Singolare, femminile ♀ #099: Buone madri, cattive madri
Arriva su Netflix Il morso del coniglio, horror psicologico australiano di Daina Reid con Sarah Snook: ne abbiamo approfittato per chiedere alla guest star Cristina Resa di riflettere per noi su rappresentazione femminile, ruolo di cura e capacità del cinema di genere di sovvertire consuetudini narrative, attraverso alcuni film che, nell’ultimo decennio, hanno esplorato l’orrore materno con sguardo inedito.
Dopo la morte del padre, una donna divorziata che lavora come specialista della fertilità si ritrova ad affrontare un inquietante cambio di personalità della figlia di sette anni, il rapporto problematico con la madre, colpita da una forma di demenza e con cui ha da tempo tagliato i ponti, e un trauma che emerge dal passato: è difficile non pensare a film come Babadook di Jennifer Kent o Relic di Natalie Erika James, di fronte alla premessa di Il morso del coniglio, horror diretto da Daina Reid, scritto da Hannah Kent e interpretato da Sarah Snook, appena approdato su Netflix. D’altronde, tutti e tre i lungometraggi sono esordi di registe australiane, quasi a sottolineare come il tema della cura sia centrale in quel determinato contesto.
Il morso del coniglio è il debutto cinematografico di una regista già molto attiva nel campo della serialità: Reid ha infatti diretto episodi di serie come Shining Girls e The Handmaid's Tale. Hannah Kent è invece una scrittrice, autrice di La donna del bosco e Ho lasciato entrare la tempesta, in Italia editi da Piemme. Sarah Snook, beh, non ha certo bisogno di presentazioni, dal momento che, tra le altre cose, si è aggiudicata un posto imperituro nella storia della televisione interpretando Shiv Roy in Succession. Nonostante i talenti coinvolti e le ottime interpretazioni di Snook, che nel film è la madre Sarah, e della piccola Lily LaTorre, che presta il volto imperscrutabile alla figlia Mia, Il morso del coniglio è un’opera poco riuscita per diverse ragioni, tra cui un’indecisione cronica su quello che vuole essere. Infatti, nel tentativo di raccogliere qua e là motivi, temi, atmosfere presenti in altre opere, non riesce a sviluppare in maniera coerente nessun discorso vero e proprio, finendo per essere una versione più meditativa di un horror psicologico estremamente canonico. Nonostante ci siano riferimenti ai temi della maternità e della cura familiare, nessuno di questi viene veramente sviluppato nel corso della narrazione, ma soltanto lambito in modo superficiale. La conseguenza è l’allontanamento del pubblico dal personaggio di Sarah e dalle sue motivazioni rispetto al comportamento verso la madre e la figlia. Tuttavia, il film di Reid è un’occasione per riflettere su come sia cambiata la rappresentazione femminile legata a questi ambiti, attraverso alcuni esempi significativi.
L’horror è un genere che si nutre di se stesso in modo ambivalente: se da una parte ha la tendenza a rinchiudersi in strutture fisse che reiterano i propri modelli, a livello sia narrativo sia formale, dall'altra ha un’innata capacità di riflettere su questa sua peculiarità e rinnovarsi a partire da quegli stessi topoi. Quando, poi, pensiamo alla rappresentazione femminile, questo discorso si fa ancora più complesso, perché entra in gioco la variabile dello sguardo: qual è il punto di vista? Da chi sono scritte queste storie e per quale pubblico? Laura Mulvey, nel celebre saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975), asseriva che nel cinema lo sguardo agente fosse esclusivamente quello dell’uomo e che la donna ne costituisse l’oggetto passivo. Questa posizione, all’epoca, non teneva conto del rapporto delle spettatrici con il mezzo e la stessa studiosa si trovò a riconsiderarla parzialmente in saggi successivi. In ogni caso, è indubbio che lo “sguardo maschile” abbia dominato - e continui a farlo tutt’ora - un certo tipo di cinema di genere assunto come modello e con cui, necessariamente, un’intera generazione di cineaste di oggi si ritrova a fare i conti. È forse questo uno dei motivi per cui il tema della cura, considerata culturalmente e socialmente prerogativa della sfera femminile in un sistema di stampo patriarcale, emerge con tanta frequenza in diversi film horror contemporanei, soprattutto se accomunati dalla volontà di mettere in scena l’esperienza attraverso uno “sguardo femminile”.
