Singolare, femminile ♀ #128: Women in the dunes
L’uscita nelle sale di Dune: Parte due di Denis Villeneuve, tratto dal romanzo del 1965 di Frank Herbert, dà l’occasione alla nostra guest Cristina Resa di riflettere sul ruolo (e le trasformazioni) dei personaggi femminili in questo composito universo narrativo, in relazione al materiale originale.
Attenzione: il pezzo contiene spoiler su Dune di Frank Herbert e sull’adattamento cinematografico di Denis Villeneuve. Non sono invece trattati, se non in maniera marginale, gli altri romanzi del ciclo, né svelate svolte future.
«All’inizio è indispensabile porre ogni attenta cura nello stabilire i più esatti equilibri. Ciò è ben noto a ogni sorella Bene Gesserit. Così, nell’intraprendere lo studio della vita di Muad’Dib, conviene per prima cosa collocarlo esattamente nel suo tempo»: Dune, il romanzo di fantascienza di Frank Herbert del 1965, uno dei più influenti di sempre, in un certo senso un mito contemporaneo, inizia con queste parole della principessa Irulan, tratte dal suo Manuale di Muad’Dib. Irulan Corrino, figlia maggiore dell’imperatore Padiscià Shaddam IV, è la nostra guida all’interno dell’intricato mondo di Dune. Addestrata a sua volta alla via del Bene Gesserit, organizzazione religiosa e politica chiave nell’universo di Dune, storiografa dell’Impero, biografa di Paul Muad’Dib Atreides, Irulan è colei che, in un certo senso, dà forma al testo: i suoi estratti, infatti, introducono ogni capitolo del romanzo. Di fatto, la sua è una voce che proviene dal futuro, ma nonostante sia al centro di molte vicende raccontate nel primo libro del ciclo di Herbert, rimane ai margini, quasi come una narratrice esterna, per fornire il contesto, aprire squarci su quello che succederà e permettere a noi che leggiamo di guardare il «passato, presente e futuro con un occhio solo, come se il tempo fosse diventato spazio», in modo analogo a quel che accade anche a Paul durante le sue visioni profetiche.
Irulan, per tutti questi motivi, è un personaggio di difficile interpretazione, tra i più enigmatici del romanzo: tanto presente quanto assente, perché appare nell’intreccio solo alla fine del libro per diventare la moglie di Paul, dopo che la sua parabola lo ha portato a trasformarsi, da giovane e nobile duca di una casa in rovina, a leader tribale, messia e poi imperatore. Per questo, immagino che quello di Irulan sia un personaggio particolarmente difficile da tradurre in un adattamento cinematografico, che privilegia l’immagine sulla parola, senza banalizzare il suo peculiare ruolo o quello che rappresenta. Se David Lynch, nel suo frammentario tentativo del 1984, sceglie di presentarci Irulan nell'introduzione, alludendo esclusivamente al suo ruolo di narratrice, senza approfondire altro, Denis Villeneuve si dimostra strategico: ritarda la sua comparsa e dà a lei il compito di introdurre la narrazione di Dune: Parte due, che arriva nei cinema a più di due anni dal primo film. Vediamo per la prima volta Irulan, interpretata da Florence Pugh, nell’atto di scrivere, di fissare i propri pensieri sull’inaspettata battaglia di Arrakis, il cruento scontro che in una notte ha visto gli Harkonnen spazzare via gli Atreides, sconfiggendoli e causando la morte del duca Leto. È interessante come questa sequenza, pur non riproponendo esattamente l’estratto di Nella mia casa paterna con cui si apre la seconda delle tre parti di cui è composto il libro di Herbert, riesca a creare ponti tra l’opera originale e l’adattamento e, soprattutto, a fissare peculiarità e indole del personaggio nel giro di pochi istanti: Irulan commenta un fatto già avvenuto, che certamente ancora non è Storia o mito ma che lo diventerà, accompagnando il pubblico qualche passo indietro nel tempo e fornendo così le coordinate per collocare cronologicamente un intreccio che, come in una narrazione seriale, ha bisogno di agganciarsi alla parte precedente. È chiaramente un riflesso del suo ruolo all’interno dell’opera originale, ma come spesso avviene nel mondo di Dune reimmaginato da Villeneuve, in quel riflesso un occhio attento può intravedere un ragionamento, un percorso.
