Singolare, femminile ♀ #097: La vita acquatica
Cercate un’altra sirenetta, diversa da quella che sguazza in sala e in testa al box office nel remake live action della Disney? Ve ne offriamo dieci (e anche qualcuna in più), in un viaggio tra gli abissi marini del cinema, sulla scia di una figura mitologica dalla natura anfibia e liquida, infinitamente evocativa, capace di incarnarsi in mille vite.
Da una decina di giorni è approdato al cinema La sirenetta, remake in live action del Classico Disney del 1989: esperimento ibrido – come ha notato Mariuccia Ciotta nella sua recensione su Film Tv – che sovrappone le interpretazioni in carne e ossa di attori e attrici alla computer grafica necessaria per “dare vita” alla vita sui fondali marini. Chi scrive nutre da sempre grandi perplessità sulle operazioni rappresentate dai reboot in live action Disney, e anche questa volta l’opinione non è stata smentita: il ricalco nostalgico dell’originale, fatto però con una tecnica cinematografica che rema contro la sensazione di immaginifica meraviglia concessa dall’animazione, produce un risultato che – è fin troppo facile dirlo – nel migliore dei casi non è né carne né pesce. Abbiamo pensato allora di rivolgerci all’oceano della storia del cinema, in cerca di altre sirene – in live action, animate, perfino documentarie – e delle loro evocative storie di mutazioni ed esplorazioni, sospese tra mondi distanti, capaci di muoversi tra i generi, i significati nascosti e le ispirazioni. Ecco a voi un percorso intrecciato, tra indimenticabili sirene cinematografiche e lavori firmati da registe su queste leggendarie creature acquatiche.
Annette Kellerman & Esther Williams
Se mai il mondo e il cinema hanno conosciuto una vera sirena, questa è probabilmente Annette Kellerman: nata in Australia nel 1886, nuotatrice provetta (a causa di una temporanea disabilità alle gambe passa parte dell’infanzia in piscina, per rafforzarle), nei primissimi anni del Novecento diventa una celebrità internazionale, sia per le sue imprese nautiche sia per i suoi spettacoli di vaudeville acquatico, in cui spesso si esibisce in costumi da sirena che disegna e talvolta realizza in prima persona. Rende popolare il nuoto sincronizzato, propugna l’attività fisica femminile e odia i corsetti con l’intensità di una tempesta oceanica, reputandoli a ragione una prigione innaturale per le donne; disegna l’antenato dei moderni costumi da bagno, considerato all’epoca scandaloso (alle donne era concesso immergersi in pubblico solo praticamente vestite), ma anticipatore di una rivoluzione (dei costumi e del costume, ovviamente). Dai palcoscenici di Broadway al neonato cinematografo il passo è pressoché scontato, e Kellerman diventa una diva del muto, anche se la quasi totalità dei film in cui ha recitato è oggi considerata perduta. Per uno dei più celebri, Neptune’s Daughter (1914), basato in parte su una sua idea, si ipotizza che abbia contribuito anche alla regia, partecipando allo sviluppo della sceneggiatura, degli stunt, della messa in scena e alla scelta delle location; il successivo, A Daughter of the Gods, pare sia il primo della Storia a esser costato 1 milione di dollari.
Kellerman – che spesso sullo schermo conserva un nome simile al proprio, Annette o variazioni, per rafforzare l’identificazione tra persona e personaggio – incarna allo stesso tempo un ideale di bellezza (è paragonata alla Venere botticelliana, è definita “the perfect woman”), di sensualità (è la prima attrice a comparire nuda in una grande produzione hollywoodiana) e di un atletismo e di una forza fisica fino a quel momento mai associati, nell’immaginario collettivo, al femminile. Esegue stunt pericolosissimi (e quando glielo vietano si lamenta: «C’è sempre qualcuno che cerca di succhiare via la gioia dalla vita!»), spesso si infortuna, ma continua a nuotare fin quasi alla fine dei suoi giorni (muore nel 1975, a 89 anni).