La storia del cinema horror, d’altronde, è costellata di figure materne stereotipate derivate dal melodramma: le “buone madri”, volte al sacrificio anche a costo di mettere a repentaglio il proprio benessere, aderenti a una concezione sociale e culturale, che nell’attività di cura vede non solo un dovere ma anche un’espressione di genere; le “cattive madri”, sadiche, gelose, vendicative, il cui atteggiamento possessivo e soffocante nei confronti della prole minaccia di inibirne lo sviluppo, negandone la maturità. Sono, quest’ultime, madri mostruose, che a loro volta generano mostri: pensiamo anche solo a Norma Bates in Psyco (1960) di Alfred Hitchcock. Come nota Sarah Arnold, autrice di un saggio dall’eloquente titolo Maternal Horror Film: Melodrama and Motherhood (2013), il fatto che una delle più celebri figure materne della storia del cinema sia, essenzialmente, un personaggio assente, filtrato dall’immaginazione del suo stesso figlio, dice molto della rappresentazione della maternità nel contesto di riferimento.
La costruzione della figura materna nel cinema horror, inoltre, ha a che fare con un altro concetto chiave del mostruoso, quell’abiezione che riguarda la materialità corporale, definita da Julia Kristeva nel celeberrimo saggio Poteri dell'orrore (1980) come «ciò che turba l'identità, il sistema, l'ordine, che non rispetta confini, posizioni, regole». D’altronde, il corpo femminile, nella sua dimensione fisica o allegorica, è sempre al centro di queste narrazioni in quanto catalizzatore di dinamiche sociali.
Questa idea, che si è sviluppata in relazione alla sua condizione di riproduttività, visto dunque come grembo in potenza, guscio di protezione, nido, ha fatto sì che il ruolo femminile venisse delimitato anche in termini spaziali, richiuso tra le mura domestiche. Ed è questo un elemento che spesso si ritrova in molti film in cui la casa - che nel gotico è manifestazione tangibile di ansie e paure - e la madre diventano espressione una dell’altra: accade, per esempio, nel già citato Psyco, in Carrie - Lo sguardo di Satana (1976) di Brian De Palma e persino in The Others (2001) di Alejandro Amenábar, nonostante le tre storie mostrino una sensibilità legata al tema della maternità decisamente diversa.
E in un certo senso The Others, film con protagonista Nicole Kidman influenzato dalla tradizione del gotico e del melodramma per raccontare una storia di fantasmi, sembra quasi anticipare la tendenza contemporanea nel mettere al centro la figura della madre, invece che concentrarsi sugli effetti del suo rapporto con figli e figlie, come accade invece proprio in Psyco o in Carrie. E altresì interessante notare come lo stesso film di Amenábar prefiguri, sia per modalità di racconto che per temi, le opere che oggi tendiamo a raggruppare sotto l’etichetta “post-horror”. L’espressione, nonostante non calzi perfettamente e sia soltanto un termine ombrello generico, sembra preferibile a definizioni come “elevated/prestige horror” che presuppongono un rapporto di gerarchia tra le forme espressive. In ogni caso, è bene sottolinearlo, il “post-horror” non è un sottogenere, ma una modalità di approccio alla materia narrativa orrorifica con spirito quasi meditativo, riflettendo sull’aspetto esistenziale della paura, concentrandosi sulla rappresentazione del trauma come espressione di un disagio, più che come emozione. In questi film la paura è generata attraverso il perturbante, l’unheimlich preso in prestito dalla psicoanalisi freudiana, che indica una sensazione di inquietudine derivata da una situazione avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo.