Nel romanzo, la profondità della caratterizzazione di Irulan emerge attraverso gli estratti, con i quali riusciamo anche a ricostruire alcuni dei suoi tratti distintivi, come la spiccata intelligenza, la comprensione politica dei meccanismi del potere e dei ruoli istituzionali, mentre nell’adattamento cinematografico il personaggio di Florence Pugh ha un raggio d’azione più ampio e acquisisce la possibilità di smettere di essere solo un’osservatrice di questa storia. L’Irulan letteraria appare come un personaggio costruito sullo stereotipo di una femminilità virginale, passiva, obbediente e non sessualizzata. Quando viene organizzato il matrimonio, Paul promette a Chani: «Quella principessa non avrà di me altro che il mio nome. Nessun figlio mio, né tocco, né dolcezza di sguardo, né istante di desiderio». Si tratta però di una passività soltanto apparente, o meglio, cosciente. In quanto allieva del Bene Gesserit, che prepara le proprie adepte a rivestire posizioni di alto rango e intrecciare relazioni sia famigliari sia politiche, Irulan sa cosa comporta l’accettare le decisioni altrui, nel grande disegno di un ordine che muove i destini dell’Impero attraverso la propaganda religiosa e la pianificazione delle linee genetiche di successione per controllare le Grandi Case regnanti. Inoltre, come scrive Kara Kennedy, ricercatrice che si è più volte concentrata sul ruolo dei personaggi femminili in Dune, nel saggio Tracing Second-wave Feminism Through Women in the Dune Series: «la principessa Irulan si rivela un personaggio più complesso della semplice consorte designata di Paul, e si riserva la facoltà di scegliere il modo in cui Paul verrà ricordato attraverso i suoi svariati scritti». Nei romanzi, dunque, Irulan in realtà esercita un enorme potere che non viene esplicitato, ma che emerge tra le righe: è lei a scegliere come tramandare il mito di Muad’dib. Nel film, Villeneuve utilizza l’Irulan narratrice come suggestione per introdurre il personaggio, per poi mostrarla nel processo agente di questa sua consapevolezza. Tutte le caratteristiche che Herbert le affida in modo implicito, nell’adattamento cinematografico diventano evidenti nei dialoghi con la Reverenda Madre Mohiam, interpretata da Charlotte Rampling, dove Villeneuve riveste Irulan di qualcosa che nel primo romanzo non si percepisce: autorevolezza e capacità di scelta, pur nell’aderenza al piano e nel rispetto del volere Bene Gesserit. Questa differenza non è soltanto frutto della volontà di rendere la rappresentazione di Irulan più contemporanea, ma nasce soprattutto dall’esigenza di voler integrare il personaggio nel presente della narrazione. Nel romanzo Irulan vive nel futuro, mentre attraverso l’adattamento di Villeneuve noi riusciamo a percepirla nel presente, nel suo e in quello del sistema in cui si muove.
