Singolare, femminile ♀ #095: Funny Ladies
Si conclude questa settimana, con la quinta e ultima stagione, La fantastica signora Maisel: una delle serie più importanti (non solo) degli ultimi anni, che non ci stanchiamo mai di esplorare. Cominciamo a salutarla ricordando le vere pioniere della comicità che l’hanno ispirata, Joan Rivers in testa.
Nel secondo episodio della quinta e ultima stagione di The Marvelous Mrs. Maisel, Midge, che ha cominciato a lavorare nella writers’ room del Gordon Ford Show, incontra negli uffici del network il produttore George. «Conoscerai di sicuro Madelyn Pugh!» le dice, stringendole la mano. «Scriveva per I Love Lucy. Una signora divertente!». Ovviamente Midge non conosce Madelyn Pugh, perché – e qui sta il cuore della battuta – non tutte le sceneggiatrici e le donne che lavorano nella comicità si conoscono e frequentano tra loro, soprattutto se vivono agli estremi opposti del continente (il Gordon Ford Show si filma a New York, mentre I Love Lucy si è sempre girato a Los Angeles, per ferrea volontà delle sue star Lucille Ball e Desi Arnaz). Ma lo scambio è anche un modo intelligente di menzionare una collega di Midge realmente esistita, di ricordarla e renderle merito: è vero che la fantastica signora Maisel è una pioniera, che deve farsi strada a fatica in un mondo maschile che nemmeno contempla la sua presenza (significativo in questo senso è il gag ricorrente con i genitori di Joel, che paiono semplicemente non registrare alcun suono quando lei parla del suo lavoro), ma è anche vero che Midge non è l’unica, nonostante le apparenze.
Come hanno avuto modo di segnalare critici ed esperti fin dalla prima stagione della serie creata da Amy Sherman-Palladino, la stessa Midge Maisel, per quanto personaggio immaginario, ha un’ispirazione reale, e volutamente ben individuabile: Joan Rivers, considerata una leggenda dal mondo della comicità statunitense (maschile e femminile: basterebbe anche solo il doppio episodio che le dedicò Louis C.K. in Louie a esplicitarlo). Maisel e Rivers condividono parecchio, nella biografia e anche nello stile. Ebrea, figlia di una famiglia agiata (anche se di Brooklyn e non dell’Upper West Side), laureata a un’università prestigiosa, giovane divorziata dopo un brevissimo matrimonio, Joan Rivers cominciò a esibirsi a fine anni 50 nei locali del Greenwich Village di Manhattan, proprio come Midge, tra cui il Gaslight Café (che esisteva davvero, ed era frequentato anche dai poeti beat Allen Ginsberg e Gregory Corso, e da Bob Dylan). Appartenente alla generazione di Woody Allen e George Carlin («anche se loro erano tutti maschi e non mi sono mai sentita completamente parte del club»), Rivers fu enormemente influenzata dalla comicità straniante e scorretta di Lenny Bruce: vederlo «fu un’epifania» ebbe poi modo di raccontare. «Portò la rivelazione che le verità personali potevano essere il fondamento della comicità, che tutto ciò che era oltraggioso poteva essere anche catartico, e sano». E Lenny Bruce, dal canto suo, fu un sostenitore di Joan Rivers – anche se non risultano ufficialmente flirt o relazioni romantiche tra i due, come invece succede nella serie tra il comico (interpretato da Luke Kirby) e Midge Maisel. L’aneddoto, raccontato da Rivers moltissime volte, vuole che, dopo un suo show andato particolarmente male, in cui gli spettatori l’avevano insultata e fischiata, Bruce le fece recapitare un biglietto con scritto: «Loro hanno torto. Hai ragione tu».
