Singolare, femminile ♀ #117: Not Another Teen Movie
Nascita di un cult: Bottoms, diretto da Emma Seligman e interpretato da Rachel Sennott e Ayo Edebiri, è arrivato anche in Italia su Prime Video. Una delle migliori commedie recenti, capace di sovvertire e satireggiare le convenzioni del teen movie (e il patriarcato) con scorrettezza appuntita ed esilarante.
“Gender swap” significa “sostituzione di genere” ed esiste da che esistono i remake (un esempio di ottant’anni fa è La signora del venerdì di Howard Hawks): cambiare il genere di uno o più personaggi è uno dei molti modi con cui si può scegliere di ri-raccontare una vecchia storia infilandola in un abito nuovo. Qualche volta, è solo maquillage: applicato per nascondere le crepe di un “giocattolo” troppo usato, con il bonus rassicurante e fintamente progressista del pinkwashing. Anzi, si potrebbe dire che, in casi come questi, il gender swap è letteralmente pinkwashing: una “verniciatura rosa” che resta in superficie, senza nemmeno provare a suggerire un cambiamento sincero e profondo.
Altre volte, però, mescolare le carte del genere nei generi cinematografici può produrre l’esaltante effetto di un cambio di prospettiva. E, incidentalmente, essere molto, molto divertente. Come nel caso di Bottoms, che per noi è, semplicemente, la commedia dell’anno. Uscita la scorsa estate negli Stati Uniti guadagnandosi, nonostante la distribuzione limitata, un immediato seguito di culto, è finalmente arrivata anche in Italia, su Prime Video. Ambientata in un liceo americano uguale a ogni altro liceo da teen movie e allo stesso tempo ridisegnato con contorni esagerati e satirici, Bottoms ha per protagoniste due ragazze, P.J. e Josie, amiche fin dall’infanzia, appartenenti alla generica e molto ampia categoria delle “sfigate”, ma soprattutto, alla vigilia del diploma, ancora drammaticamente e insormontabilmente vergini. P.J. e Josie sono lesbiche e hanno un unico obiettivo, che condividono con i tantissimi colleghi maschi di una miriade di teen comedy: fare sesso con una cheerleader.
Poco più di un anno fa, in questo numero della newsletter, analizzavamo un preciso sottofilone della commedia adolescenziale americana, la teen black comedy, quei racconti che generalmente si organizzano attorno alle clique scolastiche, alle mean girl capitanate da una terribile queen bee, dal prototipo Schegge di follia al recente Do Revenge, sottolineando come appartenessero a un territorio quasi del tutto femminile, perché al maschile era riservato un altro spazio, quello della teen raunchy comedy. Ovvero di una commedia programmaticamente più “volgare”, scurrile, scorretta, eccessiva, e anche più scopertamente comica, farsesca, perfino grottesca: dagli anni 80 di La rivincita dei nerds, Animal House e Porky’s a, soprattutto, la fine anni 90 e gli anni zero degli American Pie e delle produzioni apatowiane come SuXbad – Tre menti sopra il pelo. I protagonisti di queste storie sono invariabilmente giovani maschi, ripieni di ormoni e di idee sceme (come, in effetti, parecchi adolescenti fuori dallo schermo): varie sfumature di nerd con il sesso come unico chiodo fisso, laddove invece le giovani (anti)eroine delle teen black comedy puntano più a raggiungere la vetta della popolarità e della piramide sociale. Ma già il maestro John Hughes, colui che ha formalizzato e canonizzato il film per adolescenti durante gli anni 80, in alcuni suoi titoli mescolava i due sottofiloni: nel capostipite Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare, per esempio, il coming of age romantico della protagonista Sam è intervallato dal plot secondario e più direttamente comico del nerd Ted che ci prova goffamente con lei (per entrambi, Hughes prevede “un lieto fine” con, rispettivamente, il bello e la bella della scuola, anche se quest’ultima è problematicamente – per usare un eufemismo – inizialmente troppo ubriaca per accorgersene).