Da questo punto di vista, Irulan e le altre figure femminili in Dune vengono rappresentate mentre agiscono all’interno di un sistema feudale, patriarcale e coloniale, procedendo in modo coerente con il contesto di riferimento. Non si tratta, dunque, di trovare modelli femminili esemplari, necessariamente positivi, che si fanno carico di istanze e si battono per l’emancipazione, ma di riflettere, attraverso una lente femminista, sulle modalità con cui questi personaggi interpretano il proprio ruolo e si pongono in relazione al potere costituito. In questa prospettiva, la rappresentazione femminile in Dune, almeno nel primo romanzo, sembra legata ai tradizionali ruoli di cura e definita in base al rapporto con il maschile: le donne sono madri, mogli, figlie, educatrici e concubine. Questo potrebbe far pensare a una visione reazionaria, tuttavia è nel modus operandi di Herbert aderire narrativamente a un modello, per analizzarlo e criticarlo dall’interno: lo fa anche con la figura di Paul Atreides, formalmente l’eroe in viaggio che sembra seguire il percorso tracciato dal monomito teorizzato da Joseph Campbell – che presenta forti problematicità a livello formale che spesso si preferisce ignorare – per poi decostruirla nel momento in cui diventa evidente che, in un racconto critico verso ogni forma di potere politica, sociale e religiosa, non possono esistere eroi. Con le figure femminili, Herbert fa lo stesso: questi personaggi non mostrano mai volontà di emanciparsi dal modello di potere, ma trovano il modo per assumerne il controllo sotterraneo, in una sorta di reazione del femminile che usa le strutture dominanti per i propri scopi, ma all’interno del sistema. «Sono una Bene Gesserit: esisto solo per servire» dice Lady Jessica nel romanzo, con una formula utilizzata più volte dalle consorelle quasi come un motto, un modo per celare la reale autorità della sorellanza. Servire chi o cosa? L’Impero? La religione definita dalla Bibbia Cattolica Orangista a cui l’ordine fa riferimento? Lo stesso Bene Gesserit? Loro stesse?
Joanna Russ, scrittrice di fantascienza militante nel movimento femminista, nel saggio The Image of Women in Science Fiction (1970) scrive: «In breve, la mascolinità corrisponde al potere e la femminilità all’impotenza: questo è uno stereotipo culturale che può essere trovato in gran parte della letteratura popolare, ma chi scrive fantascienza non ha il diritto di utilizzare stereotipi». Le Bene Gesserit, in qualche modo, rompono questo schema ed è importante sottolineare come il loro esercizio del potere – che rimane un costrutto di stampo patriarcale, in quanto forma di predominio – non è mai rappresentato come un calco di quello maschile, nonostante si ispiri chiaramente a ordini influenti nella storia della chiesa cattolica. Le Bene Gesserit si dimostrano in possesso di abilità, derivate da addestramento mentale e fisico, che sembrano precluse all’universo maschile. Non solo possono utilizzare la famosa Voce, una tecnica che permette di esercitare influenza sulla mente di chi la ascolta, ma hanno anche il pieno controllo del loro corpo e delle loro funzioni riproduttive, tanto da scegliere il momento del concepimento e il genere della propria prole. Quello dell’autonomia del corpo è un tema centrale nel femminismo della seconda ondata, come nota ancora Kara Kennedy. Le Bene Gesserit sono «pienamente in grado di controllare la riproduzione attraverso mezzi naturali e dotate di una serie di abilità che consentono loro di muoversi con sicurezza nel loro universo e di plasmare il futuro. In tal senso, Dune ipotizza un mondo in cui le donne hanno il tipo di controllo corporeo che molte nel mondo reale desideravano» e rende ancora più interessante la rilettura di queste figure uniche nel panorama della fantascienza. In questo contesto, è peculiare che nel primo romanzo i ruoli di genere siano modellati a partire da stereotipi, e poi via via negli altri libri del ciclo questi stereotipi siano sovvertiti e il raggio d’azione del femminile aumenti gradualmente, in contrasto con le norme patriarcali.
