Singolare, femminile ♀ #114: Le vite (in)visibili
In poco più di una settimana di programmazione, C’è ancora domani di Paola Cortellesi ha superato il milione di spettatori ed è diventato il film italiano più visto dell’anno. Un’opera femminista, che dialoga con altri titoli cinematografici e televisivi, anche dall’apparenza diversissima, come Barbie e Lezioni di chimica.
«Bambini, apparecchiate la tavola: vostra madre ha bisogno di un momento per sé». È per questa frase tormentone, pronunciata alla fine di ogni puntata, che, tra le altre cose, diventa famosa Elizabeth Zott, conduttrice di Cena alle sei, un programma di cucina degli anni 50. È la protagonista di Lezioni di chimica, un recentissimo bestseller di Bonnie Garmus (è uscito nel 2022, in Italia è edito da Rizzoli) e un’omonima serie tv, in questi giorni in onda su Apple TV+ (si concluderà il 24 novembre). Elizabeth Zott, in realtà, è una scienziata, una chimica entusiasta e geniale, con un ambizioso e avveniristico progetto di ricerca sull’abiogenesi nel cassetto. Perché il suo nome non sta in cima a prestigiosi articoli accademici ma sopra al titolo di un cooking show? Per via della sua condizione di donna: un percorso accidentato l’ha allontanata dal laboratorio, costellato in parte di specifiche sfortune personali, in parte determinato da una discriminazione talmente sistemica da non esser neppure percepita come tale – non da chi la circonda, almeno: Elizabeth è ben cosciente sia delle ingiustizie subite, sia del fatto che sono conseguenza dal suo genere d’appartenenza.
«Bambini, apparecchiate la tavola: vostra madre ha bisogno di un momento per sé» è una frase che la Delia di Paola Cortellesi, protagonista di C’è ancora domani, madre e moglie che impiega ogni secondo di veglia a lavorare per la casa e la famiglia, costantemente abusata e picchiata dal marito, non ha mai sentito pronunciare, e con lei nessuna delle donne che la circondano, nella Roma dell’immediato Dopoguerra; men che meno potrebbe sognarsi di dirla. Probabilmente le suonerebbe aliena come un linguaggio extraterrestre.
A prima vista – non ultimo, proprio per impatto estetico-cromatico – non parrebbero esserci titoli più distanti di Lezioni di chimica e C’è ancora ancora domani, il film con cui Paola Cortellesi ha esordito alla regia, presentato all’ultima Festa del cinema di Roma, e in sala dallo scorso 26 ottobre con un successo che ha stupito molti addetti ai lavori: in poco più di una settimana di programmazione, ha superato il milione di spettatori e i sette milioni di euro di incassi, ed è già il film italiano più visto dell’anno. Lezioni di chimica è una serie tv statunitense, produzione curata ed elegantemente colorata, ricostruzione filologico-nostalgica di anni 50 idilliaci non certo nei fatti, ma decisamente nell’aspetto, tra gonne a ruota e melodie jazz in sottofondo; C’è ancora domani guarda al neorealismo e alla commedia italiana del Dopoguerra, è in bianco e nero, spesso insegue l’essenziale nelle sue scenografie, inquadrature, movenze di macchina. Anche le protagoniste dei due film, Elizabeth e Delia, non potrebbero sembrare più diverse: colta, determinata, volitiva la prima, sicura di sé fino a sfiorare il limite della saccenza, più che consapevole della totalità dei propri punti di forza (Brie Larson la incarna con una determinazione che è probabilmente anche frutto delle sue esperienze personali, dopo una manciata di anni a esser presa di mira quotidianamente dalla parte misogina del fandom Marvel); poco istruita, remissiva, timida la seconda, da tempo adattatasi a una vita di soprusi e di rassegnazione, dominata da un marito violento e priva del rispetto di chicchessia (a interpretarla è la stessa Paola Cortellesi). C’è ancora domani si svolge una manciata di anni prima di Lezioni di chimica, e a un oceano di distanza – eppure, potrebbero essere parte entrambi di uno stesso discorso, e percorso.
