Singolare, femminile ♀ #102: Questa Barbie è in sciopero
Cos’hanno in comune la sitcom anni 90 La tata e la dramedy carceraria Netflix Orange Is the New Black? Semplice: lo sciopero di attori e sceneggiatori hollywoodiani in corso in questi giorni – e chissà ancora per quanto –, sintomo di un’industria a un punto di non ritorno.
In una delle prime stesure della nostra lista di cento voci pubblicata per il n. 100 di Singolare, femminile compariva anche La tata, sitcom anni 90 impressa nella memoria del pubblico televisivo. C’è stato qualche rimaneggiamento all’elenco, La tata è finita fuori per un soffio, e come per vendicarsi eccola rispuntare in questi giorni, in forza, su tutte le prime pagine delle testate dedicate al cinema, e in molte di quelle culturali dei giornali generalisti, oltre che sui mille canali di varie bolle social. Non proprio La tata, d’accordo, ma la sua protagonista, ideatrice e produttrice Fran Drescher, personalità molto celebre negli Stati Uniti (non solo grazie alla sitcom, che lì s’intitola The Nanny, anche se è stato indiscutibilmente il suo maggior successo) che ora, a 65 anni, guida il sindacato degli attori SAG-AFTRA, impegnato in uno sciopero storico e dalle conseguenze imprevedibili.
Il video della conferenza stampa con cui proprio Drescher proclama lo stop di lavoratori e lavoratrici con un discorso infuocato e giustamente furibondo è rimbalzato sul web, anche perché non c’è spettatore millennial che non ricordi la sua protagonista nei panni variopinti ed esuberanti di tata Francesca, un personaggio che ha segnato l’immaginario televisivo Nineties. La sitcom, andata in onda in Usa tra il 1993 e il 1999, aderisce come un guanto alle formule rodate del genere e del format: girata davanti a un pubblico in studio e con il sistema di riprese in multicamera (anche se non sempre nelle ultime stagioni, quando aumentano le scene in esterna o in generale si moltiplicano i set differenti), si appoggia a un collaudato schema comico di “scontro culturale”, quello tra la tata, di estrazione sociale popolare, chiassosa e colorata, spesso fuori luogo ma sempre allegra e vitale, e la famiglia per cui lavora, i britannici Sheffield, ricchi e inizialmente infelici, dalle maniere impeccabili ma dall’aridità sentimentale. «Pensa a Tutti insieme appassionatamente, solo che invece di Julie Andrews arrivo io» pare sia la frase con cui Drescher ha spiegato all’allora marito Peter Marc Jacobson l’idea che aveva avuto per una sitcom da proporre alla CBS.
E infatti la tata, che in originale si chiama Fran Fine, è ricalcata da vicino sulla sua interprete: entrambe vengono dal quartiere Flushing, nel Queens; sono entrambe ebree ed entrambe hanno studiato per fare le estetiste (anche se Drescher non ha mai venduto abiti da sposa, come fa Fine nel pilot); i genitori di entrambe si chiamano Sylvia e Morty, ed entrambe hanno un’anziana nonna di origine polacca di nome Yetta (personaggio secondario incredibile e indimenticabile, forse il vero role model dello show, con i suoi marsupi metallizzati e un inestinguibile appetito sessuale).
Se alcune di queste informazioni non vi tornano, è perché l’adattamento e il doppiaggio italiani di La tata sono con ogni probabilità il caso più eclatante di riscrittura seriale di sempre: preoccupati – non del tutto a torto – che gli spettatori italiani privi di internet degli anni 90 non potessero capire i riferimenti yiddish, ai quartieri newyorkesi e alla cultura pop continuamente tirata in causa, gli italici responsabili del doppiaggio hanno deciso di dare a Fran una nuova identità. Trasformandola in Francesca Cacace da Frosinone, e mutando i genitori e la nonna in zii emigrati negli Stati Uniti che l’hanno accolta a New York. Il risultato qualche volta funziona pure – curiosamente, già i produttori della CBS avevano suggerito di cambiare le origini di Fran e renderla italoamericana, temendo che l’eccesso di riferimenti alla cultura ebraica potesse allontanare il pubblico generalista, cosa a cui Drescher si era fermamente opposta –, ma molto spesso produce un’esperienza ai confini del nonsense, costringendo i traduttori a modificare a cascata fiumi di dialoghi e battute, o a giustificare in modo astruso certi gag visivi.