«Siamo Bene Gesserit, non speriamo, pianifichiamo» dice la Reverenda Madre Mohiam a Irulan nel bel mezzo di Dune: Parte due, e in questa frase, non presente nel romanzo, Villeneuve riesce a condensare uno degli aspetti fondanti dell’ordine, ossia le modalità con cui ottengono influenza e autorità, escludendo il maschile da ogni aspetto decisionale, anche nel caso di cospirazioni. Acquista allora una certa rilevanza la decisione di mostrarci come Lady Fenring, interpretata da Léa Seydoux, sia incaricata di concepire una figlia con Feyd-Rautha Harkonnen e agisca su dirette istruzioni della Reverenda Madre Mohiam, attraverso ritualità inequivocabilmente Bene Gesserit (riproponendo la tortura della scatola e del Gom Jabbar a cui, nel materiale originale, era sottoposto solo Paul). In particolare, eliminando del tutto ogni riferimento al consorte, il conte Fenring, che nel libro era parte della macchinazione, non solo Villeneuve alleggerisce la narrazione, ma coglie l’occasione, ancora una volta, per sottolineare come il corpo delle Bene Gesserit sia in ogni caso un corpo politico, uno strumento di affermazione, nonostante non sia mai utilizzato in modo sovversivo e femminista, ma al contrario, sia un elemento fondamentale per mantenere saldamente la loro influenza sul sistema. È chiaramente un discorso complesso, perché abbiamo la tendenza a cercare modelli femminili positivi ed emancipati nelle storie di grande rilevanza culturale, come è senza ombra di dubbio Dune, che ha influenzato tutta la fantascienza a venire. Tuttavia, a mio avviso, la grande originalità di questi personaggi è proprio quella di non poter essere categorizzati, rinchiusi in piccole scatole a cui apporre etichette. «Non esistono parti» in Dune, lo dice la stessa Mohiam nel film di Villeneuve. Le Bene Gesserit sono interlocutrici del potere, prendono parte al dialogo e fanno le loro mosse, come in una partita a scacchi, nello stesso modo in cui lo fanno la Gilda spaziale, che nell’universo di Dune gestisce il monopolio dei viaggi interstellari, possibili solo grazie alla spezia melange di Arrakis, gli Harkonnen, gli Atreides e le altre Grandi Case. Le Bene Gesserit sono attrici di spicco in questo scenario, andando a sovvertire ogni tipo di stereotipo sui personaggi femminili nel modo, credo, in cui lo intende Joanna Russ.
Il personaggio di Jessica lo dimostra chiaramente quando sceglie di concepire un figlio primogenito invece di una figlia, contravvenendo a un ordine della Reverenda Madre, nel tentativo di far convivere gli obiettivi del Bene Gesserit con i propri: dare il desiderato erede maschio al duca Leto Atreides, di cui è la concubina ufficiale, e allo stesso tempo portare a compimento il programma genetico generando il Kwisatz Haderach, un maschio Bene Gesserit dai tratti messianici capace di accedere alla memoria collettiva passata, presente e futura. Da questo punto di vista, il personaggio del romanzo e quello dell’adattamento di Villeneuve nel primo film non differiscono né per caratterizzazione né per indole: Rebecca Ferguson mette in scena una versione di Jessica ricca di complessità, profondamente umana, spaventata per le conseguenze delle proprie decisioni, ma consapevole e pronta ad affrontarle. Nel secondo film Jessica subisce una mutazione, e questo avviene prima del rituale di morte e rinascita in cui beve l’Acqua della vita, ossia il veleno dello Shai-Hulud che la trasforma in una Reverenda Madre presso la popolazione Fremen. I dubbi vengono spazzati via nel momento stesso in cui Jessica comprende le potenzialità di Paul, riconosciuto dalla popolazione nativa come Lisan al Gaib, il messia che secondo le antiche profezie, fortemente influenzate dall’azione della Missionaria Protectiva, l’organo di propaganda del Bene Gesserit, trasformerà Arrakis in un Paradiso Verde.
«Jessica era diventata un’altra persona» scrive Herbert nella terza parte del romanzo, e in qualche modo Rebecca Ferguson riesce a tradurre questo concetto in maniera tangibile attraverso la sua interpretazione. Una recitazione che funziona per sottrazione, costruita sui non detti, dove ogni gesto, ma soprattutto ogni sguardo è frutto di un calcolo preciso. In un certo senso, questa nuova Jessica, che ha abbracciato totalmente l’identità di Bene Gesserit e si è trasformata nella stratega che ha come unico scopo quello di servirsi della propaganda per portare a compimento una profezia autoavverante, far riconoscere Paul come messia e fargli riconquistare il potere, risulta un personaggio più distaccato dal suo lato umano e comprensivo rispetto a come è descritta alla fine del libro. Allo stesso tempo, però, sembra molto più in controllo. «Stranamente, Jessica è più sullo sfondo nella seconda parte [del romanzo]: ho pensato che non fosse giusto, è pur sempre l'artefice principale della storia» racconta Villeneuve a Total Film. E in effetti, il suo ruolo nell’adattamento cinematografico rimane preminente fino alla fine, ed è rappresentato non solo nella sua valenza religiosa, ma soprattutto politica.
