Singolare, femminile ♀ #089: Un mondo nuovo
Su Disney+ è arrivata la miniserie Kindred, ispirata a un romanzo di Octavia E. Butler, su Prime Video è cominciata Ragazze elettriche, tratta dall’omonimo libro di Naomi Alderman: due esempi, molto diversi, di un ricco filone narrativo, la fantascienza femminista, esperimenti di pensiero in grado di illuminare nuovi mondi, e inondare quelli esistenti di nuova luce.
«Ogni utopia contiene una distopia. Ogni distopia contiene un’utopia». Sono parole di Naomi Alderman, autrice del romanzo Ragazze elettriche, da cui è tratta l’omonima serie tv avviatasi in questi giorni su Prime Video. E infatti la scintilla fantascientifica accesa dalla scrittrice britannica innesca, in una catena di reazioni e conseguenze, un universo a doppio taglio: cosa succederebbe al nostro mondo se, improvvisamente, le donne diventassero il “sesso forte”? In Ragazze elettriche succede prima alle adolescenti, in una fase cruciale della crescita: Alderman si è ispirata agli elettrofori, le cosiddette “anguille elettriche”, pesci in grado di generare, per mezzo di specifici muscoli, un potente campo elettrico; e qualcosa di simile accade alle protagoniste del romanzo, che come per un salto evolutivo sviluppano un simile muscolo – chiamato matassa – e la conseguente abilità. D’improvviso, una delle categorie umane più trasversalmente fragili e inermi si trova a maneggiare un potere immenso: per difendersi o per colpire, per governare o per uccidere.
Uscito con straordinario tempismo nel 2016, il romanzo in originale ha un titolo semplice e geniale: The Power, che in inglese significa certamente “il potere”, ma anche “l’energia”, “la forza” ed è usato come sinonimo di “corrente elettrica”. Sostenuto dalla critica e da un crescente successo di pubblico, oltre che dalla vittoria l’anno successivo del prestigioso Baileys Women’s Prize for Fiction, è stato immediatamente accostato alla coeva esplosione del movimento #MeToo: a una lettura superficiale del concept, l’idea di donne che finalmente prendono il potere per ribaltare il tavolo e punire i propri carnefici si adeguava perfettamente allo spirito dei tempi, sia a volerlo inquadrare in chiave empowering sia, viceversa, per trovarci una conferma di presunti eccessi. Ma – lo svela immediatamente con il suo titolo cristallino – The Power è precisamente un romanzo sul “potere” e sui suoi effetti. Come la migliore speculative fiction contiene un’allegoria duplice. Da un lato, tutto ciò che le ragazze (e poi le donne: presto la matassa si risveglia in soggetti di ogni età) fanno con il loro superpotere corrisponde a quello che succede oggi, e da millenni, a sessi invertiti: se ci sembra “strano” che uomini e ragazzi vengano abusati e stuprati, costretti a un regime di sottomissione, torturati o mutilati, o anche solo semplicemente discriminati, derisi, considerati deboli o inutili, non è perché queste cose non succedono quotidianamente, ma perché non succedono, nella maggior parte dei casi, a loro.
D’altra parte, Ragazze elettriche è tutto fuorché una fantasia di empowering o un’utopia femminile: il potere passa “semplicemente” di mano, ma non perde la sua portata violenta o distruttiva, anzi. È qualcosa che si esercita, frequentemente con prepotenza, spesso solo perché si può. E che attorno a esso innalza gerarchie e interseca oppressioni, generando un sistema che si impone come inamovibile, infine raccontato come “naturale”. Arrivati alla conclusione del libro, dopo aver cosparso indizi nel corso delle pagine, l’autrice rivela che ciò che abbiamo letto non è un romanzo di fantascienza, ma un “romanzo storico” (o ucronico?), firmato da un autore che, in un lontano futuro post Cataclisma, a 5 mila anni da oggi, ipotizza che nell’antichità le donne non avessero la matassa e il mondo fosse dominato da civiltà patriarcali. In un carteggio, un’altra scrittrice, ben più potente e celebre – di nome Naomi, come Alderman –, commenta con benevolo paternalismo (maternalismo?) il manoscritto, sorridendo con incredulità davanti alla possibilità che i maschi possano mai essere stati “il sesso forte”, confessando una certa fascinazione erotica a immaginarseli membri dell’esercito in tenuta militare, sminuendo gli indizi archeologici, storici e antropologici che lo scrittore timidamente porta a sostegno della sua tesi. Soprattutto, non riesce a immaginarsi gli uomini come bellicosi e non pacifici: d’altronde, è molto più sensato pensare che «gli uomini si sono evoluti per essere forti lavoratori e custodi del nucleo domestico, mentre le donne – con i piccoli da proteggere dalle avversità – sono diventate aggressive e violente». No?
