Singolare, femminile ♀ #094: Ho paura solo quando scrivo
Fran Lebowitz, “voce di New York”, scrittrice e oratrice ironica e acutissima (adorata e immortalata da Martin Scorsese in due sue opere doc), ha fatto tappa lo scorso 5 maggio al Teatro Arcimboldi di Milano. Vi raccontiamo com’è andata, e ne approfittiamo per compilare una piccola guida, assolutamente non esaustiva, al Lebowitz-pensiero.
«Milano è una cittadina piuttosto affascinante. Un bel duomo, L’ultima cena, una prestigiosa stazione ferroviaria voluta da Mussolini, la Scala e un sacco di altre splendide cose da vedere. Ci sono due categorie di persone, qui. Quelli che lavorano per i vari “Vogue” e gli altri. Quelli che lavorano per i vari “Vogue” sono molto socievoli e amano uscire. Quelli che non lavorano per i vari “Vogue” potrebbero anche essere altrettanto socievoli, ma con tutta probabilità non parleranno un granché di inglese. Le persone che incontro sono quasi tutte comuniste, in particolare i ricchi». 5 maggio 2023: Fran Lebowitz sbarca a Milano. Non è una “prima volta” tout court – come si evince dal succitato estratto antecedente di parecchi anni al mandato Beppe Sala, nel capoluogo lombardo l’umorista newyorkese di origini ebraiche ha già viaggiato a più riprese –, nondimeno è lecito parlare di debutto: per la prima volta, appunto, Lebowitz porta in Italia uno dei suoi celebri public speech. Il teatro degli Arcimboldi è pieno zeppo, gremito per larga parte di quei giovani che Lebowitz l’han conosciuta come protagonista della miniserie documentaria Fran Lebowitz – Una vita a New York, diretta dall’amico di sempre Martin Scorsese e vista & stravista dagli utenti di Netflix durante il lockdown del 2021 («in pratica, l’hanno guardata tutti tranne me» ha chiosato lei che, com’è noto, non dispone di una connessione internet). Il format è quello a cui Lebowitz ci ha abituati da quando, circa a metà degli anni 90, afflitta da un blocco dello scrittore ormai celebre, ha smesso di pubblicare libri prendendo a monetizzare per vie traverse il suo ingegno sbarazzino: un palco, due sedie, un’intervistatrice che rompe il ghiaccio e poi l’atteso botta e risposta con il pubblico, libero di rivolgere a Fran le domande più disparate per godere – anche piuttosto rumorosamente – delle sue risposte acuminate.
Impeccabile nella divisa d’ordinanza (jeans Levi’s, giacca di sartoria di foggia maschile, stivali da cowboy e occhiali tartarugati: nel 2007 è stata «one of the year’s most stylish women» per la rivista “Vanity Fair”), la fu scrittrice – ma pure collaboratrice domestica e taxi driver: «Nella New York degli anni 70, trovare lavori tremendi e mal pagati era un gioco da ragazzi» – ha fatto esattamente quel che ci si aspettava che facesse, e bene, soddisfacendo con sprezzatura irresistibile (quasi) tutte le curiosità del pubblico – comprese quelle più improbabili se non, addirittura, incomprensibili – in un’infilata di stoccate senza eguali. Dalla New York di oggi a quella mitologica di ieri, di cui Lebowitz stessa è un’istituzione, dal futuro dei podcast alla desolazione dell’Oklahoma, non esiste argomento sul quale questa giovanissima settantaduenne non sappia aggraziatamente ricamare: quella che ha consegnato al pubblico degli Arcimboldi, lo scorso 5 maggio, è anche e soprattutto una bellissima lezione di retorica. Per chi non c’era, o per chi c’era ma era troppo impegnato a sbellicarsi per prendere appunti; per chi ancora non la conosce, per chi già l’ha eletta a nume tutelare dei propri malumori come pure per chi, non potendola proprio soffrire, non aspetta altro che di vedere confermato il proprio giudizio (spoiler: noi giochiamo nell’altra squadra), abbiamo stilato a partire dalle sue dichiarazioni una piccola guida non esaustiva al Lebowitz-pensiero. Perché Fran Lebowitz, si sa, è meglio dirla con parole sue.