Il fatto che la serie abbia comunque avuto un notevole successo – anche nel resto del mondo ne sono state prodotte versioni “localizzate”, con nuovi show, però, non con doppiaggi “creativi” – dimostra l’intrinseca forza della serie, che oggi è giustamente considerata un classico: è certamente convenzionale, formulaica, perfino ripetitiva, tutte caratteristiche nel DNA del formato sitcom, che La tata sa sfruttare al meglio, giocando di opposizioni tra i personaggi (la famiglia Fine vs la famiglia Sheffield, il maggiordomo Niles vs la snob C.C.) e costruendo tormentoni e gag ricorrenti. In un’intervista a “Harper’s Bazaar”, rilasciata da Drescher due anni fa in occasione dell’approdo di La tata in streaming su HBO Max (in Italia al momento la serie non è disponibile, ma è a lungo stata su Prime Video; YouTube, in ogni caso, è ricco di clip da sfogliare), l’attrice e autrice nota come lo show sia in realtà un attento mix di punti di forza, davvero generalista, nel miglior senso del termine: «La serie in sé è un’anomalia. Fa ridere a crepapelle. Ma ha anche una tensione sessuale alle stelle. È una fantasia in stile Cenerentola. Gli abiti sono semplicemente meravigliosi, è come avere una fashion week alla settimana. Ha quel tipo di doppi sensi che permettono a tutta la famiglia di godersela, piace a spettatori di ogni età. Ma ha anche un tipo di gay humour perfino sfacciato. È un classico che non smette mai di essere cool».
A un’occhiata superficiale Fran Fine potrebbe sembrare tutt’altro che un modello femminista, considerato il tipo di stereotipo cui appartiene: ossessionata dalla moda e dall’estetica (sono gli anni 90, periodo in cui le battutacce sull’aspetto fisico sono la norma, vedi anche l’annoso dibattito su Friends), mente spudoratamente sulla propria età (ha sempre 29 anni) e cerca disperatamente marito, anche perché la madre Sylvia (o zia Assunta, nella versione italiana) non perde occasione per rinfacciarle la sua “ignominiosa” condizione di zitella. Ma Fran riesce a incarnare felicemente le due anime della comicità femminile di cui parlavamo in questo numero della newsletter, a indossare contemporaneamente i corsetti e i costumi da clown, a mettere in burla le assurdità altrui e a far ridere di sé. Nonostante tutto, non cede mai alle imposizioni esterne, resta se stessa – i capelli cotonati, la voce nasale, le inappropriatezze assortite, l’animo combattivo – in ogni occasione e fino alla fine, perché, certo, è dall’attrito con il contesto upper class che la circonda che nasce la comicità, col risultato però di regalarci un’eroina sfacciata, divertente, intraprendente, che nessuno mai può mettere a tacere. Non sarebbe sbagliato situare Fran in mezzo a una genealogia che parte da Lucille Ball – l’espressività facciale di Drescher e le frequenti incursioni slapstick rimandano esplicitamente a I Love Lucy – e che arriva fino a Mrs. Maisel, ironia ebraica e passione per la moda comprese (ma anche alla Rachel Bloom di Crazy Ex-Girlfriend, con cui infatti Fran Drescher sta sviluppando una versione musical di La tata per Broadway).