Questa versione di Jessica sceglie di chiudersi in se stessa, proprio all’interno di quel corpo di cui ha pieno controllo, in costante dialogo con la figlia che porta in grembo, Alia. Il feto, come Jessica, durante la cerimonia di iniziazione ha assunto tutti i ricordi, la sofferenza, la consapevolezza e la conoscenza ancestrale delle Reverende Madri del passato. Villeneuve fa una scelta strana nei confronti della figura di Alia: decide di sviluppare la narrazione prima della sua nascita e di mostrarla già adulta in una visione profetica di Paul, con il volto di Anya Taylor-Joy. Questa soluzione, di fatto, ha effetto sia sulla caratterizzazione del personaggio, sia sull’intreccio stesso e sulla velocità con cui si sviluppano gli eventi. Alia nel libro è presentata come una bambina di due anni che parla e si comporta come un’adulta: un’abominazione sia per le altre donne Fremen sia per la Reverenda Madre Mohiam. Non ha grande spazio nel primo romanzo, dal momento che sarà un personaggio centrale nei libri successivi a cominciare da Messia di Dune, ma è essenziale. Sarà proprio Alia, a quattro anni, durante la battaglia finale di Arrakeen, a uccidere il barone Harkonnen. È comprensibile che dietro alla scelta di Villeneuve ci siano svariati motivi, tra cui la difficoltà nell’inserire in medias res una figura carismatica e centrale, in un film che vede anche l’ingresso di personalità come Irulan e Feyd-Rautha. Inoltre, portare in scena un personaggio disturbante come Alia presenta non poche complessità anche a livello di interpretazione. Tuttavia, rinunciare a questo aspetto nella caratterizzazione di Alia non significa solo privarla della sua origin story, ma ha un effetto anche sulla parabola di Paul, nel libro sviluppata in anni, mentre nel film è compressa in, presumibilmente, pochi mesi. Le grandi narrazioni epiche hanno bisogno di dilatarsi nel tempo e nello spazio per avere respiro. Questo non accade in Dune: Parte due, anche a causa di questa assenza che gli autori provano a trasformare in presenza in fieri, ma senza riuscire a ottenere l’incisività del romanzo.
Come nel caso di Alia, anche la caratterizzazione di Chani, la donna Fremen amata da Paul, portata sullo schermo da Zendaya come nella prima parte, diverge sostanzialmente da quella del materiale originale, ma le motivazioni in questo caso sembrano più consistenti. Nel romanzo, Chani riveste uno dei ruoli più stereotipati: nonostante sia una guerriera è una Sayyadina consacrata, pronta a prendere il posto della Reverenda Madre qualora Jessica non si fosse rivelata all’altezza. Nel rapporto con Paul è invece remissiva, accomodante, accetta ogni decisione. Incarna, in sostanza, un ruolo di cura tradizionale di moglie, pur non essendolo ufficialmente, e madre (di Leto, il figlio che viene ucciso alla fine del romanzo). Tuttavia, il personaggio in parte si oppone a quello stesso stereotipo quando insegna a Paul le usanze Fremen, diventando di fatto la sua mentore. Come Irulan, anche Chani comprende le leggi che dominano i rapporti di forza in questo mondo feudale e accetta, su consiglio della stessa Jessica, di diventare la concubina di Paul, quando lui sceglie di sposare la figlia dell’Imperatore per ragioni politiche. Tuttavia, a differenza di una Bene Gesserit, sembra subire questa decisione. Herbert, purtroppo, fatica a restituire il suo sguardo, a dare a Chani una propria voce, perché si tratta di un personaggio in qualche modo estraneo alle lotte di potere, anche se ne paga le conseguenze. In Dune: Parte due Chani assume invece un ruolo centrale.