Né Elizabeth né Delia sono esistite davvero, nel senso che non sono personaggi storici, Lezioni di chimica e C’è ancora domani non sono racconti biografici. Eppure, certo che sono esistite: invisibili, per decenni e decenni, nella sfera pubblica, nel discorso collettivo, e nella loro rappresentazione. Elizabeth, come tantissime donne nella scienza, è invisibile per i suoi colleghi di laboratorio, tutti maschi, nemmeno mai sfiorati dall’idea che quella ragazza bionda in camice bianco sia lì a fare altro che a preparare loro il caffè. Con quest’invisibilità, la donna coltiva un rapporto ambivalente: da un lato sembra avere una personalità per inclinazione solitaria e autarchica, e ha imparato a sfruttare a proprio vantaggio la sottovalutazione altrui; dall’altro, naturalmente, la continua svalutazione e, presto, l’attivo ostruzionismo nei suoi confronti portato avanti da colleghi e capi impediscono la prosecuzione del suo lavoro, privandola sia della possibilità di realizzazione personale sia di un mezzo di sostentamento (e il resto dell’umanità di probabili importanti scoperte scientifiche). Delia è invisibile per quasi tutti, se non quando compie un “errore”, se non quando si rende visibile suo malgrado: quando dice una parola “sbagliata”, quando fa cadere un piatto, quando accetta la cioccolata di un soldato americano per strada, talvolta anche solo quando respira in modo “scorretto”. Si affanna ai bordi delle vite degli altri (il marito, il suocero, la figlia adolescente, i figli più piccoli, i vari datori di lavoro), in un ruolo di servitù dato da tutti per scontato e naturale, e sembra assumere una forma solida solo quando qualcuno ritiene di doverla punire, insultare, aggredire, colpire. «È una brava donna, in fondo» dice di lei il padre del marito. «Ha solo il difetto di non saper stare zitta».
Sono entrambe, Lezioni di chimica e C’è ancora domani, due opere femministe. Limpidamente, dichiaratamente – didascalicamente, si potrebbe dire, anche se forse l’aggettivo più corretto da usare sarebbe “didattico”. Non è un caso se C’è ancora domani, anche in conseguenza del suo notevole successo al botteghino, venga accostato spesso a Barbie di Greta Gerwig (nonostante, curiosamente, per cromie e collocazione storica, potrebbe quasi essere la metà di un altro Barbenheimer): come il film di Greta Gerwig (che pure è un’autrice-attrice), anche quello di Cortellesi si propone di utilizzare gli strumenti della commedia e le maglie di un prodotto autenticamente popolare per illustrare un messaggio chiaro, per spiegare prima ancora che per sovvertire un patriarcato che può cambiare forme e aspetti ma non sembra intenzionato a mollare la sua presa sulla società e sulla realtà. E non è un caso, infatti, che pur nella drastica diversità di toni – C’è ancora domani, nonostante l’ostentata impalcatura di commedia e le aperture oniriche al musical, è enormemente più (melo)drammatico di Barbie –, spesso i due film generino un effetto simile: ovvero uno spettro di reazioni anche antitetiche, direttamente legato alla consapevolezza che di certi temi ha il singolo spettatore. Barbie è stato incoronato “manifesto femminista” e insieme bollato come “propaganda turbocapitalista”, è stato salutato come un film stratificato, in grado di articolarsi su più livelli parlando a diversi target di pubblico, e deriso come semplicistico ed elementare, o accusato di pinkwashing. Qualcosa di simile (anche se in modo meno virulento) sta capitando in questi giorni all’esordio alla regia di Cortellesi: c’è chi lo trova potentissimo, chi retorico e ovvio.