In Bottoms ad avere il sesso e la “perdita della verginità” come unico pensiero, e a mettere in atto impacciati ed elaborati escamotage per ottenere i propri scopi, sono invece due ragazze. Non è la prima volta, naturalmente, che la raunchy comedy si addentra in territori femminili, già nel 2019 per esempio era stato molto apprezzato l’esordio da regista di Olivia Wilde Booksmart (in italiano distribuito come La rivincita delle sfigate, evidentemente per evocare in maniera esplicita La rivincita dei nerds, anche se la traduzione più corretta sarebbe stata “Secchione”); e hanno avuto grande successo titoli non teen come Bridesmaids, Girls Trip e Bad Moms. Eppure Bottoms, concepito dalle sue autrici proprio come teen comedy queer, maneggia sia il suo specifico sottogenere sia le conseguenze dell'implicito gender swap con una sicurezza e, insieme, una leggerezza comica strepitose. Anche perché, pur non rifuggendo dalla propria discendenza cinematografica, e anzi omaggiando i propri riferimenti e citazioni, più che l’ennesima variazione su un tema arcinoto sembra già la prima tappa di un sentiero nuovo (ovviamente solo il tempo e il futuro potranno dirci se è vero).
È difficile restituire a parole il precisissimo tono tra reale e surreale in cui si muove Bottoms. Le sue protagoniste, P.J. e Josie, potrebbero essere il corrispettivo di Jonah Hill e Michael Cera in SuXbad, loquace, spericolata e imbarazzante la prima, più timida, nevrotica e perennemente imbarazzata la seconda. Una caratteristica, più volte sensatamente criticata dalle analisi femministe, delle teen raunchy comedy è che i personaggi principali ci vengono presentati come sfortunati e teneri outsider per cui fare automaticamente il tifo, quando appartengono allo stesso approccio patriarcale e (nemmeno troppo) velatamente misogino dei nerboruti giocatori di football che dominano la piramide sociale scolastica, e anzi non potendo – pensano – conquistare le ragazze grazie al proprio fascino mettono in atto stratagemmi che frequentemente se ne fregano dell’idea di consenso reciproco. Ecco, anche Josie e P.J. sono così: la linea del consenso non viene mai superata (anzi), ma le due protagoniste ribadiscono più e più volte il loro interesse solo verso le ragazze canonicamente attraenti, e solo ed esclusivamente per il loro aspetto fisico. Danno vita al loro fight club femminile – ufficialmente: “gruppo extracurriculare di autodifesa” – perché darà loro l’occasione di avvicinarsi fisicamente alle cheerleader, di toccarle e farsi toccare, di far scorrere un’adrenalina che potrebbe tradursi in desiderio; quando aggiungono agli incontri un elemento di autocoscienza, di condivisione collettiva dei propri problemi e delle proprie paure, lo fanno perché «niente ti rende più arrapato che parlare dei tuoi traumi! Dopo ogni sessione di terapia ho sempre voglia di masturbarmi tantissimo!».
Insomma, P.J. e Josie non sono delle “brave persone”, e la cosa è rimarcata anche dal loro continuo bullizzare l’amica Hazel, che, nonostante la sua perniciosa predisposizione a prendere alla lettera qualsiasi cosa le venga detta (l’attrito con l’irrinunciabile sarcasmo di P.J. è… esplosivo), è in fondo il vero cuore del gruppo, e del film: è lei che nella pratica organizza il fight club, lo tiene unito, fa tutto il lavoro necessario, e per i motivi “giusti”. Un altro film l’avrebbe presa forse come protagonista, anche perché ai personaggi femminili urticanti e sgradevoli c’è ancora una grande resistenza: essere degli “adorabili stronzi” è uno di quei privilegi che è ancora concesso molto più spesso ai maschi. Invece, P.J. e Josie sono proprio questo, delle adorabili stronze, e infilano errori su errori, una scelta discutibile quando non direttamente imperdonabile dopo l’altra (sono anche però personaggi femminili a cui è consentito di essere in piena tempesta ormonale, di esprimere il proprio desiderio sessuale, quando la maggioranza delle donne sullo schermo sembra avere solo interessi sentimentali). Il loro piano per andare a letto con le cheerleader diventa così naturalmente l’efficace rappresentazione di un empowerment di pura facciata: loro stesse utilizzano formule del femminismo («c’è una grande mancanza di solidarietà femminile in questa scuola!») per perpetuare in realtà la solita formula di conquista («pensavo che questo gruppo fosse una questione di sorellanza e invece lo stavate usando per i vostri egoistici scopi… è il femminismo della seconda ondata, ancora una volta!» urla una compagna quando scopre la verità). Allo stesso tempo, però, quelle stesse formule, per quanto messe in pratica per obiettivi personali, cominciano comunque a funzionare: le ragazze si conoscono e fanno gruppo, si sentono sempre più sicure, trovano uno sfogo anche fisico per la propria energia, scoprono di essere meno fisicamente fragili di quel che si aspettavano (come già in Fight Club di Fincher, ovviamente citato, i lividi e le cicatrici diventano il segno ambivalente di una nuova forza e di un riconoscimento condiviso).