AMERICA, OGGI La prima parte della serata al teatro degli Arcimboldi di Milano s’incentra giocoforza sull’attualità politica degli Stati Uniti, dove – rammenta Lebowitz – nel 2024 si terranno le 60e elezioni presidenziali. Dieci giorni prima, il 25 aprile, Biden ha annunciato la propria candidatura per il suo secondo mandato e l’umorista non l’ha presa granché bene: «Ogni volta che lo vedo, faccio immancabilmente lo stesso pensiero: Joe, ti prego, non cascare! Come puoi fare il presidente degli Stati Uniti, se sei troppo vecchio persino, dico, per guidare? Va detto che portandolo alla Casa bianca qualcosa di buono l’abbiamo fatto: se non altro, abbiamo tolto un anziano dalla strada. Sono piuttosto pericolosi, al volante».
ATTIVISMO A parole sue: «Sono decisamente troppo poco attiva per essere un’attivista. Come la maggior parte di voi saprà, sono omosessuale. Tuttavia, pur riconoscendone ovviamente la bontà, personalmente fatico a identificarmi del tutto con la causa LGBTQIA+: tra i diritti per i quali il movimento ha lottato di più ci sono quello di sposarsi e quello di entrare nell’esercito, due cose – il matrimonio e l’esercito – dalle quali ero ben contenta, in quanto lesbica, di essere esclusa».
DORMIRE Secondo soltanto allo sforzo profuso da Fran Lebowitz nel dribblare attivamente i suoi doveri di autrice (vedi alla voce “Scrivere”, sotto), l’impegno profuso dall’intellettuale nell’atto di dormire, per il quale a detta sua ha sempre «dimostrato una determinazione e una perseveranza incredibili». Per saperne di più, aderite al conciso Programma di studio sul sonno di Fran Lebowitz, coerentemente proposto in Italia da Bompiani tra le pagine della raccolta La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire.
MICE/MOUSES Le parole sono importanti. Ma ancora più importante per Lebowitz è l’ortografia: «Quando ero bambina, erano soltanto due le cose che mia madre pretendeva da me: buone maniere e una grammatica impeccabile» ha raccontato al pubblico degli Arcimboldi. Santa patrona dei grammar nazi di tutte le epoche e le latitudini, non perde l’occasione di riportare sulla retta via chi si è smarrito. Come quella volta in cui – nel bel mezzo di una possibile aggressione a proprio danno dalle parti del Washington Square Park, mentre rincasava a piedi alle prime luci dell’alba – non si è fatta alcuno scrupolo a rimbrottare il brutto ceffo minacciosamente paratosi sulla sua via: «Are you afraid of mouses, lady?» le ha chiesto lui, provocandola; «Mice, the plural for “mouse” is “mice”, not “mouses”» ha risposto lei, sprezzante del pericolo. Del resto, un tentativo di rapina subìto l’aveva già ripercorso in una delle sette puntate della miniserie Fran Lebowitz – Una vita a New York. Allora, aveva semplicemente cercato di convincere l’assalitore a non rapinarla: «Sì, è vero, ho molto denaro con me, ma… ecco, se non ti dispiace mi servirebbe».
NEWYORKESI Pretend It’s a City, la miniserie Netflix diretta da Martin Scorsese, prendeva il titolo originale da una frase con cui Fran Lebowitz aveva una volta apostrofato uno dei malcapitati giramondo che avevano incrociato il suo cammino, troppo concentrati sullo schermo del proprio cellulare per accorgersi di lei che avanzava a grandi falcate per le strade della Grande mela: «Fingi che sia una città dove ci sono altre persone. Persone che non si trovano qui soltanto per turismo, ma magari devono andare da qualche parte, ad appuntamenti che pagano queste cose che tu vieni a vedere!». I turisti però non sono gli unici bersagli dei suoi strali “urbani”, rivolti anche ai suoi concittadini dei quali, durante la serata al teatro degli Arcimboldi, ha fornito svariate caustiche definizioni: «I newyorkesi sono convinti di possedere cose che non hanno neanche in affitto. Amano il cambiamento, e poi non fanno che lamentarsene». Touché.
OPINIONE «Questo è il mio parere sull’argomento. Dunque, è un fatto»: a pochi minuti dal calcio d’inizio del suo public speech milanese, Fran Lebowitz mette a segno una battuta che è già un concentrato purissimo di Lebowitz-pensiero. Con la dichiarata spocchia che la contraddistingue rincarerà la dose poco dopo, nel frangente riservato agli interrogativi degli spettatori: «Non sono certa di quale fosse la tua domanda, ma sicuramente questa è la mia risposta».