Come già dicevamo a proposito di Barbie, anche il dibattito femminista, come altri temi cruciali di oggi, s’incanala per ognuno di noi in diversi livelli di approfondimento e consapevolezza nonostante l’apparenza collettiva. Ma, se è vero che l’intento dimostrativo, esplicativo, “istruttivo” di Barbie e C’è ancora domani è spesso l’aspetto che finisce per pesare di più sull’opera, per farle perdere l’equilibrio, l’eleganza, la perfezione, è anche vero che questo è, prima di tutto, appunto un intento: una premeditazione, un’esigenza, un punto di partenza e un obiettivo primario delle sue autrici. Sono – come anche Lezioni di chimica – opere consapevolmente didattiche, che sentono la necessità (e forse hanno ragione, viene da dire vedendo le reazioni commosse ed entusiaste di milioni di spettatrici, e anche quelle stizzite e malmostose di qualche spettatore) prima di tutto di utilizzare i propri mezzi per rendere visibili, chiari, evidenti punti che dovrebbero essere fermi ma che – ci ricorda, tra le altre cose, la cronaca – non lo sono. E per il film di Cortellesi o per la serie tv Apple, si tratta anche di colmare vuoti storici: perché utilizzare sempre il passato per parlare del presente, si è chiesto qualcuno? Beh, in casi come questi, anche perché quel passato è quasi sempre stato rappresentato in modo parziale, attraverso un solo punto di vista, consegnando all’immaginario e alla memoria collettivi un’idea fallata e incompleta di Storia. In Lezioni di chimica, per esempio, oltre a ricordare le vicende delle tante scienziate ostracizzate e invisibilizzate nei secoli, si rievoca – come spiega questo bell’articolo del New York Times sulle anchorwomen realmente esistite che hanno ispirato Elizabeth Zott – anche un periodo dimenticato della storia della televisione, i suoi albori e il suo sviluppo grazie al fermento dei network locali, seguiti in maggioranza da un’audience femminile (le casalinghe, che passavano tra le mura domestiche la maggior parte del tempo) e per questo spesso costruita per le e dalle donne.
C’è ancora domani non è solo ambientato nell’immediato Dopoguerra, ma esplicitamente richiama nella messa in scena, nelle scelte estetiche e di regia, nel citazionismo cinefilo, il cinema di quel periodo (con anche un vero e proprio “flashback cinematografico” agli anni 20-30, nei ricordi dell’innamoramento tra Delia e il marito Ivano); nel quale, certo, non mancavano i personaggi femminili, anche indimenticabili, ma difficilmente erano centrali, e soprattutto non apparteneva a loro il punto di vista sulla Storia e sul racconto. In questo senso, il film di Cortellesi discende da una genealogia italiana più letteraria che cinematografica, che va da Alba De Céspedes a Elena Ferrante. Il rapporto tra Delia e la figlia Marcella, per esempio, sarà suonato più che familiare ai lettori di Quaderno proibito di De Céspedes, dove lo scontro tra la protagonista e voce narrante (anzi, scrivente) Valeria e la figlia Mirella è una delle linee portanti. Nel romanzo, Valeria appartiene a un contesto lievemente più benestante rispetto a Delia, e con il marito ha un rapporto apparentemente sereno e mai esplicitamente violento (d’altronde, come già in Dalla parte di lei, De Céspedes è stata straordinariamente in anticipo sui tempi nell’individuare e raccontare le forme di violenza invisibili, quella sistematica struttura di oppressione psicologica che nella quotidianità priva le donne di identità e agency, riducendole a sole funzioni del maschile): le continue incomprensioni tra Valeria e la figlia (che nel 1950 inizia già a comportarsi da donna libera e liberata) sovrappongono al tradizionale momento di passaggio post adolescenziale, all’inevitabile “distacco dal nido”, una frattura più profonda, uno storico smottamento di paradigma, e se Mirella, come Marcella in C’è ancora domani, vede nella madre solo una sottomissione da cui vuole assolutamente fuggire senza riuscire a individuarne anche la forza, Valeria impiega quasi tutto il romanzo a scorgere nella figlia un’ipotesi di libertà che non ha mai considerato, prima, per sé (e che nel film di Cortellesi risuona nel semplice scambio tra madre e figlia «tu però sei ancora in tempo» «anche te, ma’»).
