Singolare, femminile ♀ #103: Non siam qui a pettinare le bambole
Salvatrice estiva del box office e protagonista di un dibattito critico tutt'altro che a tinte pastello, la Barbie di Greta Gerwig è già uno dei film dell'anno, ed eccezionalmente vi proponiamo due sguardi differenti sul film, dal suo contenuto alla sua altrettanto rilevante superficie, quella dei costumi firmati da Jacqueline Durran.
«È letteralmente impossibile essere una donna». In uno dei tanti (troppi) monologhi che affollano il terzo atto di Barbie, c’è un personaggio che spiega, in modo semplice, chiaro e innervato di legittima rabbia e frustrazione, quello che alcuni femminismi ribadiscono da un tempo che a qualcuno può sembrare immemore. Le donne, inscatolate da sempre dentro stereotipi prescrittivi, si trovano, nella vita vera, costrette a una corsa a ostacoli tra standard irraggiungibili: è uno schema che, come un’escalation, parte dalla superficie (essere magre, ma non troppo; volerlo, ma non dirlo; essere desiderabili, ma non tentatrici…) e penetra nella consistenza delle cose («devi esser responsabile del comportamento degli uomini – il che è assurdo – ma non farlo mai notare, altrimenti sarai accusata di lamentarti»). «È come dover essere sempre straordinaria, eppure, in qualche modo, non fare altro che sbagliare».
Come gran parte del film, anche questa sacrosanta invettiva diventa prima di tutto una cartina tornasole per lo spettatore: perché, molto spesso, parlando di femminismi (ma vale per praticamente tutte le questioni cruciali del contemporaneo, dall’emergenza climatica al razzismo alla riconfigurazione del senso del lavoro), i binari su cui corre il dibattito e il pensiero hanno solo un’apparenza collettiva, quando in realtà si muovono paralleli, e ben distinti, a velocità differenti. Per chi alla questione della discriminazione sistemica delle donne dedica di continuo attenzione e pensiero (magari proprio perché è donna e sistematicamente discriminata), il monologo di cui sopra non risulterà che la semplificazione risaputa di teorie consolidate e di pratiche quotidiane; per qualcun altro – come per le Barbie “senza anticorpi” del film – potrebbe risultare illuminante, oppure, al contrario, irricevibile, esagerato, eccessivo, incomprensibile. E, come gran parte del film, questo monologo sembra parlare, tra le altre cose, anche al film stesso.
Chissà se consapevolmente o meno, anche Barbie di Greta Gerwig è «letteralmente impossibile»: come si è sottolineato da più parti, la quantità di istanze cui deve rispondere è immensa, e contraddittoria. È un grosso blockbuster estivo, prodotto da una delle principali major dell’intrattenimento (la Warner, la stessa dei film di Batman e della Justice League, del Wizarding World di Harry Potter, del Signore degli Anelli, tutti tra i maggiori franchise commerciali degli ultimi anni) insieme al colosso dei giocattoli Mattel, proprietario del marchio “Barbie” e principale committente del film. È un esempio perfetto dell’industria hollywoodiana contemporanea, il sistema tentpole in cui film, brand e merchandise sono tutti zampe della stessa enorme bestia produttiva. Ma è anche un film affidato – si dice “con massima libertà creativa”, ma a leggere le interviste si evince che diverse “concessioni” siano state strappate, probabilmente a discapito di altre – a un’autrice, Greta Gerwig, cresciuta e amata dal cinema indipendente, così come il suo collaboratore storico e compagno Noah Baumbach (il quale già ha realizzato per un altro colosso, Netflix, i suoi ultimi progetti, riuscendo a conservare il proprio sguardo inconfondibile). Ci si aspetta, per le posizioni politiche espresse da Gerwig e ancora di più per il ruolo che ha assunto in questi anni nel contesto hollywoodiano (una delle pochissime registe ad aver raggiunto, nel discorso pubblico cinefilo, lo status di “autrice” mainstream), che Barbie sia un film femminista, radicale, rivoluzionario. Anticapitalista, anche se marchiato Mattel – un’azienda che, soprattutto con Barbie ha abbracciato negli ultimi anni (allo stesso modo, per esempio, della Disney, con le sue Principesse) un femminismo empowering e liberale, perfettamente integrato con lo status quo.