PARTY “Misantropa”, “solitaria” (vedi anche alla voce “Solitudine”, sotto), “scostante”. Fra i primi aggettivi che saltano alla mente a proposito di Fran Lebowitz difficilmente troverà posto “festaiola”. La burbera non-scrittrice, invece, è un autentico animale da party: «Non ricordo di preciso dove io e Marty (Martin Scorsese, ndr) ci siamo conosciuti, ma dev’essere stato per forza a una festa. Per quanto questo dato possa sembrarvi sorprendente, sono molte le feste a cui partecipo. Decisamente di più di quelle a cui va Marty: ecco spiegato perché Marty ha girato molti film e io, invece, non ho scritto molti libri...» (vedi anche alla voce “Scrivere”, sotto).
POLITICAMENTE CORRETTO Comprendere il fenomeno ci riesce pressoché impossibile, ma tant’è: tra i Grandi Spauracchi del presente, prima della crisi climatica e della guerra in Ucraina, c’è il temibilissimo politicamente corretto. Nel corso della serata milanese non poteva dunque mancare una domanda ad hoc, rivolta peraltro a colei che sulla libertà d’esprimere un’opinione attorno a qualsivoglia tema ha costruito tutta una carriera (dallo sport all’arte, dalle sigarette elettroniche alla cancel culture, dal concetto di guilty pleasure ai germogli di soia, l’umorista ha detto la sua su talmente tanti argomenti che si farebbe prima a redigere un elenco dei pochi scampati alla sua perfida arguzia). «Un conto è fare qualcosa, un altro conto è dirlo. Dire liberamente quello che si vuole non deve essere considerato un crimine, tutto deve poter essere detto! Se una cosa non ti piace, se ti offende o infastidisce, è semplice: non leggerla!» ha prevedibilmente sbottato Lebowitz, approvata dagli applausi scroscianti della platea. Di diverso segno la replica immortalata da Scorsese in Fran Lebowitz – Una vita a New York quando, dal pubblico di uno dei suoi public speech negli Stati Uniti, qualcuno le aveva chiesto se il politicamente corretto ci avrebbe pian piano «soffocati»: «Dal canto mio, respiro benissimo» era stata la lapidaria, bellissima risposta di Fran.
SCRIVERE Per rendere conto del “complesso” rapporto di Fran Lebowitz con la scrittura – a proposito del quale sono già state scritte più righe di quante Lebowitz medesima, probabilmente, mai ne scriverà – basterebbe citare il titolo di uno dei suoi saggi, Scrivere: un ergastolo (in originale Writing: A Life Sentence, con annesso calembour giocato sul doppio significato di “sentence”, “sentenza” ma pure “frase”). «La carriera letteraria», avverte Lebowitz in quel testo, «non è priva di inconvenienti; in primis, la sgradevole questione che, spesso, si è davvero chiamati a sedersi e scrivere». Avendo sperimentato sulla propria pelle i rischi del mestiere – in una bella intervista di James Linville e George Plimpton pubblicata nel 1993 sul numero 127 di “Paris Review”, ha definito quella di non scrivere «la professione più estenuante che abbia mai provato» – si premura di mettere in guardia i possibili genitori di potenziali scrittori, consegnando loro un agile prontuario dal titolo Come capire se vostro figlio è uno scrittore (lo trovate per intero in La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire). Tra i segnali da tenere d’occhio prima ancora della nascita del pupo, il fatto che «quando il ginecologo appoggia lo stetoscopio alla vostra pancia, non sente che scuse»; mentre dopo il lieto evento – che avrà luogo con un ritardo di almeno tre settimane, perché «il bambino ha avuto un sacco di problemi col finale» – non resterà che attendere le prime parole del pargolo, le quali, ça va sans dire, saranno: «La settimana prossima». Quanto a lei niente paura: sebbene scriva così lentamente «da poter usar il proprio sangue come inchiostro senza recarsi alcun danno», al pubblico milanese confida che il romanzo con cui senz’ombra di dubbio vincerà il Nobel «è quasi pronto».