La parabola di P.J. e Josie è però inserita in un contesto, come si diceva, volutamente esagerato, survoltato (e anche volutamente “fuori dal tempo” pur schivando ogni trappola nostalgica), che parodizza sia le consuetudini delle teen comedy (un esempio sta in un gag minuscolo ma esilarante: la campanella di fine lezione che suona dopo pochissimi minuti dall’inizio) sia il sessismo che pervade l’ordine scolastico costituito, riflesso di quello sociale del mondo esterno. La squadra di football iper mascolinizzata (ma allo stesso tempo imbevuta di sottotesti omoerotici: vedi la mascotte con l’enorme pene), capitanata dal quarterback Jeff (una strepitosa e impeccabile versione teen del Ken protagonista di Barbie di Greta Gerwig), è il centro attorno a cui s’organizza ogni attività scolastica, i giocatori innalzati al rango di divinità (la Creazione di Adamo dipinta alle loro spalle in mensa) e tenuti costantemente al centro dell’attenzione, l’atteso scontro con il team di un liceo rivale come evento collettivo cruciale e definitivo. E nei comportamenti di due personaggi maschili il film riassume con implacabile efficacia alcune dinamiche reali con cui il patriarcato rinforza il proprio potere e controllo. Tim, l’amico e spalla di Jeff, non solo si preoccupa subito di “soffocare” un progetto femminile che potrebbe anche solo per un istante distogliere l’attenzione dal protagonismo maschile (e, chissà, rovesciare le gerarchie?), ma lo fa con subdola perfidia, approfittando delle divisioni interne al fight club e soprattutto ponendo una delle ragazze in una situazione impossibile per umiliarla pubblicamente e “smascherare” una presunta impossibile uguaglianza. Il professore Mr. G. invece attraversa tutto lo spettro del ruolo dell’alleato («il mio tipo di alleato preferito» dice Josie, «dici che farai una cosa ma poi… non la fai!»): si esalta nel sostenere il femminismo empowering e le “donne con le palle”, ma è immediatamente pronto a condannare ogni singola esponente del genere femminile come “il diavolo” appena qualcuna tra loro si rivela un essere umano fallato e non un esempio immacolato di perfezione.
Le autrici di Bottoms sono tre giovani donne nate nel 1995, tutte dunque sul confine tra le generazioni Z e millennial. La regista canadese Emma Seligman, è all’opera seconda dopo l’acclamato Shiva Baby (in Italia lo trovate su MUBI), espansione a lungometraggio del suo cortometraggio di diploma alla New York University. Proprio realizzando il corto alla base di Shiva Baby ha conosciuto Rachel Sennott, che sarebbe poi stata la protagonista anche del lungo: anche lei studentessa alla N.Y.U., già ai tempi dell’università era molto attiva nel circuito della stand-up comedy nelle serate open mic (e oggi, dopo gli apprezzamenti raccolti da Shiva Baby, è un’attrice in ascesa: l’abbiamo vista, per esempio, nello slasher Bodies Bodies Bodies e nella controversa serie The Idol). Di Bottoms Sennott, oltre che protagonista nei panni (all’olandese…) di P.J., è co-sceneggiatrice insieme a Seligman: le due, diventate subito amiche, hanno cominciato a lavorare al copione prima ancora di realizzare la versione lungometraggio di Shiva Baby. L’idea base è stata di Seligman (fare una teen raunchy comedy come quelle che amava da ragazzina, ma con protagoniste queer), mentre Sennott ci ha messo l’impulso organizzativo, programmando lunghissime sessioni settimanali di scrittura in caffè newyorkesi. Sennott, inoltre, sempre tra i compagni d’università dell’N.Y.U., aveva nel frattempo stretto amicizia con Ayo Edebiri, che inizialmente studiava sceneggiatura ma aveva cominciato pure lei a sperimentare con l’improvvisazione comica e lo stand-up, e che Seligman ha subito trovato perfetta per la parte di Josie. L’amicizia tra Sennott e Edebiri, mentre la lunga gestazione di Bottoms proseguiva, ha portato anche alla realizzazione di una brevissima sketch series per Comedy Central, Ayo and Rachel Are Single, che già dimostra l’intesa e le scintille comiche con cui le due attrici illuminano il film di Seligman.