Barbie dev’essere anche, e non è secondario, una commedia. Un genere ben più complesso di quanto spesso gli si riconosce, un territorio sottoposto per certi versi pure lui a standard fuori dall’ordinario, in cui la misura giusta (e qual è?) segue una ricetta imprendibile e impossibile come una formula alchemica. È, tra l’altro, proprio nella commedia – nell’adesione quasi sempre totale e risoluta a un registro che scivola tra il demenziale e lo slapstick – che Barbie splende e si fortifica, abbandonandosi spesso a un divertimento puro, e anche profondamente cinefilo e cinematografico. È proprio nella regia e nella messa in scena (i costumi, le scenografie, i fondali, i colori, che Silvia Pezzopane analizza nel suo pezzo scritto per questa newsletter, vedi sotto), nelle sequenze musical (fino a un dream ballet alla Cantando sotto la pioggia), nelle performance smisurate di Margot Robbie e Ryan Gosling (diversissime, sensatamente opposte, ma entrambe “totali”) che Gerwig trova la forza e la coesione che talvolta alla sceneggiatura sfuggono – riuscendo in quella che forse è l’impresa primaria, il fondamento da cui non può prescindere il resto: regalare alla maggioranza dei suoi spettatori una visione coinvolgente e profondamente spassosa.
Il grumo inestricabile di richieste contraddittorie cui deve rispondere Barbie non sfugge a Gerwig e Baumbach, che con intuizione intelligente costruiscono la storia – l’intreccio, di semplicità disarmante, ma soprattutto il ben più complesso mondo narrativo: è un film decisamente high concept – su una altrettanto inestricabile composizione di dicotomie: dalla corrispondenza/complementarietà tra BarbieLand e il mondo reale (a differenza di altri titoli simili, come per esempio il bellissimo The Lego Movie, i due universi s’influenzano in entrambe le direzioni) alle coppie di opposti su cui poggiano i conflitti tra personaggi (Barbie vs Ken, ovviamente, ma anche l’umana Gloria e sua figlia Sasha), e più in generale una tensione costante tra quello che si dice, si vede, si mostra e quello che si lascia filtrare, a cui si allude, si critica (in questo il trattamento on screen della Mattel stessa è esemplare, un villain che non può mai essere nominato come tale). Ma è Barbie stessa una figura doppia, già dal divertente prologo ricalcato con sfacciataggine su quello di 2001: Odissea nello spazio: l’apparizione di Barbie è, per le bambine, una potenza liberatoria, perché offre loro un gioco alternativo alla “prova generale di maternità” implicita nell’onnipresenza dei bambolotti neonati. Contemporaneamente, però, è (letteralmente) un monolite enorme e dirompente, un modello irraggiungibile di perfezione, uno Stereotipo con la S maiuscola, in definitiva una nuova prigione (da cui si trova a dover fuggire, inizialmente controvoglia, la protagonista stessa del film, cioè proprio Barbie Stereotipo).
Proprio come tutte le cose impossibili, anche Barbie di Greta Gerwig non può esistere, non completamente: la quantità inconciliabile di esigenze che deve soddisfare basterebbe a garantire di per sé un’impresa gargantuesca, e per di più Gerwig e Baumbach si propongono di dire e mostrare un ulteriore carico di cose, come a voler esaurire del tutto un ipotetico discorso (entrambi, in questi giorni, alle domande su un possibile sequel, rispondono «per noi questo è tutto», anche se naturalmente bisogna vedere come si evolverà l’ormai inevitabile franchise in futuro). Da qui le tante morali e i troppi finali di un film che, sicuramente, al momento di tirare le fila del suo contraddittorio “tutto” non trova un modo elegante per sciogliere con grazia ogni singolo nodo e raccoglierlo in un unico fiocco. Eppure anche in questo percorso, camminando e capitombolando verso il finale, e perdendo, pezzo dopo pezzo, la propria “perfezione”, Barbie e Barbie finiscono per corrispondersi, mettendo in scena (come sempre in Gerwig) un romanzo di formazione che dev’essere, obbligatoriamente, “sformazione”: una rottura della scatola, di tutte le scatole, imperfetta e irrisolta, per diventare possibile, per finalmente essere. ALICE CUCCHETTI
SOTTO IL VESTITO, TUTTO
Fermarsi alle apparenze sarebbe un errore, perché Barbie ha molto da raccontare, a partire dal suo guardaroba, che ha attraversato la storia arrivando fino a noi, con una rinnovata ricerca di stile, forme, libertà. Lo sa bene la costumista del film di Greta Gerwig, Jacqueline Durran, che ne ha celebrato l’importanza nel passato e nella contemporaneità, con una bambola che passa dai tacchi alti alle Birkenstock, seppur rigorosamente rosa.