SOLITUDINE Se c’è un diritto (vedi anche alla voce “Attivismo”, sopra) per il quale Fran Lebowitz, invece, ha sempre strenuamente combattuto, è quello alla solitudine – la immaginiamo tra le fila dei poveri single costretti loro malgrado a procacciarsi un partner nell’hotel dei cuori infranti di The Lobster di Lanthimos: chissà in quale animale avrebbe scelto di trasformarsi… Appagata spesso e volentieri dalla compagnia esclusiva di se stessa («il brutto di uscire dal tuo appartamento è che c’è così tanta gente là fuori» osservava da ben prima che i meme sui trentenni, Netflix e il sabato sera spopolassero sui social), del confinamento da COVID-19 ha raccontato: «All’inizio del lockdown una mia amica (che in tutta evidenza non aveva letto il suo saggio dal titolo Piante: le radici di tutti i mali, ndr) mi ha mandato delle orchidee del valore di un milione di dollari con un biglietto che recitava: “Spero che ti facciano compagnia”. L’ho chiamata per ringraziarla e le ho detto: “Apprezzo moltissimo i tuoi fiori, ma sul serio hai l’impressione che sia un caso, se vivo da sola?”». Uno spettatore della soirée meneghina la incalza: «E quando l’altrui compagnia non c’è modo di evitarla, come accade, per esempio, in aereo? Se potessi selezionare il tuo vicino di posto, chi sceglieresti di avere accanto?». «Be’, è facile: un uomo morto». Non è una boutade: in uno dei momenti più genuinamente divertenti della serata, Lebowitz riferisce di quella volta in cui, a bordo di un volo transoceanico, e con un entusiasmo incomprensibile ai più, si è offerta di occupare il posto vacante accanto a uno sventurato passeggero deceduto in quota poco prima. Un corpo inerte, ma soprattutto muto. CATERINA BOGNO
È iniziato il 76° Festival di Cannes (non perdete la guida di Film Tv in edicola!), che quest’anno vede in Concorso un numero record di registe: ben sette, non era mai accaduto prima. L’unica italiana, con La chimera, è Alice Rohrwacher, di cui al momento sono disponibili tutti i precedenti lavori su MUBI, e a cui avevamo dedicato il n. 15/2023 di Film Tv (con la bellissima copertina disegnata per noi da Mara Cerri). Vi riproponiamo il pezzo principale di quel numero, in cui Emiliano Morreale faceva il punto sul cinema dell’autrice toscana.
Alice nel cinema delle meraviglie
Con tre lungometraggi e alcuni lavori sparsi, Alice Rohrwacher è uno dei nomi di punta del cinema italiano degli ultimi decenni. Nella nostra cinematografia recente il meglio lo hanno dato figure come lei (e come Pietro Marcello e Michaelangelo Frammartino, o altri che vengono dal documentario come Stefano Savona e Leonardo Di Costanzo), dalla formazione eccentrica, dal metodo di lavoro singolare, spesso all’incrocio tra i linguaggi. Insomma figli bastardi del cinema e della sua storia, intenti a raccogliere e creare percorsi di senso, di verità e di emozione in un paesaggio visivo dominato da frammenti online e da una sovrapproduzione di storytelling televisivo. La sua formazione personale e il suo stile di vita (figlia di apicoltori post-sessantottini, vive in Umbria dove è cresciuta continuando a occuparsi della campagna) ne fanno un corpo felicemente estraneo alle logiche del nostro cinema, corteggiato però moltissimo dai cinefili e dai festival internazionali. Dopo aver realizzato appena un brevissimo cortometraggio in un film collettivo, Rohrwacher sbalordì col suo esordio a 29 anni. Corpo celeste (2011) era un piccolo film massimalista, di una maestria sorprendente: l’osservazione di un microcosmo cattolico del sud intorno a un’adolescente scartava dalla descrizione del contesto sociologico e diventava già, a ben vedere, una specie di percorso mistico laico, pagano, dentro le cose: la storia di come una ragazzina impara a vedere. E già il riferimento del titolo a Anna Maria Ortese, scrittrice tutt’altro che realista, era eloquente di un cinema che vede l’immersione nella realtà come percorso fisico, cognitivo verso un sacro terreno: il maestro di Rohrwacher, viene da dire, il suo modello di misticismo, è Tommaso l’apostolo, che deve prima vedere e toccare con mano. Forse da leggere in questa chiave anche la sua fedeltà a lavorare in pellicola, non solo per feticismo del mezzo ma perché la pellicola impone una sorta di concentrazione artigianale sulla singola ripresa. Che il cinema di Rohrwacher fosse