E nel 1952 fa da consulente al coreografo Busby Berkeley sul set di La ninfa degli antipodi (Million Dollar Mermaid) di Mervyn LeRoy, il film sulla sua vita interpretato dall’altra più celebre sirena del grande schermo, star di spettacolari musical acquatici negli anni 40: l’ex nuotatrice professionista ed ex modella Esther Williams, che in La figlia di Nettuno aveva già “rifatto” proprio il sopra citato Neptune’s Daughter.
Blue My Mind – Il segreto dei miei anni di Lisa Brühlmann
Cinema e televisione ci hanno spiegato innumerevoli volte la cristallina equivalenza tra horror e coming of age: utilizzare il linguaggio del “film di paura” è spesso il modo migliore di rappresentare un’età inquieta, una metamorfosi che può assumere contorni terrificanti. E allora la sirena, figura ibrida per eccellenza, a metà tra due nature differenti e inconciliabili, può farsi con facilità corpo metaforico: d’altronde già La sirenetta – soprattutto nella sua versione Disney depurata dei sottotesti religiosi anderseniani – è prima di tutto la storia di una ribellione adolescenziale, del distaccamento netto dal contesto dell’infanzia per diventare parte di un altro mondo.
E Blue My Mind, esordio alla regia dell’attrice svizzera Lisa Brühlmann (l’abbiamo poi ritrovata dietro la mdp di serie tv acclamate come Servant e Killing Eve), è per certi versi una rilettura al contrario della fiaba di Andersen: la protagonista Mia è una ragazzina umana che si scopre sirena con la pubertà. La mutazione corporea della crescita, gli appetiti voraci, le nuove incontrollabili pulsioni, il risveglio sessuale diventano così platealmente una questione body horror, tra echi cronenberghiani e fortunati “apparentamenti ideali” con la teenager cannibale raccontata da Julia Ducournau in Raw (d’altronde, senza toni horror ma sempre con un filo di perturbante, Céline Sciamma ci aveva già regalato un romanzo di formazione subacqueo con la sua Naissance des pieuvres…). Su Chili e RakutenTv
Madison di Splash – Una sirena a Manhattan
«Per tutta la vita ho aspettato qualcuno, e quando la trovo lei è… lei è un pesce!». «Nessuno ha mai detto che l’amore è perfetto!». È questo celebre scambio di battute – memore di A qualcuno piace caldo – tra un affranto Tom Hanks e un sempre impagabile John Candy a sintetizzare con efficacia Splash, opera terza e primo grande successo da regista dell’ex Richie di Happy Days Ron Howard: Madison, la splendida sirena interpretata da Daryl Hannah, è la co-protagonista di una rom com avventurosa, ottimo esemplare di commedia Eighties.