Tornando a cavalcare il divario tra “Barbie mi ha ispirato quando ero bambina” a “Barbie è tutto ciò che non ho mai voluto quando ero bambina”, Greta Gerwig non ha dubbi: Barbie è un simbolo di possibilità femminile, un’icona che ha subito sì le restrizioni dei suoi tempi, ma che arriva fino a noi per chiedersi: qual è il prossimo passo da compiere insieme, sorella?
La regista trova la sua personale chiave di lettura ricostruendo in dimensioni reali BarbieLand e ciò che ha sempre rappresentato nell’immaginario. Il valore estetico del film va di pari passo con quello narrativo, nelle case a vista risuona la nostalgia degli anni in cui la stessa regista giocava con le sue Barbie, la gioia senza condizioni, la speranza per il futuro, la possibilità di essere veramente qualsiasi cosa. Questo non sarebbe stato possibile senza il lavoro della costumista Jacqueline Durran (che ha curato anche i costumi di Piccole donne sempre di Gerwig, per cui ha vinto l’Oscar) e della scenografa Sarah Greenwood.
A loro si aggiungono la decoratrice Katie Spencer e la hairstylist e truccatrice Ivana Primorac.
Non è il primo film in cui Durran e Greenwood lavorano sullo stesso set, a riunirle più di una volta è stato Joe Wright: le due hanno lavorato fianco a fianco in Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, Il solista, Anna Karenina, L’ora più buia e Cyrano. Non solo, le loro capacità hanno reso possibile la realizzazione del mondo magico di La bella e la bestia, il remake live action di Bill Condon.
Con Barbie si rincontrano per qualcosa di completamente diverso: un progetto pop dalle mille sfumature di rosa, un’utopia con fondali bidimensionali e una totalità di donne nella corte costituzionale. Questa nuova sfida però si avvale della capacità delle due artiste di rapportare qualsiasi storia stiano raccontando alle spettatrici e spettatori contemporanei. La ricerca storica si accompagna costantemente al rapporto con lo sguardo del presente, per coinvolgere maggiormente, anche attraverso la scelta di un colore. Ne è un esempio l’abito verde indossato da Keira Knightley in Espiazione (2007): dal taglio ispirato ad alcuni modelli degli anni 20 e 30, si rinnova nei dettagli che lo rendono moderno, minimale eppure dal forte impatto, sia nelle forme sia nel colore vibrante. Chiunque ricorda quella scena memorabile e gran parte del merito è di quel vestito di seta smeraldo.
Il lavoro sul guardaroba di Barbie, nel film, fa riferimento a un insieme di epoche storiche, romanticamente idealizzate, eppure canalizzate direttamente nel presente: lo vediamo sia nelle scenografie della città sia in quelle di BarbieLand come è adesso, dopo una lunga serie di vittorie politiche e sociali vinte dalla bambola più impegnata del mondo dei giocattoli. Da questo punto di vista la scelta finale di Barbie (SPOILER: diventare vera e vivere nel mondo degli umani) non è che un nuovo progresso, simbolicamente rappresentato dalle Birkenstock rosa (che già stanno diventando virali).
Il dialogo stabilito tra le scenografie e gli outfit risiede proprio nella memoria del gioco, nei ricordi di bambine abituate a riporre i vestiti delle loro Barbie con più cura di quanto facessero con il proprio armadio. La fantasia, in primis, governa un guardaroba libero da ogni convenzione e regola prestabilita, eppure incredibilmente funzionale: di fatto Barbie ha un outfit per ogni occasione o appuntamento ed è la sua vita ricca di eventi a stabilirne la ricchezza di abiti e accessori.
All’inizio del film, gli scenari in cui la vita di Barbie viene mostrata trovano un’evidente ispirazione alle vacanze al mare tra gli anni 50 e 60 (la bambola debutta sul mercato nel 1959, come ben ricordiamo, con un costume intero a righe bianche e nere), l’universo estetico realizzato da Sarah Greenwood e Katie Spencer si riveste di una piacevole e intensa nostalgia verso stili rielaborati con la lente di Barbie, poi rapportati al mondo reale.