E sotto questa etichetta, che naturalmente non è mai normativa ma vuole essere un modo per definire i fenomeni e poterli analizzare, possiamo racchiudere molte delle opere che nell’ultimo decennio hanno trattato il tema della cura da un punto di vista inedito, femminile e femminista. Come scrive infatti Barbara Creed, autrice del seminale saggio The Monstrous-Feminine (1993) e recentemente tornata sull’argomento con il nuovo studio Return of the Monstrous-Feminine (2022): «I film femministi della New Wave raccontano le storie dal punto di vista della protagonista femminile: è la loro storia raccontata con la loro voce. Queste registe non parlano con “una” voce, ma con molte».
Tra queste voci, è doveroso citare quella di Amelia, la protagonista di Babadook interpretata da Essie Davis. Il film di Kent, uscito nel 2014, è diventato ormai un’opera di riferimento in un filone che comincia ad avere i suoi anni per essere considerato come qualcosa di “nuovo”. In qualche modo, rappresenta, a oggi, un modello che ha compiuto e formalizzato le innovazioni stilistiche e tematiche di quello che Creed chiama Feminist New Wave Cinema. ll film di Kent esplora il tema dell’orrore materno da una prospettiva inconsueta. Nelle narrazioni tradizionali, infatti, provare sentimenti diversi dall’amore, tra cui risentimento, rabbia e addirittura odio, nei confronti di figlie e figli è considerato socialmente inaccettabile per le ragioni già esposte in precedenza. Lontana dalla rappresentazione normativa della “buona madre”, così come definita all’interno del contesto patriarcale, Amelia sente il peso della cura che Samuel, un bambino irrequieto, alla costante ricerca del contatto fisico, insonne e ossessionato dall’idea di essere perseguitato da mostri, le impone costantemente. E il mostro alla fine arriva, ma spesso non è chiaro se sia quel Mister Babadook, una creatura alta, pallida, dai tratti espressionisti, un cilindro e dita artigliate, uscito dalle pagine di un misterioso libro pop-up apparso in casa, o sia Amelia, che via via acquista i connotati della “madre mostruosa”.
Da questo punto di vista, la rappresentazione dell’orrore in Babadook è diversa: Kent privilegia la prospettiva di Amelia rispetto a quella del figlio Samuel, sviluppando il tema della maternità da un punto di vista interno, senza il filtro dello sguardo giudicante di una società in cui venire meno al ruolo di cura imposto alle donne viene percepito da sé e dalle altre persone come “fallire”. Kent con Babadook rompe un tabù: nel mettere in scena la rabbia di una madre per la morte prematura del marito, punta l’attenzione sulla sua solitudine, sulla difficoltà di crescere un figlio che ha bisogno di costante cura durante un periodo di depressione legato alla difficoltà di elaborare il trauma di una perdita. In sostanza, mostra, senza giudicare, le emozioni ambivalenti di una madre, il senso di colpa delle donne per i loro “sentimenti socialmente inammissibili” riguardo alla maternità. Di fatto, con il personaggio di Amelia, Kent annulla la distinzione tra “buona madre” e “cattiva madre”, così comune nel cinema horror.
In un saggio dal titolo When Good Mothers Go Bad: Genre and Gender in The Babadook (2016), Paula Quigley riflette proprio sulla messa in scena, che in Babadook è funzionale alla rappresentazione della psicologica frammentata di Amelia. Attraverso particolari inquadrature, noi che stiamo al di qua dello schermo riusciamo a vedere le cose dal punto di vista della protagonista. Scrive Quigley che «privilegiare la soggettività fratturata di Amelia ci allinea con lei». Ed è in fondo quello che ci dice anche Jennifer Kent in questa intervista del 2014, quando ribadisce di aver cercato di restituire il più possibile il punto di vista di Amelia, «in modo che le persone non la giudicassero, ma affrontassero davvero con lei quell’esperienza». Attraverso il filtro dell’orrore e lo sguardo interno di Amelia, la regista ci consegna un ritratto delicato e rispettoso dell’ambivalenza materna, inglobando elementi tipici del gotico e del melodramma, ma sovvertendoli semplicemente cambiando prospettiva.