Così, a essere davvero dirompente nella quadrilogia di L’amica geniale è, tra le altre cose, la rilettura della Storia della Repubblica italiana dal punto di vista, generalmente invisibile, delle donne, la scelta di renderle sia motori degli eventi sia prospettive di sguardo sia memoria del mondo. Il contesto in cui inizia la storia di Lila e Lenù, le protagoniste di Ferrante, anche se l’ambientazione è a Napoli e non a Roma, non è molto diverso da quello in cui vivono Delia e Marcella, così come non è difficile rivedere nel loro rapporto quello tra Lenù e la madre Immacolata; come in Cortellesi, anche in Ferrante la violenza degli uomini contro le donne è rappresentata come un fatto comune, all’ordine del giorno, sistematico (pensate alla scena in cui la piccola Lila viene scagliata fuori dalla finestra dal padre che le vieta di continuare gli studi; o, nella seconda stagione, alla violenza domestica e agli stupri coniugali che subisce nell’indifferenza di familiari, amici e conoscenti), ma resa visibile, illuminata, sottolineando lo scarto abissale tra “normale” (la norma, quello che “fanno tutti”) e accettabile, giusto. Ascoltando e leggendo le reazioni di tante spettatrici (e spettatori) all’uscita dai cinema dopo le proiezioni di C’è ancora domani, quello che colpisce è spesso la ricorrenza del “riconoscimento”: «Anche mio padre diceva sempre a mia madre di stare zitta», «anche mia nonna ha vissuto come Delia», «anche gli uomini della mia famiglia si fanno sempre servire dalle donne», ognuna e ognuno ritrovando nell’esperienza personale il pezzo di un abuso che, in quanto sistemico, ha, appunto, molte facce, livelli, incarnazioni, sfumature.
E rendere visibile è qualcosa che fa, dall’altra parte dell’Oceano e a colori, anche l’Elizabeth Zott di Lezioni di chimica, che trova nella cucina – di cui è da sempre grande appassionata – e nella televisione – che si mette a un certo punto a studiare con metodo scientifico – una via alternativa di sopravvivenza e di espressione: spiegando le ricette al suo sempre più folto pubblico di casalinghe, non solo inserisce con scaltro intento divulgativo nozioni di chimica (d’altronde, la cucina quello è), ma soprattutto restituisce alle donne l’enorme dignità di un lavoro – quello di cura – generalmente sminuito proprio perché “femminile”, e di servizio. Nei momenti delle “domande dal pubblico” che istituisce in trasmissione durante i tempi di cottura c’è poi un confronto diretto con le sue fan, donne che, probabilmente per la prima volta, vengono prese sul serio nelle loro interrogazioni, riflessioni, aspirazioni. È infatti, in Lezioni di chimica come in C’è ancora domani, nel riconoscimento tra donne che si spezza, prima di tutto, l’invisibilità: nel bellissimo rapporto tra Delia e l’amica Marisa (una sempre più brava Emanuela Fanelli) e infine nello sguardo commovente che la protagonista scambia con la figlia Marcella; nell’amicizia che Elizabeth costruisce con la vicina Harriet e poi anche con l’ex segretaria Fran (inizialmente presentata come odiosa “ancella del patriarcato”, scopriremo che era solo drammaticamente sottovalutata, e dunque mortalmente annoiata).