Letterale “pesce fuor d’acqua”, Madison sbarca sotto l’ombra della Statua della Libertà dopo aver salvato – per la seconda volta – il suo goffo principe azzurro (Tom Hanks, appunto): la coda e le pinne – meraviglioso lavoro di prostetica creato dall’artista degli effetti speciali Robert Short, reduce dal successo di E.T. di Spielberg – scompaiono quando è all’asciutto, ma la ragazza intraprende una divertente “educazione all’umanità” e infine deve fuggire dalle mire della scienza crudele. È la trama, in versione comedy, di La forma dell’acqua di Del Toro? In effetti sì, finale sottomarino compreso. Su Disney+
Aquamarine di Elizabeth Allen Rosenbaum
Claire e Hailey, migliori amiche adolescenti, chiedono un miracolo e trovano una sirena in piscina (un po’ come capita al Paul Giamatti in Lady in the Water di M. Night Shymalan, uscito lo stesso anno, il 2006, ma con tutt’altri toni ed effetti…). Aquamarine è il nome della fanciulla, fuggita dalla propria acquatica casa per scampare a un matrimonio combinato e intenzionata a conquistare il cuore del guardaspiaggia Raymond; umana di giorno, sirena di notte (e a contatto con l’acqua), inizia una veloce educazione sentimentale (via giornaletti teen) aiutata dalle ragazze, cui promette di realizzare un desiderio…
Con una giovane Emma Roberts e le cantanti Sara Paxton e Jojo, Aquamarine è una fantasia preadolescenziale dall’apparenza più che convenzionale e super pop, ma in grado di diventare con gli anni un piccolo cult generazionale (soprattutto per chi era ragazzino a metà anni Duemila). E tra le formule della rom com nasconde il suo vero cuore: un altro racconto di formazione che, invece che sull’amore romantico, informa i propri riti di passaggio sull’amicizia femminile. Su iTunes, GooglePlay
Ponyo di Ponyo sulla scogliera
Questa particolare sirenetta assomiglia molto di più a un piccolo pesce rosso, è ghiotta di prosciutto e di ramen, sa cavalcare onde e meduse, e farsi crescere braccia e gambe con la sola forza di volontà (e con tempeste, allagamenti e inondazioni come effetti collaterali). È una piccola magica e testarda, determinata a diventare “una bambina vera”, a qualsiasi costo, insieme all’amico Sosuke, cinque anni, un animo gentile, un’idilliaca casetta in cima alla scogliera da cui ogni sera insieme alla madre manda messaggi in codice Morse al padre capitano.
Da molti considerato un titolo minore nella filmografia miyazakiana, Ponyo sulla scogliera rilegge La sirenetta attraverso lo sguardo lucente di meraviglia e la poetica inconfondibile (e ambientalista) del suo autore: Ponyo è un’aggiunta irresistibile alla galleria di eroine ribelli dello Studio Ghibli, e il disegno animato di Hayao Miyazaki, di una semplicità solo apparente, sa restituire la metamorfosi continua della piccola protagonista, in cerca della dimensione giusta come un’Alice nel paese delle meraviglie acquatiche. E questa volta è il piccolo umano a dover passare un test: dimostrare di saper amare la sua sirenetta in qualsiasi forma, che sia di carne o d’acqua. Su Netflix
Évolution di Lucile Hadžihalilović
A essere sirena, cioè entità anfibia tra terra e mare, tra umano e natura, nel secondo lungometraggio di Hadžihalilović (collaboratrice e compagna di Gaspar Noé, e già autrice di un ideale controcanto al femminile a questo film nell’esordio Innocence) è un intero mondo.
Una scogliera battuta dalle onde, una comunità chiusa abitata solo da un pugno di ragazzini (tutti maschi) e di “madri” (nessun uomo adulto in vista), un villaggio fuori dal tempo, un ospedale scarno dove si compiono esperimenti di genetica interspecie e si persegue un ciclo evolutivo decisamente alternativo. Percorso da un perturbante indefinibile e da un astrattismo allergico a ogni didascalia, Évolution evoca una zona del crepuscolo fantascientifica, ma anche lo stupore glaciale di un fantastico inquietante, in riprese subacquee di bellezza ultraterrena.
Le tre “sirene” di Sirene
Forse è barare mettere Sirene in un elenco di sirene cinematografiche, perché in effetti nella commedia firmata nel 1990 da Richard Benjamin e basata sull’omonimo romanzo di Patty Dann non appaiono mai le figure mitologiche sottomarine. Eppure tutte e tre le protagoniste sono creature a loro modo mutanti e acquatiche, a cominciare dalla signora Flax interpretata da Cher, che in una sequenza iconica si infila per una festa in maschera in un costume da sirena, e poi si adagia nella vasca da bagno insieme alle figlie, la quindicenne Charlotte e la piccola Kate.