Al pari dello sguardo, in Babadook anche l’ambientazione è ugualmente fondamentale nella rappresentazione della sua protagonista femminile. La casa, dicevamo, in quanto spazio domestico in cui la società patriarcale colloca il femminile, è espressione della mente e del corpo di Amelia. Il Babadook invade la sua casa, rendendola allo stesso tempo familiare ed estranea, dunque perturbante, e accompagnando Amelia in un viaggio nei territori dell'abiezione, alla ricerca di una consapevolezza lontana dalle imposizioni sociali rispetto all’attività di cura.
Relic di Natalie Erika James pone l’accento su un altro aspetto della cura, cioè l’assistenza alle persone anziane della propria famiglia. In qualche modo, potrebbe costituire il reciproco di Babadook, con cui ha molto in comune. Se nel film di Kent si riflette sulle aspettative sociali nei confronti di una madre single, qui i ruoli si invertono. Vediamo una figlia adulta, chiamata a prendersi cura della madre affetta da una forma di demenza degenerativa, probabilmente Alzheimer, che si comincia a manifestare prima con la perdita di memoria e via via con conseguenze sempre più tragiche. Kay (Emily Mortimer) torna nella sua casa d’infanzia con la figlia Sam (Bella Heatcote), alla ricerca della madre scomparsa, Edna (Robin Nevin), una donna di 80 anni che vive da sola in campagna. Quando Edna riappare un paio di giorni dopo, non dà alcuna spiegazione su dove sia stata, ma nella grande casa, dove nel frattempo è apparsa una strana muffa e gli spazi sembrano un po’ diversi dal solito, cominciano ad accadere fatti inspiegabili.
Relic tratta un aspetto della cura forse più ampio rispetto a Babadook, attingendo all’esperienza del film di Kent, ormai diventato, come si è detto, a sua volta modello, ma moltiplicando le voci: tre protagoniste, tre generazioni di donne della stessa famiglia che condividono un trauma, sentono la responsabilità della cura e ne subiscono il peso nonostante siano spinte dall’affetto reciproco. Scrive la docente di Gender Studies Christine Bauhardt nel saggio dal titolo Nature, care and gender. Feminist dilemmas (2018), «l’impegno delle donne nel lavoro di cura viene dato per scontato, svolto nell’intimità delle proprie quattro mura e quindi stimato non economicamente rilevante, ma è considerato “lavoro per amore”». Ed è proprio “lavoro per amore” quello che accetta Sam, insistendo con la madre Kay per rimanere a vivere dalla nonna e non metterla in una struttura assistenziale. Di contro, nonostante figlia e nipote siano con lei, quella di Edna è un’esperienza di isolamento totale: alla perdita dei propri ricordi corrisponde una perdita d’identità che si riflette sull'ambiente circostante. Anche in questo caso, si instaura una relazione simbolica tra il corpo, quello di Edna, e lo spazio domestico in cui si svolge l’attività di cura. Il corpo materno durante l’invecchiamento è rappresentato come luogo ostile e, ancora una volta, perturbante.
Relic, attraverso la lente dell’orrore, con un’insistenza sugli aspetti più impressionanti di corpi abietti in decomposizione che ammuffiscono come i muri delle case, pone l’attenzione sulle dinamiche familiari che si instaurano di fronte al dramma della malattia senile. Natalie Erika James, in un racconto per sua stessa ammissione estremamente personale, parte dai costrutti sociali che vedono la donna destinata a occuparsi dalle attività inerenti alla sfera privata, per raccontare, però, un’altra storia: quella delle tre protagoniste, che intraprendono il loro personale percorso nell’abiezione, alla ricerca di una nuova consapevolezza dei rapporti che le legano e delle proprie motivazioni, non quelle imposte dalla società, nell’affrontare l’attività di cura.