Sempre sui social, in questi giorni, sta girando anche una clip di un episodio di La tata in cui Fran dovrebbe partecipare alla prima del nuovo spettacolo del signor Sheffield, ma il teatro è picchettato da un gruppo di lavoratori in sciopero. «Mia madre mi ha insegnato che non si attraversa mai mai mai un picchetto!» dice Fran, e non si muove d’un passo, nonostante i tentativi di Maxwell di trascinarla via. Anche se declinato nelle forme della commedia, quello messo in scena da La tata è comunque anche uno scontro di classe, in cui al di là dell’obiettivo aspirazionale (“sposare un milionario”) è l’estrazione working class di Fran (peraltro, ancora oggi sotto rappresentata in tv) ad avere sempre la meglio – non sarà un caso se i produttori scelsero di trasformare gli Sheffield da “semplici” americani WASP molto abbienti a britannici, per spostare l’opposizione con i Fine più su un piano “nazionalistico” che di ceto sociale. Non è difficile, oggi, sovrapporre persona e personaggio osservando Fran Drescher picchettare gli studios e arringare le folle dei suoi colleghi.
Drescher ha portato una formula simile a quella di La tata anche nel film del 1997 L’amore è un trucco, con Timothy Dalton, e poi nei “sequel spirituali” seriali A casa di Fran (2005-2006) e Happily Divorced (2011-2013, quest’ultima ispirata anche dal divorzio con l’ex marito e collaboratore storico Jacobson). Da sempre sostenitrice del partito democratico, negli Stati Uniti è nota per l’attivismo che si intreccia spesso alla sua autobiografia (sostiene con una fondazione la salute delle donne dopo una complicata diagnosi di tumore all’utero; da sempre vicina alle istanze LGBTQ – anche in quanto innegabile icona queer –, si spende ancor di più in prima persona dopo il coming out dell’ex marito; rivela in un’intervista a Larry King, molti anni dopo il fatto, di essere stata violentata, minacciata con una pistola e sotto gli occhi del consorte, da un rapinatore entrato in casa della coppia per svaligiarla nel 1985), è stata eletta nel 2021 a capo del sindacato SAG-AFTRA, a rappresentanza di una corrente di sinistra (recentemente si è definita anticapitalista e ambientalista) e ottenendo in questi ultimi mesi un sostegno pressoché unanime (oltre il 97%) nelle votazioni con cui si è deciso di proclamare lo sciopero in corso. Uno sciopero che va a sommarsi a quello degli sceneggiatori, iniziato il 2 maggio (l’ultima volta in cui entrambi i sindacati avevano incrociato le braccia contemporaneamente è stata nel 1960), e le cui ragioni si misurano anche nella profondità del cambiamento affrontato dalla televisione dai tempi di La tata a oggi.
Se c’è una serie che non potrebbe essere più diversa da La tata è probabilmente Orange Is the New Black, creata da Jenji Kohan. La prima è una sitcom più che mai classica, da oltre 20 episodi a stagione, realizzata per la più tradizionale delle grandi reti generaliste statunitensi, la CBS; la seconda è un ibrido tra commedia e dramma, da 13 puntate ad annata, uno dei primissimi grandi successi di Netflix, un felice esperimento con un ampio cast quasi completamente femminile e per la maggior parte decisamente anticonvenzionale, messo in piedi agli albori dell’era dello streaming. Il motivo per cui citiamo Orange Is the New Black è un articolo del “New Yorker” di qualche giorno fa, che a sua volta partiva da un post diventato virale: il video in cui un’attrice di quello show scarta la lettera in cui le viene comunicato che i suoi residual (qualcosa di simile a quello che noi chiamiamo royalties: i compensi che il detentore dei diritti di un’opera riceve quando quell’opera viene riutilizzata) ammontano a soli 20 dollari.
Orange Is the New Black è stato uno dei primissimi successi di Netflix, e uno dei più longevi e duraturi. Se la prima serie originale della piattaforma, House of Cards, con il suo cast di attori blasonati, un regista acclamato come Fincher e un drammaturgo apprezzato come Willimon al timone, garantiva immediatamente a Netflix lo stesso prestigio di reti via cavo come HBO, Orange Is the New Black aveva davvero l’aria di qualcosa di nuovo, apriva le porte a storie inedite – lo show si svolge in un carcere femminile, e con un cast in gran parte non bianco –, a volti e punti di vista che sulla tv lineare, soprattutto quella generalista, erano molto rari; con un vero e proprio ensemble a diventare presto il cuore del racconto, oltre la canonica protagonista ufficiale, Orange Is the New Black metteva anche in luce il nuovo contesto di fruizione e i nuovi formati permessi da una piattaforma streaming: senza esser legati a un palinsesto e consapevoli che il pubblico avrebbe guardato lo show secondo i propri tempi, era possibile una maggior fluidità narrativa, allontanarsi da strutture fisse, trovare nuovi spazi. È indubbio che Orange Is the New Black abbia contribuito a guadagnare pubblico per Netflix nel suo momento cruciale del passaggio alla produzione di contenuti originali, a indicarla come un’alternativa validissima se non preferibile alla tv tradizionale, e che per i suoi sette anni di durata, oltre gli alti e bassi narrativi, sia rimasta uno dei punti fermi della piattaforma californiana.