Un finale meta letterario, di rara efficacia, che tra le altre cose si ricollega al filone storiografico di rilettura femminista, queer e decoloniale della Storia, e illustra con precisione il cuore della speculative fiction, genere letterario che spesso in italiano si tende a tradurre direttamente come “letteratura distopica”, o più largamente come “fantascienza”, ma che una delle sue maggiori esponenti, Ursula K. LeGuin, riassumeva con l’espressione “thought experiment”, “esperimento di pensiero”. È una corrente che scorre nella storia della letteratura da tempo immemore, anche nel suo versante femminile e femminista, trovandosi spesso a combattere contro una doppia discriminazione “di genere”: quella che associa la fantascienza, il fantastico e il fantasy alla letteratura “bassa”, di mera evasione e di consumo, e quella che (almeno in quest’universo pre Cataclisma…) relega tendenzialmente nella marginalità la scrittura delle donne. Eppure, non bastasse ricordare che il romanzo identificato come progenitore della fantascienza moderna, Frankenstein, è scritto da un’autrice (e si presta a interessanti letture di genere, raccontando una “maternità maschile e mostruosa”), esempi di romanzi utopici e distopici firmati da donne esistono già tra fine Ottocento e inizio Novecento (alcuni titoli: New Amazonia di Elizabeth Burgoyne Corbett, 1889: Unveiling a Parallel di Alice Ilgenfritz Jones e Ella Merchant, 1893; Sultana’s Dream di Begum Rokeya, 1905; Herland di Charlotte Perkins Gilland, 1915), mentre la prima utopia femminile è probabilmente la novella The Blazing World scritta nel 1666 dalla duchessa di Newcastle Margaret Cavendish.
Le autrici scrivono fantascienza anche nell’epoca d’oro degli anni 40 e 50 (anzi, il romanzo La notte della svastica di Katharine Burdkein nel 1937 anticipa sia la Seconda guerra mondiale sia molti temi del 1984 orwelliano), ma una vera e propria fantascienza femminista fiorisce in forze – e in consapevolezza – negli anni 70, in concomitanza con la seconda ondata dell’attivismo e del movimento politico per i diritti delle donne. Del 1969 è il seminale romanzo di LeGuin La mano sinistra del buio (recentemente ripubblicato, dopo una lunghissima assenza dagli scaffali italiani, da Mondadori; precedentemente era stato tradotto come La mano sinistra delle tenebre), in cui l’autrice s’immagina un pianeta i cui abitanti sono asessuati e asessuali, salvo che per pochi giorni al mese, durante i quali si manifestano i caratteri biologici del genere, che di volta in volta possono essere maschili o femminili. Il protagonista è l’umano Genly, inviato sul pianeta come ambasciatore, e l’esperimento di pensiero di LeGuin mette prima di tutto in luce, con la trasparenza di un’epifania, quanto l’intera nostra società sia costruita sul binarismo di genere, una divisione e una gerarchia che determinano strutture di potere, sentimenti, interazioni (e la bellezza di La mano sinistra del buio sta anche nel raccontare una grande storia d’amicizia, nata quando finalmente ci si può riconoscere oltre il genere).