Ancora di più, è l’aspetto di Maisel e Rivers a tracciare il parallelismo definitivo, e il tipo di esibizione che vi costruiscono attorno. Il little black dress, l’abito nero da cocktail con il filo di perle che Midge decide di indossare come una divisa alla fine della prima stagione – quando adotta definitivamente “Mrs. Maisel” come nome d’arte: tecnicamente, dopo il divorzio, non è più davvero “la signora Maisel” – è esattamente il modo in cui si è sempre presentata Joan Rivers per tutta la prima parte della sua carriera. La persona comica di entrambe è costruita proprio sul contrasto tra l’apparenza elegante, perfino formale, e sulla loro bellezza “convenzionale” (cambia la chioma: bruna quella di Midge, biondissima quella di Rivers) che evoca immediatamente l’immagine “delicata” ed “educata” di una signora perbene, mentre i monologhi che escono loro di bocca sono sfacciati, personalissimi, perfino scurrili, contro ogni tabù dell’epoca (ricordate lo “scandalo”, nella terza annata, quando Midge osò parlare di gravidanza?), e pure oggi (Rivers ha sollevato controversie per tutta la sua carriera – tra le altre cose, per le sue battute sulla Shoah). Rivers perfezionò – insieme a Woody Allen, cui è stata spesso accostata – uno stile di stand-up ancora oggi estremamente in voga, il flusso di coscienza nevrotico, autoironico e autocritico, con frequentissimi rimandi al sesso (percepiti come scandalosi almeno per tutti gli anni 60 e gran parte dei 70) e in generale quello che in gergo viene chiamato “blue material”, battute che contengono parolacce e che toccano argomenti solitamente considerati “indecenti”.
Nella quinta e ultima stagione di La fantastica signora Maisel, lo dicevamo in apertura, Midge “abbandona” temporaneamente la stand-up comedy per fare gavetta nella stanza degli sceneggiatori di un seguitissimo talk show serale. Il Gordon Ford Show è anch’esso fittizio, ma il modello è chiaramente il Tonight Show di Johnny Carson, per decenni uno dei programmi più seguiti e amati degli Stati Uniti. E fu proprio con una prima gloriosa ospitata da Johnny Carson che Joan Rivers raggiunse la grande notorietà e il successo (quello che succederà a Midge nel finale di serie? Per il momento sappiamo “solo”, grazie a ingegnosi e bellissimi flash forward, che è destinata a diventare davvero una leggenda dello showbusiness, proprio come la sua controparte reale). Carson fu un mentore per Rivers, e uno dei suoi maggiori sostenitori, la invitò spesso in trasmissione (per tutti gli anni 60 la comedian era una presenza ricorrente in tv, tra il Carol Burnett Show, l’Ed Sullivan Show, il Dick Cavett Show…) e fu a sua volta il suo primo ospite quando, nel 1968, le fu affidato un programma personale nel daytime. Come capita nella serie a Midge con l’amica manager Susie, anche il rapporto tra Joan Rivers e Johnny Carson s’interruppe bruscamente, e malamente, senza tra l’altro mai risanarsi, quando nel 1986 la comica accettò di condurre per la Fox The Late Show Starring Joan Rivers, primo caso nella tv a stelle strisce di una donna alla guida di un late show. Il programma si trovava però nella fascia oraria in competizione diretta con il Tonight Show di Carson, che non le perdonò mai non tanto di aver accettato l’impiego quanto di non avergliene parlato prima che la notizia diventasse pubblica.
Naturalmente Midge Maisel e Joan Rivers non sono perfettamente sovrapponibili (una prima differenza è quella politica: Rivers fu dichiaratamente repubblicana, e carissima amica di Nancy Regan, mentre per quanto mai dichiarate esplicitamente le convinzioni di Midge sembrano andare in una direzione più progressista; di contro, mentre Midge riesce a mantenere il proprio stile di vita borghese e benestante, Rivers passò lunghi periodi in povertà prima di raggiungere il successo), e della carriera futura dell’eroina interpretata da Rachel Brosnahan non possiamo sapere evidentemente tutto. Non ci stupiremmo però di scoprire che, proprio come Joan Rivers, anche Midge “inventerà” le corrispondenze dal red carpet incentrate sulla moda, o uno show basato sugli outfit delle celebrity come il Fashion Police che Rivers condusse tra il 2010 e il 2014 (e per il quale, ancora una volta, fu anche aspramente criticata, accusata di inevitabile bodyshaming o di semplice cattiveria – ma, d’altronde, non abbiamo notato fin dal pilot l’ossessione per la magrezza, l’eleganza e le proporzioni perfette di Midge Maisel e della sua cerchia sociale?).