Anche se non è direttamente accreditata come co-sceneggiatrice, Edebiri (balzata alla fama grazie al meraviglioso ruolo di Sydney in The Bear, il 2023 è indiscutibilmente il suo anno, tra apparizioni, come doppiatrice o interprete, in una moltitudine di progetti, dalla commedia Theater Camp agli animati Spider-Man: Across the Spider-Verse e Tartarughe Ninja: Caos mutante alle serie Black Mirror e Abbott Elementary) si può considerare senza dubbi co-autrice di Bottoms, che è stato realizzato attraverso una compresenza di pianificazione di scrittura e improvvisazione, come dimostrano i tanti divertenti alternate take che scorrono sui titoli di coda. Aggiunge ammirazione ad ammirazione, per esempio, scoprire che alcuni dei monologhi dell’iper nevrotica Josie sono stati improvvisati da Edebiri sul set (è il caso del crescendo tragico con cui, all’inizio del film, la ragazza immagina il suo desolante futuro di closeted gay costretta per sempre in un matrimonio infelice. Vi consigliamo caldamente di cercare i suoi stand-up). Anche il giocatore di football Marshawn Lynch, l’interprete di Mr. G., rivela un talento comico del tutto inaspettato, lasciato fiorire grazie alla libertà dell’improvvisazione e alle sperimentazioni sul set. Eppure, nonostante questa gestione delle riprese vagamente anarchica (un’anarchia che filtra piacevolmente nel tono del film), a colpire di Bottoms è anche l’impressionante consapevolezza e inventiva con cui Seligman controlla e manipola gli archetipi del genere e i tempi della commedia, aderendovi quando necessario e sovvertendoli quando serve.
A livello strutturale, infatti, Bottoms non si discosta dall’evoluzione in tre atti del tipico plot da high school movie, con l’ascesa, la caduta e poi la redenzione, e Seligman fa largo uso di montaggi musicali ed efficaci needle drop (l’inserimento di un brano pop molto famoso in colonna sonora: in questo caso ce ne sono almeno due, Complicated di Avril Lavigne e Total Eclipse of the Heart di Bonnie Tyler) accanto all’esaltante soundtrack elettronica firmata da Charli XCX e Leo Birenberg. Nello stesso tempo, però (seguendo tra le altre la strada di Lena Dunham e Joey Soloway, autorə che non a caso Seligman indica come sue principali fonti di ispirazione generali) li rinvigorisce prendendo strade surreali, a volte audacissime (è anche un film pieno di sangue, pugni, esplosioni e… beh, sì, anche uccisioni, ma «non è il caso di preoccuparsene adesso»), e facendo infine corrispondere il coming of age delle sue protagoniste a una presa di coscienza («avresti potuto semplicemente parlarmi» chiosa la cheerleader Isabel, nel finale) che trova la propria forza nel gruppo, scansando ogni moralismo. Più di tutto, Bottoms è un trionfo perché al primo posto mette le ragioni della commedia e della comicità, e lascia che il proprio intento rivoluzionario si origini proprio dalle potenzialità sovversive del linguaggio comico. Insomma: Bottoms è estremamente divertente, infinitamente “citabile”, straordinariamente “riguardabile”. Naturalmente dovremo aspettare almeno qualche anno per sapere se è vero, ma la sensazione di aver assistito a un punto di svolta generazionale resta: è proprio così che nasce un cult movie. ALICE CUCCHETTI
Nel 2021 il primo film di Emma Seligman, Shiva Baby, con protagonista Rachel Sennott, è stato distribuito anche in Italia su MUBI. Maria Sole Colombo ha intervistato la regista: vi riproponiamo la loro chiacchierata, originariamente pubblicata sul n. 29/2021 di Film Tv.