Una lezione raccolta in Italia, un decennio dopo, da una delle nostre maggiori scrittrici (non solo per l’infanzia), Bianca Pitzorno, in Extraterrestre alla pari, romanzo per ragazzi pubblicato nel 1979: protagonista è Mo, proveniente dalla stella Deneb, in “scambio culturale” sulla Terra. Sul suo pianeta il genere sessuale si manifesta solo nell’età adulta, e fino ad allora non ha importanza, ma sulla Terra questa sembra per tutti una condizione inaccettabile: Mo si trova letteralmente a performare (in un’esemplificazione anticipata per quanto semplificata delle teorie di Judith Butler) di volta in volta il genere maschile e quello femminile, rivelando le assurdità e l’arbitrarietà di un mondo costruito su questo sistema binario, e anche, soprattutto, le enormi ingiustizie che toccano quotidianamente alle ragazze e alle donne.
Un’immersione nel filone della fantascienza femminista si rivela per chi legge un viaggio ricco e appassionante, popolato d’incontri tra penne naturalmente diversissime tra loro (è noto per esempio che Ursula K. LeGuin e Joanna Russ, l’autrice tra gli altri del fondamentale The Female Man, abbiano avuto più di una divergenza), e di esperimenti del pensiero elettrizzanti. E negli ultimi anni, finalmente (pure in Italia!), si assiste a una sua riscoperta da parte del mainstream: un ottimo punto di partenza letterario è l’antologia di racconti Le visionarie pubblicata da Nero e curata dagli scrittori Ann e Jeff Van der Meer (dal primo libro della Trilogia dell’Area X di Jeff Van der Meer è stato tratto il film Annientamento di Alex Garland, che raccoglie certamente ispirazioni dalla feminist sci-fi), anche perché sono diversi i titoli cardine del filone che ancora attendono una pubblicazione o una ripubblicazione italiana (oltre al già citato The Female Man, per esempio, anche Woman on the Edge of Time di Marge Piercey, e i racconti brevi di James Tiptree Jr., pseudonimo maschile di Alice Sheldon – mentre sono disponibili Lingua nativa di Suzette Haden Elgin e gli affascinanti e inclassificabili lavori di Angela Carter). Come notano anche le curatrici italiane di Le visionarie Claudia Durastanti e Veronica Raimo nella loro postfazione, la letteratura fantasy e fantascientifica si dimostra, soprattutto negli ultimi tempi, in grado di penetrare e scardinare la superficie opaca e resistente di un realismo che troppo spesso rischia di offrire al pensiero strade a senso unico, invece di liberarlo. La fantascienza offre – per citare ancora LeGuin – accesso a quel particolare tipo di verità garantito solo dall’immaginazione: lì risiede la possibilità di inventare alternative, di mettere alla prova ipotesi differenti, di sfuggire le gabbie di un reale che opprime, e che opprime certamente qualcuno più che qualcun altro.