La madre single Rachel Flax esiste in una fuga perpetua tra universi, e in ognuno è sempre, almeno leggermente, fuori posto: oggetto del desiderio dalla sessualità vorace, troppo disinibita e indipendente per gli anni 60 che la circondano. Immatura come un’adolescente, se diamo ascolto alla figlia adolescente Charlotte – una Winona Ryder superlativa – che invece ci sta davvero, in un’età di transizione, e come libretto d’istruzioni per crescere applica la regola “fare tutto il contrario di mia madre” fino a sognare di farsi suora. La piccola Kate (una Christina Ricci agli esordi) è l’autentica sirena di famiglia, appassionata di nuoto, che si esercita costantemente a trattenere il fiato nella vasca e nel finale rischia di consegnarsi per sempre alle acque. Per entrambe le curatrici di Singolare, femminile, Sirene è un cult irrinunciabile, su cui speriamo presto di tornare. Su MGM Prime Video Channel
MerPeople – Sirene per lavoro diretta da Cynthia Wade
Già dai tempi di Annette Kellerman, come abbiamo visto a inizio newsletter, diventare una sirena è una forma di intrattenimento. Ma nella miniserie documentaria diretta da Cynthia Wade (premio Oscar nel 2008 per il corto documentario Freeheld, e nuovamente candidata nel 2013 con Mondays at Racine) essere una sirena è contemporaneamente un sogno, una realtà e un lavoro (e dunque anche, a tratti, un incubo).
Una ricca e dettagliata sottocultura intessuta di riflessi madreperlacei e brillantini colorati accoglie chi ha «sempre sognato di essere una sirena» o un tritone, scoprendo che, secondo il vecchio adagio disneyano, «se puoi sognarlo, puoi farlo». Secondo lo stesso adagio, ma in chiave turbocapitalista, puoi anche far parte di un’industria da milioni di dollari, attualmente in espansione, e diventare un o una performer che partecipa a sempre più diffusi spettacoli acquatici. Come altre docuserie di questo tipo (pensiamo a Cheerleader, sempre su Netflix), l’esplorazione di questa sorta di universo parallelo contiene moltitudini e contraddizioni, e tutte le sfaccettature del Sogno americano: spese folli per acquistare una splendida coda variopinta, rischi di malattie, infezioni, ipotermie, un diffuso sfruttamento, ma anche una comunità letteralmente fluida, fuori da ogni convenzione o pregiudizio, dove nessun desiderio sembra impossibile da mutare in realtà. Su Netflix
Undine di Undine – Un amore per sempre
Le ondine, o undine, sono figure leggendarie adiacenti al mito delle sirene: ninfe o spiriti che abitano i corsi d’acqua, laghi, fiumi, cascate, che sanno attirare gli uomini con il proprio canto melodioso, che non possono avere un’anima finché non sono amate. Nel folklore germanico, in particolare, sono ricorrenti: nella leggenda di Lorelei, nella Canzone dei Nibelunghi, nella fiaba Il sonno dell’Ondina.
In Undine – Un amore per sempre, Christian Petzold sovrappone l’archetipo fiabesco a un mélo dalla superficie realistica e contemporanea: Undine – interpretata dalla meravigliosa Paula Beer, premiata per questo ruolo con l’Orso d’argento alla Berlinale 2020 – è una storica dell’urbanistica che tiene conferenze sull’architettura della capitale tedesca; lasciata dal compagno, incontra e s’innamora del palombaro Christoph (Franz Rogowski), ma secondo la legge crudele ed esatta del melodramma i due finiranno per perdersi (e lei per diventare, forse, schiuma, proprio come la sirenetta di Andersen…). Nelle parole della recensione di Giulio Sangiorgio: «Un amour fou che sfigura in fiaba naïf il nitore minimale del film, che rivendica il sublime e il tragico espunti dal presente. Una storia che cerca il surrealismo di L’Atalante dietro il realismo, che invoca il folklore dietro la Storia, e che sa che dietro quello che le immagini testimoniano c’è e c’è sempre stato qualcos’altro». Su Prime Video
The Lure di Agnieszka Smoczynska
Horror, commedia, musical, grottesco, fiaba. Coming of age, cannibalismo, mutazioni, risveglio sessuale, critica sociale, revenge movie. Con il suo esordio nel lungo, la polacca Smoczynska (che poi firmerà anche l’acclamato The Silent Twins) prende la figura della sirena e ne rivela, spingendola ai limiti, la natura polimorfa e malleabile.