Prima di mettere mattone su mattone per realizzare la Dreamhouse in dimensioni reali, il team tutto al femminile ha sperimentato (e ripassato) la sensazione di averla tra le proprie mani. Per capire le proporzioni della bambola all’interno del suo mondo, Sarah Greenwood racconta di aver acquistato una casa dei sogni per “giocarci” in ufficio con le sue colleghe. Da qui il cuore del film: per comprendere Barbie bisogna averci giocato almeno una volta. Quella sperimentazione della materialità del giocattolo è una sensazione che Greenwood rievoca con incredibile attenzione verso i particolari.
In BarbieLand gli oggetti sono più grandi del dovuto (come la famosa spazzola per capelli contenuta in ogni confezione della bambola), e tutto è lasciato alla fantasia di chi al contempo sta giocando con quelle Barbie nella realtà. Non esce acqua dalla doccia, le onde sono finte, le bambole possono attraversare la montagna innevata, la campagna, addirittura lo spazio, mentre si alternano fondali pastellosi pronti ad accogliere ogni tipo di avventura. Nelle scenografie tutto è dipinto, anche il cielo, e il rosa ricopre una grandissima percentuale di ciò che esiste a BarbieLand. I set sono costruiti quasi da zero e, leggenda metropolitana o meno che sia, la quantità di vernice rosa impiegata ha fatto notizia: la stessa scenografa ha ammesso che la lavorazione del film ha prosciugato a livello mondiale le scorte di pittura di quel colore.
Allo stesso modo vengono concepiti i costumi di Stereotypical Barbie (Margot Robbie) e di tutte le sue amiche Barbie, alleate e compagne di pigiama party. L’ispirazione è data dalla sua evoluzione nel tempo come icona di stile e dal dialogo con il presente, quello degli umani e quello della Mattel che ha lanciato sul mercato da tempo la linea Fashionistas, che comprende bambole con quattro tipologie di corporatura, sette tonalità della pelle e più di venti del colore degli occhi (recentemente ne è uscita una versione che riprende i tratti della sindrome di Down, realizzata in collaborazione con la National Down Syndrome Society).
L’effetto desiderato era la rappresentazione di una Barbie contemporanea eppure legata a un concetto di stile che ha ispirato negli anni numerosi stilisti e designer. Nel film gli abiti sono fondamentali: danno potere a chi li indossa, si adattano alla femminilità di chi li veste, e non viceversa, ed esprimono le inquietudini maschili su più livelli. Lo si capisce subito dal cameo di Ann Roth, la leggendaria costumista con cui Barbie condivide una scena breve eppure commovente, seduta su una grigia panchina a Los Angeles, applicando il suo concetto di bellezza in una realtà che lo priva fin troppo spesso di inclusività.
La maggior parte dei vestiti è stata realizzata dopo un’approfondita ricerca dei tessuti più indicati: gran parte del guardaroba di Barbie ricorda modelli di bambole realmente diffusi sul mercato tra gli anni 80 e gli anni 90, come il primo outfit con cui Barbie e Ken attirano fin troppe attenzioni in California, i completi con ginocchiere e pattini fluo ispirati al modello Hot Skatin' Barbie del 1994, oppure quello da cowboy & cowgirl, che sembra uscito direttamente da uno spettacolo di Las Vegas ed è vicino allo stile delle Barbie Western Stampin’ del 1993. Lo studio sui veri Barbie e Ken (e Midge, Allan e gli altri) lanciati sul mercato è stato minuzioso, così come lo schema di combinazioni di colori al quale costumi e scenografie si sono attenuti per non creare una confusione visiva.
Nel film i colori degli abiti si adattano all’ambiente, nonostante la forte carica delle tinte, gli abbinamenti sono armonici e nulla appare stonato se non nella casa di Weird Barbie, dove abitano anche i più grandi errori commerciali di Mattel. La tendenza Barbiecore è protagonista, ma non occupa interamente la scena lasciando spazio a tantissime altre tinte. Secondo Durran va oltre il rosa, diventa una concezione più totale di completo accessoriato.