È una questione di sorellanza, certo, ribadita come unica strada realmente salvifica sia da Lezioni di chimica sia da C’è ancora domani, e ovviamente da L’amica geniale come da un meraviglioso film di qualche anno fa, La vita invisibile di Eurídice Gusmão, dove è proprio una sorellanza (letterale, in questo caso) negata e soppressa il cuore di un melodramma lacerante nel quale si riflette la Storia delle donne insieme a quella del Brasile. Ma anche di riconoscersi, di vedersi, di dirsi, di parlare (come le Women Talking di Sarah Polley, per citare un altro film dall’intenzionalità dichiaratamente didattica), di dare voce, forma, scrittura, rappresentazione a qualcosa che dovrebbe essere ovvio, ma evidentemente ancora non lo è. È a questo riconoscimento, soprattutto, che dobbiamo attribuire l’aggettivo “necessario”: è un punto di partenza, un’origine del mondo che verrà, di cui non possiamo fare a meno. ALICE CUCCHETTI
Sul n. 43/2023 di Film Tv, in occasione della presentazione di C’è ancora domani alla Festa del cinema di Roma, Ilaria Feole ha intervistato Paola Cortellesi. Vi riproponiamo qua la loro chiacchierata.
Scusate se esistono - Intervista a Paola Cortellesi
Un film ambientato nel 1946 ma con una colonna sonora contemporanea; un film femminista, sulla violenza domestica, ma narrato con ironia e senza retorica; C’è ancora domani, l’esordio alla regia di Paola Cortellesi, sfida le etichette.
Il tuo mi pare un film coraggioso.
Più che coraggioso io lo trovo incosciente! Mi piace parlare di un argomento drammatico e duro - non solo riferito al passato, ma, ahimè, anche al presente - senza retorica, perché la retorica crea un muro nei confronti di chi guarda, e foraggia un’assuefazione anche a temi verso i quali tutti siamo sensibili. Credo che chiunque sia colpito dai femminicidi ogni 72 ore in Italia, ma la cronaca ci racconta tante di quelle cose terribili che c’è chi in qualche modo non si sciocca, a ogni notizia va avanti con la propria vita, raccontare una storia con la retorica avrebbe solo nutrito questo effetto. E farlo in modo diverso è incosciente, perché certi temi è difficile trattarli con registro ironico; ma è il linguaggio che mi riesce meglio, sia quando scrivo sia quando interpreto, mi corrisponde talmente tanto che era anche l’unico modo per farlo.
Per l’importanza di alcune sequenze “danzate” o “mimate”, pare quasi un musical.
In alcuni casi sono state proprio le canzoni a ispirarmi le scene: penso a Nessuno, cantata in modo divino e doloroso da Petra Magoni. Ma, a suo modo, è anche un giallo, è una tragedia che è anche una commedia... È una strana creatura che non so come definire.
Oltre alla musica, c’è tanto cinema evocato nel mettere in scena la Roma del 1946.
Ho volutamente evitato le citazioni, anche se per i primi 15 minuti, fino ai titoli di testa, volevo proprio che il film somigliasse al cinema di quegli anni, per quello ho usato il formato 4:3. A ispirarmi è stato il neorealismo rosa, che trattava sempre personaggi autentici, ma con temi romantici; penso a Campo de’ fiori di Mario Bonnard, o Abbasso la miseria! di Gennaro Righelli.
Il cast è un dream team di stelle italiane: Valerio Mastandrea, Giorgio Colangeli, la magnifica Emanuela Fanelli…
Io ho pensato al migliore per ognuno dei ruoli, e mi ha detto bene che hanno risposto tutti di sì! Erano il cast ideale, alcuni di loro sono stati pensati già in scrittura, altri sono arrivati dopo, ma tutti si sono innamorati del progetto. Poi io sono, diciamo così, ossessivo compulsiva, nel senso che ho un approccio al lavoro meticoloso, ed essendo, oltre che regista, anche interprete temevo di non potermi occupare della direzione degli attori con la dovuta attenzione, sul set; perciò abbiamo fatto tre settimane di prove, come si fa a teatro, io con tutto il cast, ascoltando anche le loro proposte, una cosa importante che a volte diventa impossibile quando non c’è il tempo per provare. Invece per me è stato un arricchimento avere la possibilità di sentire Colangeli che suggerisce una sfumatura diversa per il suo personaggio. Quindi siamo arrivati sul set preparatissimi, così durante le riprese potevo preoccuparmi delle sirene, dell’aereo che passa, del temporale, ma non dovevo invece preoccuparmi della memoria imperfetta di qualcuno, perché tutto era già stabilito e collaudato.