Il successo del romanzo Ragazze elettriche, e la sua successiva trasposizione a serie tv, sono collegati a quello che – insieme a La mano sinistra del buio – è probabilmente l’esempio di fantascienza femminista più celebre anche tra i non appassionati: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood. Alderman è stata allieva di Atwood grazie a un programma di mentorship, e il trionfo critico e di pubblico di Ragazze elettriche si è consolidato nel 2017, proprio mentre sugli schermi arrivava The Handmaid’s Tale, la serie Hulu (in Italia disponibile su TIMVISION e Prime Video) tratta dalla distopia di Atwood e interpretata da Elisabeth Moss. Così come in Ragazze elettriche, anche in Il racconto dell’ancella i meccanismi di violenza e sopraffazione sono basati sulla realtà e sull’evidenza storica: Atwood si è proposta meticolosamente di non inventare nulla di nuovo, quel che le sue protagoniste subiscono succede o è successo da qualche parte, nel mondo, alle donne. Ambientato in una versione degli Stati Uniti in cui si è imposta una dittatura teocratica di fondamentalisti cristiani, racconta una società in cui le donne sono classificate solo in base alla loro funzionalità riproduttiva e in relazione ai ruoli maschili. Ci sono le Mogli, le Marta (domestiche), le Zie (istitutrici/religiose), le Jezebel (lavoratrici sessuali) e poi le Ancelle, le donne ancora fertili, che vengono utilizzate e scambiate come un bene di consumo dalle famiglie ricche, sottoposte e stupri rituali finché non concepiscono un figlio. Sono private del nome (il nome della protagonista, Difred, significa “di Fred”, appartenente a Fred), della professione, dell’indipendenza economica, dell’istruzione, di qualsiasi cosa componga un’identità. Margaret Atwood ha scritto il romanzo nel 1985, dopo l’apparente esaurirsi delle lotte della seconda ondata femminista, quelle per i diritti all’aborto e l’Equal Rights Amendment raccontati anche nella bella miniserie Mrs. America (e infatti la temibile Serena Joy è ispirata all’estremista di destra Phyllis Schlafly). L’esperimento di pensiero di Atwood consiste nell’immaginare cosa succederebbe se le ideologie della destra ultraconservatrice, quella che predica una ferrea divisione di ruoli tra uomini e donne, assegnando alle seconde solo funzioni di procreazione, accudimento e servizio, proteggendo gli uteri molto più che le persone cui appartengono, venissero messe effettivamente in pratica, portate alle estreme conseguenze. Un esperimento di pensiero che oggi – con l’abolizione del diritto all’aborto negli Stati Uniti, con l’oltranzismo cattolico al governo in Italia, giusto per fare due esempi – suona perfino meno improbabile che nel 1984.
Il successo di The Handmaid’s Tale (la cui prima stagione, soprattutto, è stata meritatamente ricoperta di premi) ha certo contribuito al moltiplicarsi di progetti tratti da romanzi del filone, e anche alla riscoperta delle sue autrici. Tra le opere che più direttamente discendono da qui, c’è la serie Y – L’ultimo uomo (tratta da una saga a fumetti, e purtroppo cancellata dopo una sola stagione), che immagina la scomparsa istantanea e improvvisa, in una sola notte, di tutti gli esseri umani con cromosoma Y, la conseguente post apocalisse, i diversi modi – per nulla utopici – in cui le sopravvissute cis e i sopravvissuti trans cercano (oppure no) di riorganizzare una parvenza di civiltà. Ma lo stesso adattamento di Ragazze elettriche discende da The Handmaid’s Tale, tanto che a lungo è stata coinvolta nella lavorazione la regista e direttrice della fotografia Reed Morano, anche autrice e produttrice dello show tratto da Atwood. Prima del lancio, però, Morano ha abbandonato il progetto, che comunque è curato e coordinato dalla stessa Alderman, a capo di una writers’ room interamente femminile.
Un’altra grande scrittrice di fantascienza che negli ultimi anni sta vedendo una felice e doverosa riscoperta è Octavia E. Butler, e per coincidenza è approdata proprio in questi giorni su Disney+ (quasi in concomitanza con la partenza di Ragazze elettriche su Prime Video) la miniserie tratta da uno dei suoi libri più celebri, Kindred. Intitolato in italiano Legami di sangue, anche il volume è stato per fortuna ritradotto e ripubblicato da poco nel nostro paese (da edizioni Sur, che ha curato anche la raccolta di racconti di Butler La sera, il giorno e la notte), dov’era assente da un po’ (negli Stati Uniti è invece ormai riconosciuto come classico). Pubblicato originariamente a fine anni 70, ha per protagonista una giovane donna, Dana, che dal suo presente, la Los Angeles del 1976, viene risucchiata indietro nel tempo, al Maryland pre Guerra di Secessione, dove, in quanto nera, non ha diritti né libertà, ed è costantemente a rischio di subire violenze o essere uccisa. Nella miniserie, curata dal drammaturgo Branden Jacobs-Jenkins, il presente di partenza è il 2016 (una data scelta non a caso) ma, nonostante diversi altri cambiamenti, resta l’impianto di fondo: l’espediente fantascientifico del viaggio nel tempo è utilizzato da Butler per portare in superficie l’intrico di collegamenti che serra in una sola morsa il passato, il presente e il futuro degli Stati Uniti. I legami di sangue del titolo italiano sono doppi, come l’esperimento di pensiero di Naomi Alderman: affondano letteralmente nel sangue, nella tortura, nelle frustate e nella violenza di una popolazione schiavizzata sulla cui forza lavoro si è edificato un paese e il suo sistema economico; ma chiudono anche in una parentela inevitabile, spesso insopportabile e dolorosa, antenati e discendenti (Dana scopre di discendere dallo stupro di una sua antenata da parte di uno schiavista, e comprende di dover salvare continuamente la vita all’uomo per evitare di cessare di esistere).
