matriarcale: frammenti di surreali - ma autentici - filmati educativi destinati alle donne sotto il regime comunista vengono rimontati, tagliati e deformati per raccontare una possibile resistenza antisessista, ancorata alla figura mitica della strega Baba Yaga, in un esperimento tanto breve quanto entusiasmante.
C’è sempre una buona quota di film di genere alla Berlinale, e quest’anno il nostro personale colpo di fulmine è stato (fuori concorso, nella sezione Special) Love Lies Bleeding di Rose Glass (regista di cui abbiamo già parlato in questa sede per il suo fulminante esordio Santa Maud, vedi newsletter n. 47).
Felicemente indefinibile (commedia nera? Fantasy? Horror?), gloriosamente queer, annaffiato da abbondanti dosi di sangue, sudore e saliva, il film ha per protagonista una ineditamente convincente Kristen Stewart, travolta da passione per un’aspirante culturista (la magnetica artista marziale Katy O’Brian, già apparsa in Ant-Man and the Wasp: Quantumania e The Mandalorian) i cui muscoli guizzanti possono trasformarla, alla bisogna, in una vera e propria She-Hulk. Ambientato in un microcosmo Eighties dominato da edonismo e machismo (spregevoli e memorabili i maschi tossici incarnati da Dave Franco e, soprattutto, da un lynchano Ed Harris), il film di Glass è una nerissima e violenta commedia lesbica, coeniana nello spirito e sfacciata nella commistione di generi, che speriamo si veda presto anche sui nostri schermi.
Sul confine tra generi giocano, più o meno esplicitamente, altri tre titoli che hanno catturato la nostra attenzione: in Concorso The Devil's Bath di Veronika Franz e Severin Fiala (premiato per la migliore fotografia), un “finto horror” che corteggia suggestioni sovrannaturali per tutta la sua durata, ma che mette in scena un orrore ben più reale e storicamente documentato (i cartelli alla fine del film parlano di centinaia di casi), ovvero quello delle donne costrette a compiere atti criminali per sfuggire alle maglie soffocanti di un integralismo cattolico inamovibile.
In Encounters Mãos no fogo della veterana portoghese Margarida Gil è la variazione su Giro di vite di Henry James che non ti aspetti: a entrare nella casa infestata del classico gotico è qui una giovane e arrembante documentarista, che armata di microfono e macchina da presa ha intenzione di registrare la vita degli abitanti della magione; il metacinema si mischia all’horror con intento ludico e sensuale, nei toni lussureggianti di una fotografia impressionante.
Infine, in Forum, vincitore del premio FIPRESCI, The Human Hibernation di Anna Cornudella è una fantascienza minimale e sommessa, che immagina un futuro apocalittico in cui anche gli umani siano costretti al letargo stagionale per compensare alla scarsità di risorse.
Chiudiamo la nostra carrellata - che non è, ci teniamo a sottolinearlo, esaustiva di tutte le donne dietro la macchina da presa alla Berlinale, uno dei festival che maggiormente si impegna a perseguire la presenza di registe in programma - con un trio di ritratti femminili di cui ci siamo innamorate, per la vitalità, il coraggio e la militanza che hanno messo in campo.
Premiato col FIPRESCI come miglior film del Concorso è l’iraniano My Favourite Cake di Maryam Moqadam e Behtash Sanaeeha (registi impossibilitati a presenziare al festival perché il regime ha confiscato i loro passaporti): love story dolceamara della terza età, ha per protagonista la meravigliosa Lili Farhadpour nei panni di una vedova da troppo tempo avvezza alla solitudine, e decisa finalmente a trovarsi un partner con cui condividere una bottiglia, una danza e una fetta di torta. Mentre le ingiustizie del regime e i soprusi della polizia morale fanno capolino tra le inquadrature e tra le righe dei dialoghi, il film si concentra sul racconto di un femminile che di rado trova spazio sullo schermo, col corpo “normale”, felicemente celebrato e guardato, di una donna di 70 anni intenzionata a vivere ancora il proprio desiderio e la propria affettività.
Di fianco a My Favourite Cake era in Concorso anche l’esordio alla regia della cantautrice Margherita Vicario, Gloria! (in sala dall’11 aprile): favola femminista ad altezza di preadolescenti, è un contagioso inno alla libertà attraverso la musica (la colonna sonora aggancia al presente l’ambientazione ottocentesca con gioioso anacronismo), popolato da una banda di orfane (ottime le giovani protagoniste, affiancate da Veronica Lucchesi dei La rappresentante di lista e circondate da volti noti della comicità italiana usati con effetto antifrastico: Paolo Rossi e Natalino Balasso negli spregevoli panni di villain) che imparano a mettere in canto e in note la propria rabbia, a trasformare in spartiti le delusioni sentimentali, e a riconquistare se stesse apponendo la propria firma su ciò che hanno creato.
In Encounters c’era invece il più memorabile personaggio femminile di tutto il festival: la Ivo di Eva Trobitsch, infermiera dedicata alle cure palliative di malati terminali che si vede chiedere un’eutanasia dalla sua migliore amica. Totalmente allergico a qualsiasi retorica, il film si immerge nella routine di Ivo, nella sua fame di sesso e di junk food, nel dilemma etico che confligge col suo salutare pragmatismo e nel suo dolore sommerso e sommesso, senza mai giudicare né istigare all’empatia, dando vita (grazie anche alla prova mirabile della clamorosa attrice teatrale Minna Wündrich, altro corpo autentico esposto alla macchina da presa) a un ritratto femminile spigoloso e travolgente, imperfetto e memorabile. ILARIA FEOLE
Nel 2019 Mati Diop conquistava il Grand Prix di Cannes e l’attenzione del pubblico col suo primo lungo, Atlantique: vi riproponiamo la recensione apparsa su Film Tv n. 48/2019.
Atlantique
Nipote di Djibril Diop Mambéty, il regista di Touki Bouki, film faro del nuovo cinema africano, Mati Diop esordisce dietro la macchina da presa con Atlantique dopo avere diretto numerosi cortometraggi ed essere apparsa in film di Claire Denis, Antonio Campos, Benjamin Crotty, Thierry de Peretti e altri ancora. Presentato in Concorso al Festival di Cannes 2019, Atlantique, insieme a Les misérables, è stato il film che ha scosso la competizione. Sovrastata dall’etichetta di “prima donna di colore presente in selezione ufficiale al festival di Cannes”, è come se Diop avesse dovuto faticare due volte per farsi considerare come regista a tutto tondo piuttosto che come “concessione esotica e politicamente corretta” alle pressioni di coloro che - giustamente! - invocano una maggiore equità di genere nei festival di serie A. Con mano sicura e sguardo lirico, la giovane regista mette in scena una storia di fantasmi, autentici revenants, con una sensibilità che evoca addirittura Jacques Tourneur. Spinti dalla perenne mancanza di lavoro e dal mancato rispetto degli impegni assunti da parte di occasionali ma ricchissimi datori di lavoro, giovani senegalesi decidono di affrontare il mare per giungere clandestinamente in Europa, nonostante siano consapevoli degli enormi pericoli cui vanno incontro. Gestendo con grande consapevolezza formale l’indecidibilità di quanto accade sullo schermo (si tratta di veri fantasmi, di zombie, oppure è una trovata delle ragazze che sono rimaste indietro per farla pagare ai padroni?), Mati Diop si dimostra immediatamente cineasta di grande valore. Una rivelazione. GIONA A. NAZZARO
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