Sei nel mondo dello spettacolo da quando eri una ragazzina, fra tv, cinema, musica e teatro, ma questa è la prima volta dietro la macchina da presa, come è stato?
Sempre per tornare al discorso dell’ossessivo compulsiva, sapevo quel che mi sarebbe servito per raccontare la mia storia, segnavo le inquadrature già nel mio file della sceneggiatura. Poi, al di là del cast, anche tutti i comparti - fotografia, elettricisti, costumi, scenografia, edizione - erano persone con cui avevo già lavorato in un’altra veste; ormai ho una certa età e in questo caso è un grande vantaggio! Perché ho coinvolto persone che mi corrispondevano umanamente, e si è creato un set gentile. La fatica si fa, si lavora tantissime ore al giorno e gli imprevisti sono tanti, ma tutti lo abbiamo fatto con amore, facendo il tifo per il film.
Quest’anno è ampia la compagine degli attori passati alla regia: oltre a te, Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Kasia Smutniak, Margherita Buy…
Di base è naturale, quando hai voglia di raccontare una tua cosa personale. Io sono dieci anni che scrivo film con Giulia (Calenda, ndr) e Furio (Andreotti, ndr), però sul set poi c’è un altro occhio, quello del regista... Ecco, le motivazioni degli altri non le so, nel mio caso volevo smettere di discutere con mio marito (Riccardo Milani, ndr)!
Il film sembra pensato anche per un pubblico (molto) giovane.
Che lo vedano i giovani è ciò che mi auguro più di ogni cosa. Il finale mi è venuto in mente leggendo insieme a mia figlia un libro per bambine sui diritti delle donne: lei era incredula, le sembrava assurdo che prima non ci fossero determinati diritti basilari. Le bambine, le ragazze devono sapere da dove vengono: c’è un prima da dove tutte noi donne proveniamo, e che dobbiamo tenere presente, perché si potrebbe ripresentare. Nilde Iotti diceva che i diritti non sono eterni, e purtroppo lo stiamo vedendo nel mondo, con paesi che sono tornati indietro di 20 o di 50 anni rispetto ai diritti delle donne. Quindi sì, il film è sempre stato pensato per una platea giovane da me, Furio e Giulia, perché i giovani, senza averne colpa, non sanno, e qualcuno deve raccontare quello che è stato. ILARIA FEOLE
È morta il 4 novembre scorso Marina Cicogna, soprannominata “la contessa del cinema”, prima grande produttrice cinematografica italiana, vincitrice dell’Oscar al miglior film straniero per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Della sua vita incredibile e della sua carriera imprescindibile parla il documentario Marina Cicogna – La vita e tutto il resto che vi consigliamo di (ri)vedere su RaiPlay.
Durano ormai da un mese i bombardamenti di Israele sulla Striscia di Gaza seguiti agli attacchi terroristici di Hamas. Su Film Tv, ogni settimana, pubblichiamo la serie di approfondimenti Immagini di guerra; su Internazionale.it, in questo articolo, si parla del film Bye Bye Tibériade della regista franco-palestinese-algerina Lina Soualem, presentato alle ultime Giornate degli autori. Per tutto il mese di novembre, l’Arab Film and Media Institute organizza la rassegna cinematografica, accessibile online, Palestinian Voices, nel cui programma figurano molti film di registe.
All’edizione n. 16 del Festival del cinema spagnolo e latinoamericano, a Roma al cinema Barberini fino al 12 novembre, vengono presentate in anteprima, tra gli altri titoli, 20.000 species de abejas (già premiato alla Berlinale) e Cinco lobitos (Premio Goya come miglior esordio), opere prime rispettivamente di Estíbaliz Urresola e Alauda Ruiz de Azúa, oltre all’argentino Trenque Lauquen di Laura Citarella (troverete un’intervista a questa regista sul numero di Film Tv in edicola martedì prossimo).