Nella Varsavia degli anni 80 (nota bene: la mascotte della città è una sirena armata di spada), due giovanissime sirene, Silver e Golden, emergono dalle acque attirate dalla musica di una band, cui rispondono col proprio canto: diventano l’attrazione principale di un night club, infilano una serie di prime volte nel mondo umano, poi le loro strade si sdoppiano tra amore e morte.
Una si rifiuta di rinunciare alla propria natura di predatrice, e placa con carne umana la fame e la sete di sangue; l’altra s’innamora, e rinuncia a se stessa, pezzo dopo pezzo, cedendo la voce e la coda, in cambio di un paio di gambe e di una vulva umana per far felice l’amato principe. Probabilmente l’adattamento di La sirenetta più “tecnicamente” fedele tra i titoli di questo elenco, The Lure è una fantasia rock, bizzarra e sanguinolenta, che presta il proprio corpo cangiante a più di una lettura metaforica, in cui le sirene – giovani donne, e straniere, e outsider inassimilabili – si trovano a dover scegliere tra l’invisibilità e la violenza. ALICE CUCCHETTI
In occasione dell’uscita del remake di La sirenetta, su Film Tv n. 21/2023, abbiamo detto la nostra sulle assurde polemiche seguite alla scelta di far interpretare Ariel a Halle Bailey, e anche sull’attuale stato dei live action Disney. Vi riproponiamo entrambi i corsivi.
Molto rumore per nulla
Una premessa, forse poco simpatica: vorremmo davvero non trovarci a scrivere un articolo sulla polemica “razzisti vs politicamente corretti” in merito al colore della pelle di un personaggio immaginario. Intanto però, per i più distratti, sintetizziamo la vicenda: la Sirenetta del classico animato Disney aveva chioma rossa, pelle chiara e occhi azzurri, mentre la scelta dell'interprete del remake in live action (+ computer grafica fotorealistica) è caduta sulla cantautrice e attrice afroamericana Halle Bailey, nata e cresciuta ad Atlanta, scatenando una fortissima reazione negativa, sintetizzata da un paio di milioni di “pollici giù” sul video YouTube del trailer, da innumerevoli meme denigratori e da “artisti” che hanno «aggiustato» le immagini del nuovo film sbiancandole con l'intelligenza artificiale. Niente di nuovo: la stessa avversione all’inserimento di personaggi con la pelle nera in un universo fantasy tradizionalmente raffigurato come esclusivamente bianco si era già manifestata con il cast della serie tolkieniana Gli Anelli del potere, con tanto di lambiccate analisi online di geografie e condizioni climatiche (ripetiamolo: relative a mondi immaginari) che dovrebbero dimostrare l’impossibilità per tali personaggi di avere quel livello di melanina. L’operazione di Disney si inserisce in un molto più ampio progetto di inclusività che, a ben vedere, era cominciato già con i tratti mediorientali di Jasmine in Aladdin, e proseguito con il Cenerentola del 1997 (con la cantante afroamericana Brandy), Mulan, La principessa e il ranocchio, Oceania, Raya e l’ultimo drago ed Encanto: tutti tentativi di diversificare le etnie e l’aspetto fisico delle principesse Disney per renderle più vicine a un altrettanto diversificato giovane pubblico (aggiungiamo il bellissimo Red, senza principesse ma interamente ambientato nella comunità sino-canadese). L’intento, lo sappiamo, è sempre vendere più bambole, e non siamo qui a tessere le lodi di Disney come illuminato agente del cambiamento; ma una reazione così virulenta vale sempre la pena di essere presa in esame, perché spesso, sotto, c’è il motore umano più forte di tutti: la paura. L’immaginario collettivo è una cosa seria, e in Occidente la schiacciante maggioranza delle storie che lo scolpiscono, e che si riverberano su dinamiche sociali e culturali, è stata creata da uomini bianchi, perfino quando si ha a che fare con vicende e personaggi storici: una simile rivolta si è avuta di recente con la serie Netflix Regina Cleopatra, sovrana che in passato ha avuto il volto di Elizabeth Taylor e Monica Bellucci ed è ora interpretata dalla britannica afrodiscendente Adele James, per la quale perfino il Ministero egiziano del turismo e delle antichità si è scomodato, con un comunicato, a specificare che «Cleopatra aveva la pelle chiara e tratti ellenici». Sulla reale gradazione cromatica della pelle della regina egiziana non avremo mai certezze storiche; ma lo scettro in gioco, qui, è quello della centralità degli individui bianchi nelle narrazioni, non quello della verosimiglianza (Gesù era biondo?): un monopolio ancora tristemente arduo a scalfirsi. ILARIA FEOLE
Vivi o animati?