Mettendo in parallelo le carriere di autrici televisive di Midge e Joan (anche Rivers, soprattutto a inizio carriera, ma non solo, scrisse molto per altri) incontriamo un’altra comedian che è servita da ispirazione a Amy Sherman-Palladino. Phyllis Diller fu la prima persona per cui Rivers lavorò come junior writer, nel 1968: le fece da mentore e le offrì consigli preziosi, come raccontò la stessa comedian in un articolo in memoriam scritto nel 2012. «Phyllis ha aperto la strada non solo a me ma a tutte le donne stand-up comedian» spiega Rivers, ricordandola. «E l’ha fatto costruendo un primo ponte tra idee antiche e nuove su come dovesse essere una comica. All’epoca dei suoi inizi, tutte le comedian dovevano apparire divertenti per essere considerate divertenti. Se eri carina, eri automaticamente una cantante» (quante volte, nel corso di La fantastica signora Maisel, qualcuno ha dato per scontato che Midge fosse una cantante, a causa del suo aspetto avvenente?). «Alle donne, semplicemente, non era concesso essere divertenti e belle». Phyllis Diller è dichiaratamente un’ispirazione (non l’unica, come vedremo) per un altro indimenticabile personaggio di La fantastica signora Maisel, la Sophie Lennon interpretata da Jane Lynch.
Nata nel 1917 (16 anni prima di Rivers, che era del 1933), Diller a fine anni 50 era probabilmente la donna comedian più celebre del paese. Aveva debuttato nello showbusiness piuttosto tardi, a 37 anni, spinta dal marito (di cui s’inventò una versione caricaturale chiamata di continuo in causa nei suoi monologhi da “casalinga disperata”). Proprio come Sophie Lennon, si costruì una maschera clownesca, popolare e sgraziata – quando in realtà era compita, borghesissima ed elegante – attraverso cui esprimere battute frequenti e velocissime, punchline in cui, quasi sempre, a esser presa metaforicamente a pugni era prima di tutto lei stessa. Nei primi anni 60 si esibiva al Greenwich Village, al Bon Soir: ad aprire per lei, c’era una giovane Barbra Streisand (a proposito: se volete sentire come suonava da ventenne la divina Barbra, ascoltate questo strepitoso album live, ritrovato e pubblicato l’anno scorso). Parrucca bionda, abiti sgargianti, piume, lungo bocchino con finta sigaretta in legno (lei non fumava), anche Diller per tutti gli anni 60 e 70 fu una presenza regolare nel circuito dei late show televisivi, ma ebbe anche molti ruoli cinematografici, e anche un’ulteriore longeva carriera nel doppiaggio (tra le ultime parti vocali, quella della madre di Peter in I Griffin).
Da qualche settimana, su Prime Video, c’è un divertente stand-up comedy special di Alex Borstein, l’attrice e comica che in La fantastica signora Maisel interpreta la mitica manager Susie Myerson (e che in Usa, pensate un po’ i corsi e ricorsi, è famosissima anche come voce di Lois, sempre in I Griffin). Lo special s’intitola Corsetti e costumi da clown, e uno dei temi ricorrenti su cui s’interroga Borstein riguarda appunto la percezione di sé nello sguardo altrui cui una donna non riesce, non può mai sottrarsi. La dicotomia del titolo, quella tra abbandonarsi alla clownerie, alla buffoneria totale, alla maschera esagerata e comica, o invece prediligere i corsetti, spogliarsi, dire sul palco qualsiasi cosa di sé (e degli altri), lasciarsi andare senza freni all’onestà anche indecente, al blue material, sembra ricalcare le differenze che intercorrono tra Phyllis Diller e Joan Rivers (e tra Sophie Lennon e Midge Maisel), riassumendo un dilemma della condizione femminile che scavalca i confini del palcoscenico per riproporsi spesso, inaspettatamente, anche nella quotidianità (sia i corsetti sia i costumi da clown, tra l’altro, sono non a caso scomodissimi). Un dilemma che prima di Rivers e Diller semplicemente non si dava – le artiste della comicità che c’erano (e ce n’erano, per quanto in sproporzionata minoranza rispetto agli uomini), come le leggendarie Fanny Brice (ovvero la Funny Girl poi incarnata in musical sempre da Streisand) e Moms Mabley (che appare anche in La fantastica signora Maisel, interpretata dalla comedian d’oggi Wanda Sykes, nella rovinosa puntata dell’esibizione all’Apollo Theater, a fine terza stagione), la regina del vaudeville Sophie Tucker (che agli inizi si esibì anche in blackface, e che basava molto del suo umorismo sulla maschera di donna grassa), la caricatura della hillbilly sudista Minnie Pearl, o ancora la madre di Lenny Bruce, Sally Marr, a sua volta stand-up comedian (imitatrice soprattutto) e scopritrice di talenti (come Susie?), e molte altre, si guadagnavano l’accesso al palco e alle risate del pubblico indossando varie tipologie di “costumi da clown”, spesso calcando la mano sullo stereotipo che facevano di sé.