Prima scrivevo che in Dune “non ci sono parti”. Non ci sono perché questa storia certamente monumentale – che a volte assume la forma di un trattato di filosofia, di psicologia, di religione e di ecologia – è contraddistinta da un certo distacco analitico. Herbert osserva come tutte le forme di potere siano connesse alla sofferenza umana, ma con questa indagine talvolta si tiene a distanza proprio da quelle emozioni per scelta. C’è una frase nel romanzo che descrive l’ecologia come la «comprensione delle conseguenze»: ecco, in un certo senso questo stesso concetto può essere applicato a Dune, perché se l’ecologia è lo studio delle interazioni tra gli organismi e il loro ambiente, quello di Herbert è un chiaro tentativo di tracciare un’ecologia umana. Questo, ancora una volta, non è un giudizio qualitativo dell’opera di Herbert, che peraltro costituisce solo l’inizio di un lungo ciclo che si sviluppa in direzioni diverse, ma si tratta forse di un’impostazione non adatta al mezzo cinematografico e soprattutto al pubblico contemporaneo, che ha bisogno di un punto di vista da comprendere o condividere. Villeneuve affida a Chani il compito di portare questa narrazione nella contemporaneità, fornendoci allo stesso tempo una chiave di lettura capace di rivelare la vera natura della riflessione di Herbert sul potere. È proprio Chani, che in questa incarnazione taglia ogni connessione con la religione e le Sayyadina e viene identificata esclusivamente come guerriera Fedaykin, a sottolineare quanto la profezia del Lisan al Gaib sia legata alla propaganda religiosa e costituisca, in sostanza, uno strumento di controllo di stampo coloniale sui popoli. Nonostante il sentimento che la lega a Paul, quella di Chani è una voce dissidente che guarda con preoccupazione al fanatismo crescente intorno alla figura del Lisan al Gaib. Dimostra, così, di raccogliere le preoccupazioni di Herbert verso il pericolo che si cela nell’ascesa di leader carismatici e figure messianiche e, in un certo senso, anticipa alcuni temi che l’autore sviluppa in maniera più chiara in Messia di Dune, il secondo romanzo che, in modo retroattivo, è capace di far emergere la complessità etica e filosofica del primo libro. Chani, in Dune: Parte due diventa quindi il contraltare di Paul. Attraverso il suo sguardo, che è sia interno sia esterno, perché porta il nostro dentro il racconto, ci permette di unire in un solo spazio, quello filmico, il passato, presente e futuro di questa narrazione dalla portata mitica, quindi malleabile e permeabile. CRISTINA RESA
Una delle pessime scelte degli studios durante gli anni pandemici è stata quella di “gettare in pasto” allo streaming alcuni dei film più attesi, e pensati per il grande schermo: è successo anche al primo capitolo di Dune (che nel 2021 venne distribuito contemporaneamente in sala e sulla piattaforma HBO Max), ma anche, per cambiare completamente genere, ad alcuni lungometraggi Pixar, pubblicati direttamente su Disney+. Ora, però, tornano in sala, a cominciare dal nostro amatissimo Red, primo film Pixar unicamente diretto da una regista, Domee Shi. Vi invitiamo a rivederlo su grande schermo, da domani, e vi riproponiamo la nostra recensione, pubblicata su Film Tv n° 10/2022.