Sugar Free - Intervista a Emma Seligman
Una millennial bisessuale e incasinata si ritrova a una shiva - la cerimonia funebre del rituale ebraico - con la ex del liceo, lo sugar daddy e uno stuolo di parenti impiccioni. Pare l’apertura di una barzelletta, e invece è la premessa narrativa da cui muove uno degli esordi più sorprendenti dell’anno: è Shiva Baby della giovanissima canadese Emma Seligman, che cuce il suo atto unico addosso alla stand-up comedian Rachel Sennott. Abbiamo incontrato la regista del film.
Shiva Baby è ambientato in una sola casa e nel corso di un solo pomeriggio, eppure non dà mai un’impressione di staticità: ha i dialoghi di una screwball e la fotografia di un horror. Come hai raggiunto questo equilibrio? Hai avuto alcuni riferimenti particolari?
Effettivamente mi preoccupavo che potesse risultare noioso o monotono. Quando l’ho scritto avevo in mente alcune rom com ebraiche tipo Tentazioni d’amore, Kissing Jessica Stein, Dall’altro lato della strada... Film che ho amato moltissimo, ma non volevo che Shiva Baby si confondesse tra la folla, che fosse una delle tante commedie romantiche. Sapevo che lo humour c’era, non ero preoccupata di questo, ma mi interessava che ci fosse anche un lato più dark, come in A Single Man o Transparent, una serie che parla di persone traumatizzate e incasinatissime e che comunque riesce a far morire dal ridere. Il lato più thriller invece è arrivato ispirandomi a cose come La sera della prima, e sforzandomi di filtrare tutto il film attraverso gli occhi della protagonista, Danielle. Quando lei prova angoscia, la trasmette alla mdp e all’ambiente.
Shiva Baby ha un andamento sincopato, jazzistico, molto coinvolgente. Come l’hai ottenuto?
Soprattutto attraverso i dialoghi: per me la sfida più importante nella fase di scrittura è stata dare una struttura narrativa al film o definire alcuni personaggi in modo coerente e credibile, mentre stendere i dialoghi mi è sempre risultato molto naturale... Anzi, a volte dovevo darmi un freno perché ci prendevo gusto, scrivevo pagine e pagine ma poi mi accorgevo che erano scene che non portavano a nulla. D’altronde avevo come riferimento una sequela di eventi e cerimonie come la shiva del film a cui sono stata costretta a partecipare da piccola. Detto questo, già sul set sapevo di volere un ritmo veloce, ma in fase di ripresa per motivi tecnici non puoi far recitare le battute una sopra l’altra. Il grosso del lavoro quindi l’ho fatto in sala di montaggio con Hanna Park: abbiamo prosciugato i tempi, eliminato tutte le pause e fatto sovrapporre in più occasioni le voci dei vari personaggi.
E poi c’è la colonna sonora fatta di archi pizzicati, striduli, nervosissimi... Quasi un controcanto.
Pensa che all’inizio non ce la volevo nemmeno mettere, la musica! Poi ho cominciato a lavorare con Ariel Marx: anche per lei era un po’ una prima volta, visto che non aveva mai curato da sola un’intera colonna sonora. Per farle capire cosa avevo in mente le ho mandato una copia di Krisha - che tra l’altro, come Shiva Baby, è un’opera prima che si svolge tutta in un unico ambiente - e lei mi ha fatto alcune proposte. Abbiamo lavorato un po’ per tentativi, partendo dal presupposto che la musica doveva essere ansiogena. In generale l’abbiamo concepita un po’ come un’altra voce, un personaggio che nei momenti più tesi interviene mettendo degli ulteriori accenti.
Rachel Sennott è fantastica nel film, e alcuni suoi tweet e monologhi comici mi hanno ricordato Danielle, come se il personaggio fosse un po’ anche suo. È così?