Nella produzione di Octavia E. Butler – interrotta troppo presto, a causa della morte dell’autrice a soli 59 anni – gli interessi ricorrenti spesso costeggiano l’idea espressa nell’incipit di questo articolo da Naomi Alderman, «ogni utopia contiene una distopia, ogni distopia contiene un’utopia», come nel celebre dittico La parabola del seminatore e La parabola dei talenti (in quest’ultimo, peraltro, gli Stati Uniti eleggono un presidente dittatoriale e conservatore il cui slogan è «make America great again»…). Echi di Butler (insieme all’Amatissima di Toni Morrison, che è, a tutti gli effetti, anche un romanzo horror) si ritrovano certamente in La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, adattato splendidamente a miniserie da Barry Jenkins (su Prime Video): un’ucronia che rende letterale la metaforica underground railroad, l’organizzazione che pre Guerra civile aiutava le persone schiavizzate a fuggire dalle piantagioni del sud. Ma in Butler ritornano anche temi molto frequentati dalla fantascienza femminista, tra cui quelli legati alla manipolazione genetica, alla mutazione biologica, ai processi riproduttivi anche interspecie (il corpo come campo di sperimentazione e di battaglia è inevitabilmente un topos della feminist sci-fi), come nel ciclo della Xenogenesi.
Temi che dialogano ininterrottamente con altri lavori non solo di narrativa (basta pensare all’influenza della fantascienza sulla filosofia di Donna Haraway, sul femminismo cyborg e sullo xenofemminismo), e che approdano sempre di più anche sul piccolo schermo: dall’unico episodio “utopico” di Black Mirror San Junipero, all’appropriazione della letteratura lovecraftiana in Lovecraft Country, dalle iperboli biomediche di Orphan Black alla commedia inquietante di Made for Love, dalle ipotesi post apocalittiche di Station Eleven alle suggestioni spirituali di The OA e all’ecumenismo di Sense8. Un fervido ed elettrizzante reticolato narrativo attraverso il quale fare corrente, e cercare, per citare il primo racconto di Le visionarie, «quei paraocchi che hanno ristretto e oscurato la mia vista, per potermeli strappare di dosso e vedere un mondo più vasto e luminoso di quanto abbia mai sognato». ALICE CUCCHETTI
Iniziata in Usa nella prima metà del 2017, con un immediato riscontro di pubblico e un immaginario subito entrato nella cultura pop, The Handmaid’s Tale è probabilmente la serie che ha aperto la strada anche ad altre riscoperte di feminist sci-fi. Ecco la recensione della prima stagione, pubblicata su Film Tv n. 40/2017.