Red
La frase, lanciata tra urla di frustrazione o singhiozzi di disperazione, ha risuonato almeno una volta in qualsiasi casa abbia ospitato un’adolescente: «Sono un mostro!». Meilin “Mei” Lee può invocarla in senso letterale: una mattina, dopo una notte di sonno agitato, si sveglia ed è un gigantesco panda minore. La sua testa sfiora il soffitto, il corpaccione azzoppa il letto, la coda pelosa rovescia suppellettili a ogni passo, le ascelle emanano un odore disgustoso. È successo, prima di lei, a tutte le donne della sua famiglia, di origini cinesi e stabilitasi a Toronto: al raggiungimento della pubertà, ogni forte emozione - rabbia, paura, ansia, ma anche felicità e, soprattutto, eccitazione - fa scattare la soffice ma ingombrante metamorfosi. È il 2002, Mei ha appena compiuto 13 anni ed è diventata un’“adulta” (lo dice il suo abbonamento ai mezzi pubblici!), deve già gestire la propria (eccellente) carriera scolastica, il piccolo tempio di famiglia (dedicato, guarda caso, al panda rosso), un Tamagotchi (!), le mille insidie della vita sociale e l’incontenibile passione per la boyband 4*Town che condivide con le sue tre migliori amiche… C’è un modo di domare la bestia, certo, ma - la domanda è ovvia quanto essenziale - ne vale la pena? La madre di Mei (iper apprensiva e inflessibile, abituata a scaricarle addosso in egual misura aspettative inarrivabili e diaboliche buone intenzioni), prima di scorgerne il manto fulvo e le orecchie appuntite, pensa che la ragazzina abbia avuto le prime mestruazioni, e la metafora è infatti cristallina, fin dal titolo; ma il menarca è solo uno dei tanti riti di passaggio della pubertà, che per chi la vive ha spesso le forme di emozioni incomprensibili e travolgenti, di una totale perdita di controllo e di una mutazione fisica molto più fastidiosa che allettante. Il primo lungometraggio Pixar diretto da una regista in solitaria (con più di un punto di contatto con Ribelle - The Brave, dalla chioma ramata della protagonista alla trasfigurazione animalesca al rapporto madre-figlia), firmato da Domee Shi (premio Oscar per il corto Bao, che di Red già contiene i semi), adotta senza remore né snobismi il punto di vista di una ragazzina di 13 anni, restituendone l’altalena emotiva, e dunque anche gli istanti di gioia totale, oltre alle angosce, e perfino i primi confusi turbamenti ormonali (probabilmente un unicum nell’asessuata produzione Disney/Pixar). Per questo, in quella che è anche una storia d’immigrazione e di seconde generazioni, ha l’audacia di sommare tradizioni ancestrali a una delle forme d’intrattenimento più vituperate di sempre, il teen pop (le canzoni sono di Billie Eilish e Finneas). L’ispirazione autobiografica (e dunque l’ambientazione a inizio millennio) evita con autenticità la trappola giovanilistica d’inseguire mode subito passate, e sperimenta con l’animazione, trovando un’altra fusione, quella tra la tridimensionalità digitale della Pixar e l’espressività esagerata e “bidimensionale” di manga e anime. Cercando, come Mei, una sintesi che regali a una formula collaudata un nuovo sguardo, e nuova linfa. ALICE CUCCHETTI
Dopodomani è l’8 marzo, la Giornata internazionale per i diritti delle donne. Vi invitiamo a celebrarla unendovi ai cortei organizzati in tutta Italia da Non una di meno (l’appuntamento a Milano, per esempio, è alle 18.30 in piazza Duca d’Aosta), e anche a rileggere la newsletter speciale che abbiamo pubblicato un anno fa, raccogliendo i consigli e i contributi di cinquanta voci femminili, tra colleghe critiche, studiose e giornaliste.
A Parma, dal 10 marzo al 14 aprile, si svolge la seconda edizione di FilmmakHER, progetto ideato per promuovere la cinematografia femminile, e che comprende 24 ritratti di registe realizzati da otto artiste. A Napoli, l’8 marzo, un appuntamento speciale di AstraDoc prevede la proiezione di Seven Winters in Teheran e Lala. L'8 marzo, inoltre, l'esordio alla regia di Paola Cortellesi C'è ancora domani torna in sala, in 150 cinema.
Per esplorare la storia delle donne del cinema, vi consigliamo di seguire il progetto britannico Invisible Women: un’iniziativa di archivio attivista che comprende una newsletter, un blog e diverse iniziative organizzate in collaborazione con festival ed enti europei. A marzo, per esempio, è in corso con il Glasgow Film Festival una rassegna su Dolores del Río.