Questi sono solo alcuni esempi di come molte registe horror hanno affrontato questi temi, ed è interessante soffermarcisi perché aderiscono tutti alla stessa tendenza, che abbiamo definito “post-horror”, provenendo da un medesimo contesto nazionale, e si pongono in continuità l’uno con l’altro. Naturalmente, la lista di esempi di film horror che riflettono sui ruoli femminili di cura è lunga e varia, anche da un punto di vista culturale. Il recentissimo Huesera: The Bone Woman, lungometraggio di debutto della regista messicana Michelle Garza Cervera e co-scritto insieme a Abia Castillo, affronta un argomento estremamente attuale, ma ancora considerato tabù: pentirsi di essere madri. Valeria (Natalia Solián) è una giovane donna che cerca di rimanere incinta del proprio compagno, desideroso di diventare padre. Un tempo era innamorata di Octavia (Mayra Batalla), ma per rimanere vicino alla propria famiglia ha scelto di rinunciare a quella parte di sé, provando a cercare la propria felicità nell’esperienza eteronormativa della famiglia nucleare. Il tema è analogo a quello sviluppato ne La figlia oscura, sia il libro di Elena Ferrante sia il film di Maggie Gyllenhaal, ma Michelle Garza Cervera si serve del linguaggio dell’orrore per mettere in scena l’isolamento di Valeria, la sua emotività frantumata costantemente rievocata dal suono di ossa che si spezzano che accompagna l’apparizione della donna che la perseguita, la Huesera.
Colpisce come la storia di una donna oppressa da un contesto fortemente tradizionale scelga di aderire narrativamente a quella stessa tradizione, avvalendosi di una matrice folklorica nella caratterizzazione della creatura che innesca il meccanismo dell’orrore, ispirata a un racconto popolare messicano. La Huesera, come Mister Babadook, è una rappresentazione esteriore di una condizione interiore ed è il modo con cui le autrici dei due film instaurano una connessione tra le protagoniste e il pubblico che è chiamato a partecipare alla loro esperienza. In questo caso, il corpo è al centro di una narrazione che assume vagamente i connotati del body horror, il filone che ha fatto della corporeità abietta, sempre nel senso che ne dà Kristeva, il veicolo per esplorare le ansie sociali.
In un atlante del mostruoso femminile legato alla maternità, possiamo dunque tratteggiare un percorso che, dalla donna-madre vista da un'ottica prettamente patriarcale, conduce, abiezione dopo abiezione, sempre meno legata all’identificazione del femminile con la sua funzione riproduttiva. D’altra parte, come scriveva Simone de Beauvoir in Il secondo sesso (1949), «la donna non è definita né dai suoi ormoni, né da istinti misteriosi, ma dal modo con cui riprende possesso, attraverso le coscienze estranee, del proprio corpo e del proprio rapporto col mondo». Ed è proprio quello che fanno le protagoniste di questi film. CRISTINA RESA (co-conduttrice del podcast Incompetenti, autrice per IGN Italia, collaboratrice della newsletter Ghinea; qui il suo profilo Letterboxd)
Dopo il successo di Babadook, l’australiana Jennifer Kent ha portato in Concorso a Venezia nel 2018 la sua opera seconda The Nightingale, che ha scatenato reazioni idiote e polemiche, dividendo la critica e vincendo il premio speciale della Giuria. In Italia il film è poi uscito direttamente in dvd: vi riproponiamo la nostra recensione, pubblicata sul n. 13/2021 di Film Tv, di un lavoro certamente imperfetto, ma potente.