L’articolo del “New Yorker”, ripreso anche da “IndieWire”, svela però che, fatta eccezione per il ristretto gruppo di attrici principali con un contratto da regular (cioè accreditate in ogni singolo episodio, che vi compaiano o meno), tutte le altre e gli altri – e il cast è davvero ampio – non sono mai stati pagati adeguatamente. In molti hanno dovuto tenere o cercare almeno un secondo lavoro per tutta la durata dello show, in tanti hanno anche investito soldi di tasca propria perché, per esempio, il loro contratto non copriva gli spostamenti verso il set. Tutto ciò era possibile perché, venendo la serie realizzata per una piattaforma streaming e non per un canale tv tradizionale, i produttori non erano tenuti ad applicare gli accordi previsti dal contratto di categoria, e in generale insistevano sul fatto di avere pochi soldi rispetto ai network storici. Ad attori e attrici – ma lo stesso vale per gli sceneggiatori e le sceneggiatrici – il lavoro veniva venduto come quello di un progetto sperimentale, con un budget poco elevato; i numeri relativi alle visualizzazioni venivano (e vengono tuttora) tenuti segreti, non essendo misurabili da enti esterni come invece accade con i network broadcast e cable. Col passare degli anni, però, il successo di Orange Is the New Black diventava sempre più lampante: le attrici venivano riconosciute ovunque, le nomination e i premi si accumulavano (a proposito: anche andare agli award show in abiti d’alta moda e in forma smagliante era un costo a carico delle interpreti stesse, che spesso non potevano permetterselo), e Netflix annunciava agli investitori e al pubblico, trimestre dopo trimestre, crescite stratosferiche di abbonamenti e investimenti sempre più prodigiosi.
Il cast di comprimari e guest star e la writers’ room non hanno visto grandi riscontri economici da questo successo. E al momento di riscuotere i residual – un’entrata che da sempre garantisce il sostentamento, almeno tra un impiego e l’altro, dei lavoratori dello spettacolo hollywoodiano – hanno scoperto che le percentuali derivanti dallo streaming ammontavano letteralmente a pochi centesimi. In sostanza, Netflix ha costruito il proprio impero anche sullo sfruttamento del cast di Orange Is the New Black (e, con ogni probabilità, di molte altre sue altre serie “originali”), utilizzandolo per imporsi come potenza globale e modificando nel frattempo in profondità tutto il panorama dell’intrattenimento. Oggi lo streaming è, per la maggioranza degli spettatori, la fonte primaria di film e tv, ma – come qualcuno aveva predetto – è un modello difficilmente sostenibile sulla lunga distanza, soprattutto ora che l’espansione internazionale e la conquista di nuovi abbonati sembrano arrivate al punto di saturazione. Mentre i loro stipendi aumentavano del 53%, arrivando a circa 28 milioni di dollari l’anno, i CEO e i dirigenti dei colossi streaming e delle conglomerate dei media smantellavano la filiera hollywoodiana, riducendo la possibilità di sostentamento della classe lavoratrice della fabbrica dei sogni – gli attori non celebri, le comparse, gli stand-in, gli staff writer e gli script editor, per non parlare di tutte gli altri ambiti professionali “non creativi”, dagli elettricisti ai tecnici del suono, etc. Una classe lavoratrice che compone il 95% dell’industria, e che come in tanti altri settori professionali, oggi, scopre che il proprio lavoro è diventato un lavoretto, un impiego a chiamata, da pochi spiccioli, precario e senza tutele, che non permette di pagare affitto e bollette, figuriamoci l’assicurazione sanitaria.