Quasi tutto ciò che si vede nel film è stato realizzato appositamente dal reparto costumi, anche l’abito rosa e bianco con fantasia vichy per cui il tessuto è stato acquistato in Italia, da Taroni, o le mutande personalizzate di Ken (da un’idea di Ryan Gosling). Gli unici pezzi già “pronti” sono Chanel, casa per cui Margot Robbie è ambassador. La casa di moda ha inviato alla produzione completi e costumi: molti pezzi Chanel sono vintage e provengono direttamente dai loro archivi.
La costumista Jacqueline Durran, vincitrice di due premi Oscar e tre BAFTA, fa molto affidamento anche sul riuso consapevole degli abiti; da sempre fan del vestire sostenibile, ha curato lei stessa una collezione su ThredUP (un negozio online su cui vendere e acquistare di seconda mano) dedicata alla bambola, affinché chiunque potesse avere la sua mise. Le tute rosa che le Barbie indossano nella missione di salvataggio sono realizzate sulla base di una giacca vintage acquistata da Durran.
Se per Barbie i vestiti sono una dichiarazione di personalità, per Ken non è esattamente lo stesso. I suoi completi sono da sempre dei surrogati di quelli della sua “fidanzata”, pensati solo per abbinarsi a lei, e la sfavillante versione femminile viene declinata al maschile per qualsiasi occasione. Nel film tutti i Ken sono molto sportivi, anche durante la festa con coreografia di gruppo. Le loro mansioni non sono di vitale importanza per la comunità e di conseguenza l’unico valore della loro esistenza (e dei loro vestiti) è che Barbie, anche solo per un momento, vi presti attenzione.
Tutto cambia quando Ken/Ryan Gosling entra in contatto con il patriarcato e il mondo dei maschi che comandano, gli uomini di Los Angeles e i modelli estetici che li hanno forgiati. La pelliccia bianca che sfoggia al suo ritorno a BarbieLand è uno strampalato simbolo di forza maschile rapportato al glamour di cui continua a essere vittima. Per la prima volta i due non sono abbinati, qualcosa in loro sta cambiando. Quella pelliccia unisce lo stile sfacciatamente anni 80 pensato per i Ken con l’idea che quel Ken in particolare si è fatto del potere maschile: l’ispirazione principale è un’immagine di Sylvester Stallone vista a Los Angeles, a cui però Durran aggiunge la fodera con la stampa di cavalli, altro simbolo “maschio” da uomo della Frontiera. E se per Barbie sono i sandali a simboleggiare l’evoluzione, per Ken è la felpa arcobaleno su cui compare la scritta I am Kenough.
I 30 e più cambi di look della protagonista di Barbie di Greta Gerwig non ne fanno un simbolo di superficialità, ma un faro di potenzialità. Barbie non si vergogna di vestirsi di fuxia attirando l’attenzione, è sé stessa sempre e comunque. Durran e Greenwood, insieme alla regista, hanno il merito di averci ricordato che può valere anche per noi. SILVIA PEZZOPANE
Si intitola La prima donna che, il ciclo di 55 brevissimi profili di personalità femminili che hanno lasciato il segno nella storia, che grazie alla collaborazione di Anec e Agis Lazio con Rai Teche saranno proiettati nelle arene estive romane di Piazza Vittorio e Monteverde, prima della proiezione cinematografica serale (ore 21:30). Tra le donne al centro della serie: Rita Levi Montalcini, Lina Wertmuller, Margherita Hack, Cecilia Mangini, Raffaella Carrà e molte altre.
Con 337 milioni di dollari incassati in tutto il mondo durante il primo weekend in sala, Barbie è ufficialmente non solo il miglior debutto cinematografico del 2023, ma anche il miglior esordio per un film diretto da una donna. Greta Gerwig ha parlato in questa intervista della sua spiegazione per questo fenomeno di massa [in inglese]
Niente record invece all’80ª Mostra del cinema di Venezia, che ieri ha svelato le sue carte e la selezione che sfilerà in laguna dal 30 agosto al 9 settembre, con una presenza femminile che si attesta intorno al 30% dei titoli in totale. Cinque le donne in Concorso: Sofia Coppola, Ava Duvernay, Agnieszka Holland, Malgorzata Szumowska e Fien Troch. Tutta la selezione qui; ne riparleremo in agosto.