Così come, nel periodo contemporaneo a Diller e Rivers, faceva un’altra celebre comica, Totie Fields, utilizzando la propria fisicità ingombrante come obiettivo continuo di self-deprecating humour (lo tradurremmo come “autoironia”, anche se ha una sfumatura decisamente meno indulgente): «Sono a dieta da due settimane, e tutto quel che ho perso sono due settimane» era una delle sue battute ricorrenti, anche se a differenza della Sophie Lennon di Mrs. Maisel non inossava protesi per esagerare il proprio peso. Rivers e Fields potrebbero anche aver ispirato l’irriducibile conflitto tra Midge e Sophie. In uno dei suoi memoir, Rivers ha raccontato di aver faticato a trovare ingaggi in alcuni celebri club, anche dopo la fortunata prima apparizione al Tonight Show di Johnny Carson, e di aver poi scoperto che la colpa era di Totie Fields, che spargeva volutamente voci negative sul suo conto. Un vero e proprio sabotaggio, come quello che Sophie mette in atto ai danni di Midge nella seconda stagione. Nel caso di Rivers e Fields, c’entravano soprattutto differenze di classe (la seconda disprezzava la prima, credendola una ragazza viziata e privilegiata), e soprattutto la feroce competizione che s’innesca quando qualcuno sente di doversi contendere uno spazio ristrettissimo (e alle donne la “sindrome di Puffetta” capita di continuo: “abbiamo già una comica donna, ce ne servono davvero due?”). Rivers, però, racconta anche che molti anni dopo, nel 1978, dopo uno show a Las Vegas, si ritrovò Fields in camerino: malata, terribilmente smagrita, invariabilmente combattiva (nonostante un tumore e pochi mesi di vita davanti, aveva da poco registrato un suo comedy special), aveva assistito al suo spettacolo e voleva complimentarsi. Passarono un’ora insieme a scambiarsi ricordi e confidenze (e chissà se si sono chieste «vuoi dire che per tutto questo tempo avremmo potuto essere amiche?», come fanno Bette Davis e Joan Crawford nell’onirico finale della serie Feud).
La strada aperta da Diller e poi spalancata da Rivers è un percorso (più o meno consapevole, importa relativamente) d’emancipazione che partecipa, contemporaneamente stimolandola, a una fondamentale rivoluzione nella comicità tout court, verso una modernità meno vaudeville, in direzione sia di una maggiore essenzialità sia di una carica oltraggiosa dirompente e liberatoria. E la nascente industria televisiva gioca un ruolo fondamentale in questo processo, offrendo ai e alle comedian spazi e audience prima irraggiungibili, e – soprattutto nei suoi primi anni di vita – un terreno nuovo di sperimentazioni: anche per questo, immaginiamo, Amy Sherman-Palladino ha voluto omaggiare il suo medium d’appartenenza, il piccolo schermo così a lungo bistrattato, in questa quinta e ultima stagione di La fantastica signora Maisel, portandoci con Midge dietro le quinte di uno show, nelle writers’ room e nei corridoi di un network, e nei bar e nei luoghi d’incontro collaterali degli uomini e delle donne di spettacolo. Negli stessi anni di Maisel, Rivers, Diller e Fields, crescevano altri talenti femminili – tra le ispirazioni per il personaggio di Mrs. Maisel ci sono anche Belle Barth, Pearl Williams, Jean Carroll –, alcuni dei quali avrebbero plasmato Hollywood, sul piccolo e sul grande schermo: come la grande Carol Burnett (che ha da poco celebrato i 90 anni ed è stata festeggiata da NBC con lo special Carol Burnett: 90 Years of Laughter + Love), o come Betty White (di cui vi avevamo raccontato in questo numero della newsletter), o ancora come la grande Elaine May (cui speriamo di riuscire a dedicare, prima o poi, un numero di Singolare, femminile – peraltro, veniva citata anche nei primi episodi di La fantastica signora Maisel, perché negli anni 50 era già celebre per la sua comicità d’improvvisazione in coppia con Mike Nichols, nel duo Nichols & May). Con corsetti o costumi da clown, little black dress o parrucche, fili di perle o boa di piume: anche la rivoluzione ha molte maschere, e si può fare con tutto, soprattutto con le risate, quelle liberatorie, quelle illuminanti e quelle amare. ALICE CUCCHETTI
Nell’incipit della newsletter di questa settimana citiamo I Love Lucy, e non c’è dubbio che la sua protagonista e produttrice Lucille Ball sia una delle figure titaniche – quasi una benevolente divinità – che aleggiano come ispirazioni su La fantastica signora Maisel. In occasione dell’uscita del film che le ha dedicato Aaron Sorkin, Being the Ricardos, sul n. 4/2022 di Film Tv avevamo tentato di sintetizzare come e quanto Ball abbia cambiato la storia della tv e dell’intrattenimento (non solo) a stelle e strisce.