Gli sceneggiatori prima, e ora gli attori, spiegando le ragioni dello sciopero hanno parlato a più riprese di «battaglia esistenziale». Non solo perché la diminuzione dei compensi e la precarietà sempre più diffusa rendono sempre più difficile la sopravvivenza quotidiana di tutti i lavoratori hollywoodiani che non sono star o grandi nomi, ma anche perché l’altro grande oggetto del contendere riguarda l’uso delle nuove tecnologie digitali e delle intelligenze artificiali. Se da mesi le discussioni su ChatGPT e simili sembrano aver invaso ogni campo del dibattito pubblico, è perché l’evoluzione delle AI sta procedendo a una velocità supersonica, ma algoritmi e analisi di dati influenzano sempre più, e già da tempo, la produzione cinetelevisiva. Di nuovo, è una conseguenza dell’imposizione del modello streaming: le piattaforme monitorano nel dettaglio il nostro comportamento di utenti, dando l’impressione che sia possibile prevederlo al millimetro e produrre, con una sorta di formula matematica, successi preconfezionati (anche se, finora, non è praticamente mai successo: anche i maggiori successi di Netflix, come Stranger Things o Squid Game, sono esplosi inizialmente con il passaparola). I vertici dei grandi studios non fanno mistero di voler utilizzare programmi di intelligenza artificiale per scrivere sceneggiature, o impiegare le tecnologie digitali e la computer grafica per sostituire gli attori (ovviamente diminuendo, se non azzerando, il compenso per gli umani): un po’ come in un episodio dell’ultima stagione di Black Mirror, il futuro che si immaginano è quello in cui il fantomatico Algoritmo potrà generare nuovi contenuti a partire da una manciata di input e utilizzando immagini, voci e movenze di attori precedentemente scansionati. Insomma, un futuro dove saranno le macchine a produrre intrattenimento e arte, mentre alla maggior parte degli umani non resteranno che lavoretti di servizio e fatica…
La tentazione di cadere nella paranoia apocalittica è forte, e d’altronde abbiamo notato tutti, da qualche anno, l’abbassamento della qualità media nella produzione di massa dell’intrattenimento televisivo e cinematografico: qualcosa che non è solo evasione o svago, ma informa e alimenta il tessuto collettivo della cultura popolare. Il bello di cinema e tv è (o dovrebbe essere), tra le altre cose, la loro continua trasformazione, per cui non ci preoccupa davvero che show uguali a La tata o Orange Is the New Black non vengano mai più realizzati, anzi, è giusto e normale (ci preoccupa molto invece l’idea di non poterli più rivedere, e si torna allo sciopero: gli studios hanno iniziato a togliere dai cataloghi delle proprie piattaforme anche serie e film di cui possiedono i diritti per non dover pagare i residual ad attori e autori…). Ma qualcosa di altrettanto ben fatto, appassionante, divertente, e perfino rivoluzionario… quello, sì, ci mancherebbe come l’aria. ALICE CUCCHETTI
Il giorno è arrivato: domani, 20 luglio, arriva finalmente in sala Barbie di Greta Gerwig, la cui campagna promozionale rosa shocking ha invaso schermi grandi e piccoli negli ultimi mesi. Ne parliamo sul numero di Film Tv in edicola, e sul prossimo troverete la recensione. Nel frattempo, vi proponiamo di recuperare il servizio con cui, per l’uscita del suo Piccole donne, facevamo il punto sulla breve ma già acclamata carriera di Gerwig regista, sul n. 1/2020.