Live action: letteralmente, un’azione dal vivo, un movimento effettivo, certificabile. Una verità. In opposizione a ciò che vivo e dal vivo non è: l’animazione, digitale o tradizionale, a mano o in plastilina. Da una parte, il movimento impossibile e proprio per questo magico (e viceversa); dall’altra, quello della realtà. Che, lo sappiamo, può pure significare limite, finitezza. Non staremo a sindacare sulle ragioni per cui i live action della Casa di Topolino hanno prosciugato tutta la magia dei classici, ragioni che differiscono comunque da quelle sbraitate sul web dai fondamentalisti della nostalgia disneyanamente ed etnicamente corretta (le demenziali reazioni alla pelle nera della sirenetta han fatto promozione al film più di qualunque battage ufficiale: la mossa dello studio, più che progressista, è stata sapientemente programmatica). Al di là dei giudizi di (de)merito, non è peregrino notare semmai quanto questi remake si siano progressivamente dimessi dal concetto di live action puro, che valeva ancora per la Cenerentola di Branagh (2015) o per La bella e la bestia di Condon (2017), prodromi di un trend ormai inarrestabile (in programma Gli aristogatti, Hercules, Lilo & Stitch, Il gobbo di Notre Dame...) e reperti di un tempo in cui lo studio tentava una ricercatezza (solo i divergenti sopravvivono: Maleficent, Crudelia) e un prestigio autoriale (ultimo fuoco: Peter Pan & Wendy di Lowery). Non è live action Mulan (2020), adattamento del mito, reductio del cartoon a period drama serioso; né, all’estremo opposto, lo sono il burattino di pixel Pinocchio di Zemeckis (2022), lo zoo fotorealista di Il re leone (2019) o Il libro della giungla (2016) con motion capture stile Avatar: La via dell’acqua, che sul n. 16/2023 portava il direttore Sangiorgio a chiedersi: «Ma non è un film animato?». Forse dovremmo cercare, per questi rifacimenti, una nuova catalogazione, pensarli come figli minori di una mutazione in progress, proiezioni automatizzate di un ChatGPT formato Disney Store. FIABA DI MARTINO
Su Not, Sara Deon traccia una storia del cannibalismo cinematografico, con un interessante approfondimento sulla rappresentazione della donna cannibale e sulla sua evoluzione negli ultimi anni (si parla anche delle sirene di The Lure).
In occasione del restauro e dell’uscita Criterion di Thelma & Louise, sul magazine online della Criterion Collection sono stati pubblicati tre saggi sul film [in inglese].
L’ultimo numero di Leggendaria s’intitola Dal margine – Fantascienza e nuovi immaginari ed è dedicato alle intersezioni tra speculative fiction, politica e femminismi (di cui avevamo parlato anche in questa newsletter). Si può sfogliare e acquistare qui.