Non saprei... Shiva Baby è nato come cortometraggio, il mio saggio di diploma alla New York University. Rachel recitava già nel corto e siamo diventate molto amiche, così quando abbiamo deciso di trasformarlo in un lungometraggio siamo state in costante contatto, io le mandavo continuamente le bozze del copione e lei mi rispondeva con i suoi appunti. È successa una cosa bizzarra però: quando ho scritto il corto mi sentivo molto vicina al personaggio di Danielle, alle sue ansie... Shiva Baby non si basa su una specifica esperienza autobiografica, non sono mai stata una sex worker al college per esempio, ma avere uno sugar daddy era comunissimo alla NYU, e sentivo molto mie le paure di Danielle, per esempio le sue incertezze sul futuro, il suo senso di smarrimento. Finito il corto però ho cominciato a prendere distanza dal personaggio. Per Rachel, che è un anno più piccola di me, è stato l’opposto: mentre io mi allontanavo da Danielle, lei diceva di capirla sempre di più. Quindi forse sì, anche se in maniera molto graduale è come se avessi “ceduto” il personaggio a Rachel, che in un certo senso l’ha fatto suo.
Danielle è bisessuale, è una sex worker, soffre (forse?) di disturbi alimentari... Tutti questi temi si intrecciano in maniera molto naturale, ma non avevi timore di mettere troppa carne al fuoco?
Sono tutte urgenze che mi stanno a cuore, più che altro ero preoccupata che emergessero in maniera troppo schematica: se c’è una cosa che odio sono quelle battute espositive, o quegli “spiegoni” che suonano posticci che si usano a volte per spiegare il passato di un personaggio. E poi in fin dei conti tutti questi temi, secondo me, fanno parte di un’unica grande questione che è il non sapere chi si è, o cosa fare della propria vita. Infatti vorrei che nel film potessero immedesimarsi tutti, non solo le persone ebree, bisessuali, o che soffrono di disturbi alimentari... Insomma, il punto fondamentale per me era capire che percorso stava facendo Danielle, e in che direzione stava andando il suo coming of age.
Mi è piaciuta molto la riflessione che Shiva Baby porta avanti sull’idea di “donna imprenditrice” incarnata dal personaggio di Kim, una business woman apparentemente perfetta, che sembra lì solo per far sentire Danielle inadeguata: ho l’impressione che “donna imprenditrice” sia un’etichetta che prende in prestito alcuni elementi femministi, annacquandoli, solo per veicolare i soliti vecchi valori per cui vali solo se hai successo in campo economico.
In America, a partire dalla campagna elettorale di Hillary Clinton, si è teso a glorificare questa figura della “girlboss”: il che è una figata se ti interessa fare quel tipo di percorso, ma è dannoso per chi invece non aspira a quel tipo di vita, o semplicemente non è nelle condizioni di poter raggiungere quegli obiettivi. E comunque sì, volevo che il personaggio di Kim fosse un po’ l’antitesi di Danielle, perché sa esattamente cosa vuole, e riesce a stare dietro contemporaneamente alla famiglia e alla carriera. Ma il punto è che pure lei viene tradita dal marito, quindi a quanto pare puoi anche essere la donna perfetta, e comunque non sarai abbastanza.
E infatti nel film risulta molto evidente come il sesso, anche quando è vissuto liberamente e positivamente, non è mai solo sesso: è anche una questione di potere.
Ecco, sì, alla fine era un po’ questo il nocciolo del film. Prima di cominciare a girare io e Rachel abbiamo riletto il copione, soffermandoci scena per scena e chiedendoci ogni volta: qual è l’equilibrio di potere qui? Alla fine Shiva Baby è la storia di una persona convinta di esercitare potere tramite il suo sex appeal, che nel corso di un pomeriggio si rende conto che questo potere non esiste, o meglio esiste solo in una rete di altri legami e altre forze in campo. MARIA SOLE COLOMBO
Dopo le partecipatissime manifestazioni dello scorso 25 novembre, segnaliamo su L’Essenziale due interessanti riflessioni: Annalisa Camilli prova a spiegare le specificità dell’uccisione di Giulia Cecchettin, Donata Columbro spiega come vengono raccolti i dati sui femminicidi.
Sul canale YouTube di Okta Film da qualche mese è stata aperta la sezione Prove d’ascolto, in cui sono visibili gratuitamente conversazioni con le pensatrici bell hooks e Silvia Federici.
Venerdì 1° dicembre a Napoli, all’Institut français Le Grenoble, ci sarà un incontro gratuito con la regista Claire Simon, che presenterà in anteprima il suo documentario Notre corps, nell’ambito della rassegna Europa – Cinema al femminile.
Singolare, femminile la prossima settimana è in pausa. Ci vediamo il 13 dicembre!