Come un romanzo
Gli inglesi lo chiamano coming of age: l’età (sottinteso: quella adulta) è qualcosa a cui si arriva, che si raggiunge, la cima di una scalata che porta alla maturità. In italiano (ma anche in tedesco, ovvio) diciamo invece “romanzo di formazione”: l’accento è sull’educazione, al sapere e ai sentimenti, sul processo faticoso e accidentato di edificazione di sé, pensando l’identità come qualcosa da scolpire, modellare, plasmare, un po’ come fosse un’opera d’arte. Per le storie di Greta Gerwig si possono usare entrambe le espressioni, anche se l’indiscutibile precarietà su cui si concludono, comunque, i suoi viaggi dell’eroina fa propendere per la seconda: crescere è un work in progress mai finito. Un visitatore del tempo piombato qui direttamente dagli anni zero potrebbe chiedersi cosa ci faccia oggi Gerwig, ex it girl del circuito iper-indie newyorkese e musa del mumblecore trainato da Joe Swanberg, dietro la macchina da presa dell’ennesimo remake hollywoodiano di un classicone ottocentesco, il tipico film in costume fitto di grandi star e dai valori produttivi ingenti ed evidenti; anche Lady Bird, l’acclamato debutto in solitaria, nel 2017 - dopo la co-regia (con Swanberg, appunto) di Nights and Weekends nel 2008 - aveva tutte le caratteristiche del teen drama “alla Sundance”, dal ritmo aneddotico ai colori nostalgici. Ma l’approdo a Piccole donne è più che coerente col suo percorso d’autrice, che, ricordiamo, comprende le co-sceneggiature di Frances Ha e Mistress America, scritte anche con il corpo, da protagonista, e dirette dal compagno Noah Baumbach: come Lady Bird sono studi di caratteri letteralmente “in formazione”, di persone «non ancora vere». Trasporre uno dei Bildungsroman più influenti della storia della letteratura (almeno per ogni generazione di lettrici, dal 1868 a oggi; per i lettori, aspettiamo che vincano il pregiudizio che ancora troppo spesso accompagna le narrazioni “al femminile”) diventa una scelta naturale, anche perché, oltre a essere un coming of age moltiplicato per quattro, è anche un’indagine approfondita di uno dei rapporti familiari più complessi (e paradossalmente non abbastanza affrontati), quello tra sorelle: totalizzante e conflittuale, intessuto d’affetto supremo come di rivalità, destinato a restare cambiando, a “formarsi” insieme alle identità adulte delle protagoniste. D’altronde le relazioni tra donne - l’amicizia in Frances Ha e in Lady Bird, l’inestricabile grumo di fascinazione e sfruttamento in Mistress America, il confronto/scontro madre-figlia ancora in Lady Bird - sono fin qui l’ossatura dei film di Gerwig, il suo territorio esplorativo d’elezione insieme allo spazio sospeso della scoperta di sé. Da attrice, lo insegue insieme alle sue protagoniste, distillando spesso interpretazioni memorabili (in Piccole donne, oltre a Saoirse Ronan, svettano Florence Pugh e Laura Dern), e lo imbeve, tra ambizione e naïveté, di sfacciato autobiografismo (qui tracciando l’equivalenza tra Alcott, Jo e se stessa): anche la sua opera è un romanzo di formazione. Di cui aspettiamo il prossimo capitolo, un’inaspettata Barbie (con Margot Robbie) costretta a diventare vera. ALICE CUCCHETTI
Sempre a proposito di Barbie, Greta Gerwig ha condiviso con Letterboxd una lista di film da cui ha tratto ispirazione per il suo film, raccontando anche come e perché [in inglese].
Se leggere di La tata vi ha fatto venire nostalgia per i suoi straordinari abiti multicolori, non potete che tuffarvi in questo sito che li cataloga tutti, episodio per episodio, e in cui c’è anche una sezione dedicata alla costumista Brenda Cooper. Il guardaroba di Fran fa davvero invidia a quello di Barbie…
È morta Jane Birkin, molto più di un’icona di stile. Su Esquire [in italiano] Giulia Cavaliere ricorda un recente incontro con lei, mentre tra i molti articoli in memoriam di questi giorni quello del New York Times [in inglese] è arricchito di splendide immagini. Il nostro più caloroso consiglio, però, è riguardare Jane B. par Agnès V., di Agnès Varda, su MUBI. E di comprare il prossimo numero di Film Tv.