Tutti amano Lucy
Quando, nella primavera del 1951, Lucille Ball e Desi Arnaz cominciano la produzione di I Love Lucy (Lucy ed io nella versione nostrana, ma solo la prima stagione è stata doppiata e trasmessa in Italia), gli show televisivi si realizzano in diretta, a New York; per trasmetterli all’ora giusta sull’altra costa vengono ri-filmati con un vidigrafo (o kinescope), che ne peggiora la già non eccelsa qualità. In quella primavera del 1951, Ball è finalmente incinta, a 39 anni, dopo un decennio di tentativi, e la coppia non ha nessuna intenzione di traslocare dalla propria casa losangelina. Così Arnaz ha un’idea semplice e geniale: I Love Lucy verrà filmata in pellicola qualche giorno prima della messa in onda, in uno studio cinematografico. È l’innesco di diverse reazioni a catena, e non solo per il miglioramento della qualità video. Per ragioni sindacali legate alle maestranze, ora Ball e Arnaz devono produrre lo show in prima persona, e fondano così la compagnia Desilu (che in futuro realizzerà altre serie cruciali, come Star Trek); i costi di produzione aumentano, su richiesta di CBS e dello sponsor Philip Morris la coppia deve ridursi lo stipendio e in cambio chiede qualcosa che all’epoca si pensava non avesse alcun valore: il possesso dei diritti tv (non appena sarà necessario riempire slot di palinsesto, “inventeranno” le repliche); filmare su pellicola impone un tipo d’illuminazione cinematografica, così Lucille e Desi richiamano dalla pensione il direttore della fotografia Karl Freund (Metropolis, Dracula... Ball l’aveva conosciuto sul set di Mademoiselle Du Barry) e lo convincono a creare il sistema di luci uniformi dall’alto, compatibile con la ripresa in contemporanea di tre camere, una tecnica agli esordi, efficacissima per catturare l’immediatezza degli sketch comici; consapevole delle indispensabili reazioni del pubblico live, Arnaz apre le registrazioni dal vivo a centinaia di spettatori. Nasce così, per ragioni molto pratiche, la situation comedy come la conosciamo: un formato e un linguaggio distintamente televisivi, rimasti pressoché inalterati fino a oggi, e che nel frattempo hanno modellato l’immaginario e la cultura pop degli Stati Uniti e del mondo. Non è solo una questione tecnica: nelle sue sei stagioni (da una trentina di episodi ciascuna!), I Love Lucy pone le basi drammaturgiche del genere, tanto che non è poi eccessivo dire che quasi ogni episodio di quasi ogni sitcom può esser ricondotto a una puntata del pionieristico show. Ad Arnaz si devono grandi intuizioni produttive, ma è il talento comico di Ball il centro pulsante di I Love Lucy, anche testimonianza di una nuova idea di stardom connaturata alla natura del mezzo televisivo: dopo gli inizi, giovanissima, come modella e un periodo sui palchi di Broadway, Ball era stata messa sotto contratto prima dalla RKO e poi dalla MGM, allineando un’infinità di particine e pochi ruoli da co-protagonista, senza mai raggiungere il successo sperato. Gli studios, nonostante il suo poliedrico talento (anche di ballerina e cantante) non riuscivano a trovare “il suo tipo”, a capire in quale specifica immagine di diva modellarla. Verso la fine degli anni 40, ormai superata la temibile “data di scadenza” che incombe su ogni attrice a Hollywood (cioè i 35 anni, più o meno), la sitcom radiofonica My Favorite Husband si rivela un successo inaspettato, ma ancora l’idea che un’interprete cinematografica possa passare alla tv è percepita allo stesso tempo come umiliante e rischiosa: chi dice che questo medium neonato abbia qualche futuro? È invece proprio il nuovo contesto, la vicinanza domestica, il rovesciamento dell’inarrivabile perfezione