The Nightingale
«Le lacrime sono roba da femmine» dice sprezzante un bimbo, testimone di violenze insostenibili, nel tentativo di rincuorarsi ribadendo l’appartenenza al sesso forte. Siamo nel 1825, nel pieno della conquista coloniale inglese in Tasmania, una Frontiera oceanica che si edifica intorno a linee invalicabili - tra uomini e donne, tra bianchi e neri, tra inglesi e resto del mondo - destinate a modellare leggi, economia e civiltà (e quindi ingiustizie, divari e soprusi) del Nuovo mondo. All’opera seconda (Premio speciale della giuria a Venezia 2018) dopo l’horror Babadook, l’australiana Jennifer Kent allarga l’orizzonte (da una famiglia a una nazione) nel riproporre il genere (The Nightingale si muove nei territori del western) come chiave di lettura di traumi e rimossi: se il Babadook era personificazione di un lutto non elaborato, qui gli scheletri nell’armadio sono quelli del genocidio perpetrato dagli inglesi sulla popolazione aborigena e della violenza sistematica sulle donne (“esportate” in Tasmania per bilanciare la schiacciante maggioranza maschile). “L’usignolo” del titolo è Clare (Aisling Franciosi, fenomenale), detenuta irlandese ai lavori forzati e “proprietà” di un ambizioso e frustrato ufficiale, umiliata, stuprata e infine, in un parossismo di violenza tanto gratuita quanto crudelmente coerente con la mentalità coloniale, costretta a veder morire le persone che ama. Dalle ceneri di una donna annientata sorge una creatura che nella sete di vendetta trova la forza di valicare tutte le succitate linee di demarcazione del Nuovo mondo: Clare prende con sé una guida aborigena, Billy, a sua volta privato della famiglia dai coloni, e insegue i suoi aguzzini, decisa, anche se donna e non inglese, a ottenere giustizia. Prende così il via quello che a tutti gli effetti è un rape and revenge intersezionale: tra Clare e Billy, entrambi carne da macello, superato il reciproco disprezzo (lei non si fida di lui in quanto nero; lui non sa che Irlanda e Inghilterra sono due cose diverse), nasce un’alleanza fondata su un’identica causa, ovvero il diritto di essere considerati persone, dove la rabbia dell’una travasa nei gesti dell’altro, e viceversa. Kent impronta il suo western oceanico a un realismo fatto di lentezza (quel fucile la cui ricarica richiede tempi esasperanti, come in Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt) e di brutalità reiterate, dalla messa in scena a tratti potente, più spesso minata da una sceneggiatura didascalica sino alla ridondanza («questa è la mia terra» prorompe Billy), che enunciando ripetutamente il suo già lampante sottotesto rivela l’urgenza del messaggio antisessista e antirazzista, ma denota anche una incerta fiducia nella forza e nelle potenzialità del linguaggio cinematografico. ILARIA FEOLE
Felice Pride Day! È vero che agli eventi per la celebrazione dell’orgoglio LGBTQ è tradizionalmente dedicato tutto il mese di giugno, ma il 28 giugno è la data dell’anniversario del primo Gay Pride, che a sua volta commemorava e celebrava le rivolte di Stonewall del 1969. Come lettura, vi suggeriamo tutto lo speciale di articoli e liste curato questo mese da IndieWire, in particolare quello dei 23 migliori lesbian movie di sempre e – visto il tema di questa newsletter – quello dei migliori horror queer e omoerotici.
Dal 29 giugno al 2 luglio, a Ostuni, in Puglia, si svolge la seconda edizione di Sherocco Festival: ospiti, spettacoli, musica, teatro, mostre e laboratori su studi di genere e teoria queer. Fino al 24 settembre, a Brescia, è in corso la mostra, a ingresso gratuito, Le ragazze non sanno disegnare, dedicata alle donne del fumetto italiano.
Alla coniugazione dell’horror contemporaneo su temi, argomenti e modi narrativi del femminile avevamo dedicato il n. 47 della newsletter, che vi suggeriamo di recuperare. Per approfondire il discorso del testo scritto da Cristina Resa, ecco una breve bibliografia (quasi tutta in inglese):
Arnold, Sarah, Maternal horror film: melodrama and motherhood, Palgrave Macmillan, 2013
Bauhardt, Christine. “Bauhardt Nature, Care and Gender. Feminist Dilemmas”, in Feminist Political Ecology and the Economics of Care. In Search of Economic Alternatives, Routledge, 2018
Creed, Barbara.The Monstrous-Feminine: Film, Feminism, Psychoanalysis, Routledge, 1993
Creed, Barbara. Return of the Monstrous-Feminine: Feminist New Wave Cinema, Routledge, 2022
Church, David. Post-Horror. Art, Genre and Cultural Elevation, Edinburgh University Press; 2021
de Beauvoir, Simone, Il secondo sesso, Il Saggiatore, 2017, edizione originale 1949
Julia Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull'abiezione, Spirali, 1981, edizione originale 1980
Mulvey, Laura, “Visual Pleasure and Narrative Cinema” (1975), in Mulvey, Laura, Visual and Other Pleasures, Indiana University Press, 1989