The Handmaid’s Tale - Stagione 1
The Handmaid’s Tale è un horror. Nonostante non contenga nulla di soprannaturale. Anzi, proprio per questo. Anche nella grammatica: nel risveglio di Diglen in una stanza bianca, nella corona d’impiccati che pende da un soffitto, nei dettagli dell’amputazione di una mano. Horror politico, che affonda il terrore non nell’altro o nel fantastico, ma nel familiare: si è parlato di «fortunato tempismo» (brrr) riguardo alla diffusione in Usa di quest’adattamento di Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood in parallelo all’insediamento della presidenza Trump, ma la carica orrorifica risiede piuttosto nella sua intramontabile attualità. Nel 1985 di Reagan come oggi, nell’Iran islamico di fine anni 70 come negli slogan delle quotidiane e italianissime campagne anti-gender: poche cose sono transculturali come l’oppressione delle donne. È un body horror, The Handmaid’s Tale: perché il corpo è il territorio su cui l’immaginaria teocrazia di Gilead edifica il proprio potere, smembrando la popolazione femminile in caste contraddistinte dai colori dell’abito, serrandola in una geniale architettura di reciproco controllo, di mutua atrocità. Il corpo, che è una cosa, con un unico scopo, e quindi si può imprigionare, violentare, scambiare, ma anche torturare, accecare, mutilare, purché resti funzionale alla sua unica ragion d’essere (la riproduzione, ovviamente). Un horror psicologico, pure, perché la questione è d’identità: chi è Difred, privata del nome, della figlia, dell’amore, del lavoro, del conto corrente, della possibilità di leggere, conoscere, sapere? Chi è Serena Joy, che elabora le leggi del regime, precipitando il mondo intero nel suo personale incubo a tinte pastello (così simile ai perfetti profili Pinterest di tante entusiaste del ritorno femminile tra le mura domestiche), le stesse leggi che le chiudono letteralmente la porta in faccia? Chi sarebbe zia Lydia, senza il fanatismo e - soprattutto - senza il suo pungolo elettrificato? Non è un horror sottile, The Handmaid’s Tale: spinge verso l’insopportabile non tanto i confini di quel che sceglie di mostrare, quanto ciò che ci chiede - ci implora - di condividere. Gli stupri rituali di Difred, il confronto nell’auto tra la protagonista e Serena Joy, nel finale. Ha l’intelligenza, se la scrittura o il ritmo ogni tanto scricchiolano, di affidarsi totalmente alle straordinarie performance delle sue interpreti (e se quelle di Moss, Dowd e Bledel sono state riconosciute dagli Emmy, ci preme ricordare anche Strahovski, capace d’instillare empatia nel ruolo più ingrato), oltre che all’accurato sommarsi di particolari (dai costumi alle coreografie delle scene di massa) che costruiscono una distopia immediatamente iconica. È un horror in cui dominano il raccapriccio e lo sgomento, ma non la paura o la disperazione (come invece nel romanzo, dove la protagonista-voce narrante è quasi costantemente annichilita): è una serie tv, e dopo aver perlustrato l’ambiente (anche, di tanto in tanto, da diversi punti di vista), ha bisogno di muoversi. Di restituire a Difred il nome June, di intrecciare l’istinto di sopravvivenza con quello di sovversione. Di resistenza? Nolite te bastardes carborundorum.
ALICE CUCCHETTI
Per più approfonditi viaggi nella speculative fiction (non solo) femminista, consigliamo il podcast La mano sinistra di Giuliana Misserville, anche autrice per Mimesis del saggio Donne e fantastico.
E a proposito di libri, il 6 aprile esce per Capovolte Ritratte – Storie di donne che hanno scelto il cinema di Carlo Griseri, un viaggio attraverso le vicende di dieci registe, con postfazione di Federica Fabbiani.
Consigli di visione: in sala dal 6 aprile c’è L’appuntamento, nuovo film di Teona Strugar Mitevska (che abbiamo intervistato sul numero di Film Tv in edicola); il 7 aprile su Disney+ sarà disponibile Tiny Beautiful Things (titolo italiano: Le piccole cose della vita), serie tratta da un romanzo della Cheryl Strayed di Wild e con protagonista Kathryn Hahn. Su MUBI, invece, è in corso la rassegna sul cinema femminista tedesco Cosa ci rende libere?; sono anche presenti, restaurati, due film della regista cubana Sara Gomez, e la distribuzione esclusiva MUBI di Amanda Kramer Please Baby Please. E poi, naturalmente, c’è il nuovo trailer di Barbie di Greta Gerwig.