divistica a segnare per Ball l’apoteosi (anche di ascolti), e per tutti una rivoluzione: la sua fisicità è spericolata, la sua espressività malleabile ed esagerata, la sua voce inconfondibile, il tempismo impeccabile. Non ha paura di niente, se ne frega di apparire “brutta”, smisurata, sgraziata; la risata del pubblico (detiene ancora il record per aver ottenuto la più lunga di sempre, pare) è il suo unico obiettivo. La sua Lucy è sempre una donna decisa a sfondare nel mondo dello spettacolo, ma il sogno di una vita si ribalta nel comico: ingenua ma piena di risorse, da un lato cristallizza l’ideale di moglie borghese anni 50, dall’altro sfugge di continuo a norme, ruoli e regole. Con Lucy e Desi comincia anche la tradizione di sovrapporre persona e personaggio tipica della comicità tv, volutamente coltivata (con la vera gravidanza inserita nel plot, e la pubblicizzata nascita di Desi Jr.), un avvicinamento alla (presunta) autenticità imposta dal mezzo tv. Dopo l’inevitabile divorzio dal cubano Arnaz (era stata lei a lottare per averlo accanto nello show, sgretolando un’altra discriminatoria convenzione dell’epoca, quella che vietava le coppie interetniche), Ball attraversa altri due decenni di sitcom - prima con Vivian Vance in The Lucy Show, poi con i figli in Here’s Lucy - e si trova a presiedere la Desilu: è la prima donna a capo di una major. Proseguendo, per caso, determinazione o destino, a far Storia, tv e rivoluzioni.
ALICE CUCCHETTI
Sono aperte fino al 16 giugno le iscrizioni alla terza edizione del Master in Series Development - Sviluppo e produzione creativa della serialità che prenderà il via 16 ottobre.
Realizzato dalla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti con il sostegno di Netflix, il Master forma la figura del DEVELOPMENT EXECUTIVE che segue lo sviluppo di una serie, dall’ideazione alla messa in onda e prevede 500 ore di alta formazione in aula, 25 stage garantiti, 14 borse di studio. 70 i docenti coinvolti, tutti professionisti del settore riconosciuti a livello internazionale. Webinar di presentazione il 7 giugno.
(contenuto realizzato in partnership con Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti)
Come abbiamo raccontato nell’articolo inedito di questa settimana, in concomitanza con l’uscita dell’ultima stagione di Mrs. Maisel, su Prime Video è stato pubblicato anche uno stand-up special di 80 minuti di Alex Borstein, filmato al Wolford Theater, il set del teatro di burlesque realizzato per la serie di Amy Sherman-Palladino. Borstein è stata anche protagonista di una lunga intervista a “Vanity Fair” e di un bellissimo servizio fotografico per “L’Officiel Australia” [in inglese]. Un altro approfondito articolo sulle comedian che hanno ispirato La fantastica signora Maisel è questo, sul Tascabile, di Marina Pierri [in italiano]. Infine, abbiamo raccontato, e continuiamo a raccontare, le stand-up comedian nella rubrica Funny People, su filmtv.it. Potete scoprire di chi abbiamo parlato qui.
Questo weekend, per la precisione dal 25 al 28 maggio, torna a Milano con la seconda edizione il Festival del ciclo mestruale: si aggiunge la location del cinema Nuovo Armenia, in cui verranno proiettati film e cortometraggi. A Palermo, dal 25 al 31 maggio, si svolge invece il 13° Sicilia Queer Film Fest: tra le molte cose, i tributi a Susan Stryker e Barbara Hammer e la proiezione di La grande abbuffata con Andréa Ferreol (e in giuria c’è anche la nostra Ilaria Feole).
Su “L’Essenziale”, Annalisa Camilli fa il punto, insieme all’associazione Amleta (che negli ultimi due anni ha raccolto più di 200 denunce), sulle violenze e gli abusi sessuali nel mondo dello spettacolo italiano.