non realista, bensì più precisamente rosselliniano nel senso del Rossellini anni 50, quello di Viaggio in Italia, Stromboli o Europa ’51, era chiaro da subito. Le meraviglie (2014) doveva mettere ancor più sull’avviso chi aveva insistito sul realismo come chiave per capire il suo cinema. Questo film più o meno autobiografico, su una famiglia in cui un padre energico e fragile è circondato da donne in sorellanza e conflitto, era in realtà un film storico e un film di fantasmi: quello del mondo contadino e quello dell’infanzia. Un racconto corale, che costruiva la relazione tra spazi sfruttando il caso, i dettagli che diventano il cuore del film. Rohrwacher si è trovata in sintonia, certo, con lo stile del cinema da festival: gli attori non professionisti, la macchina a mano; ma in lei, come in molti altri registi italiani delle ultime generazioni, c’è un sovrappiù di calore, una prossimità al mondo raccontato che risaltavano all’interno di quello che era ormai diventato un vero e proprio linguaggio transnazionale. Forse conta anche la sua curiosa formazione, che è autodidatta fino a un certo punto: la regista ha frequentato prima la scuola Holden (pernicioso modello di storytelling, che però le ha forse dato anche una base a bilanciare il proprio slancio lirico: le sceneggiature dei suoi film, che sembrano nascere sul set, sono in realtà minuziosissime) e poi dei laboratori teatrali da cui ha ricavato un innovativo modello laboratoriale di lavoro con gli attori (e lei ha insistito sempre sull’importanza della sua coach Tatiana Lepore). Ma come la naïveté nasconde una visione del mondo precisa, dei riferimenti culturali solidi, così la gentilezza fiabesca del suo cinema contiene (come la civiltà contadina) un fondo di sorniona crudeltà. Il nome che viene in mente per il suo ultimo film, Lazzaro felice, a parte l’evidente richiamo a Miracolo a Milano, non è Pasolini, ma Sergio Citti, un Citti meno cinico, non sottoproletario ma cresciuto appunto tra i fantasmi del mondo contadino.
Oltre ai lungometraggi, Rohrwacher ha compiuto altre esperienze occasionali, alcune particolarmente riuscite: ricordiamo il breve Quattro strade, girato in piena pandemia, ma anche i due episodi della seconda stagione di L’amica geniale, che sono un esempio rarissimo di messa in scena squisitamente cinematografica all’interno delle serie tv, e stavolta con il modello inatteso di Bernardo Bertolucci. Il suo cortometraggio Le pupille (2022), ispirato a una lettera-racconto di Elsa Morante, la situa ancor di più sul piano della pura fiaba, e ha sancito un piccolo trionfo internazionale, tra Cuarón produttore, la Disney e la nomination all’Oscar. Ora, all’equivoco sul “cinema del reale”, rischia di seguire quello sulla “poesia”. E la poesia è un terreno impervio, pericoloso, nel quale Rohrwacher dovrà muoversi con cautela - ma ha un mondo e un metodo solidi, che la possono tenere al riparo e consentirle di cercare quel suo fiero e appassionato percorso estetico che potremmo chiamare la ricerca della grazia.
EMILIANO MORREALE
Prima della serie Netflix Fran Lebowitz – Una vita a New York, Martin Scorsese aveva dedicato all’autrice un film documentario, nel 2010, intitolato Public Speaking: lo trovate su YouTube. E se ancora non vi basta, potete proseguire con una conferenza tenuta da Lebowitz al Whitney Museum e con una collezione di sue apparizioni al Late Show di David Letterman [in inglese].
Esce oggi su RaiPlay Sound Figlie, il nuovo podcast di Sara Poma, già autrice dei bellissimi Carla – Una ragazza del Novecento e Prima (quest’ultimo divenuto anche un libro, Il coraggio verrà). Il nuovo lavoro è il racconto dell’incontro tra Poma e Sofia, figlia di una desaparecida cresciuta in Italia: le due donne scoprono l’urgenza comune di elaborare il lutto materno e intraprendono un viaggio in Argentina.
L’edizione n. 37 del Festival Mix di Milano si svolgerà il prossimo settembre, ma intanto gli organizzatori preparano per maggio e giugno alcuni eventi di avvicinamento. Stasera, 17 maggio, al cinema Anteo, la proiezione di Blue Jean di Georgia Oakley, il 28 maggio in Fondazione Prada Broadway di Christos Massalas. A giugno in Fondazione Prada ci sarà un incontro con Céline Sciamma, al Teatro Studio un’anteprima della performance A Ghost Story di Chiara Bersani. Tutte le informazioni qui.