Singolare, femminile ♀ #085: Vestire il multiverso
Dopo le attrici protagoniste, proseguiamo la nostra road to the Oscars con il lavoro della costumista Shirley Kurata, candidata per il multidimensionale guardaroba di Everything Everywhere All at Once, ispirato alle sue origini tra Oriente e Occidente.
Candidata agli Oscar 2023 per i costumi di Everything Everywhere All at Once, Shirley Kurata ridefinisce i confini di ciò che significa vestire i personaggi di un film, anche grazie ai visionari registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert (in arte i Daniels), che le consegnano una bomba a mano della quale deve solo tirare la linguetta, cosa che Kurata fa aiutandosi con altri esplosivi effetti speciali fatti di tessuto, materiali folli e glitter come se piovessero.
Everything Everywhere All at Once è un’opera che sfugge intenzionalmente a una chiara definizione, la multidimensionalità è il suo tratto distintivo e come un gioco di scatole cinesi si compone di contenitori di senso incastrati tra loro e di personaggi che viaggiano al loro interno, spostandosi da una realtà all’altra. Il conflitto alla base dell’enorme macchina narrativa è il problematico legame tra Evelyn (Michelle Yeoh), una donna stressata dal lavoro e dalla ripetitività della sua vita, e sua figlia Joy (Stephanie Hsu), prigioniera di un loop di insoddisfazione e incomunicabilità. Tale conflitto, al cuore del film, genererà uno scontro su larghissima scala e in molteplici dimensioni per tornare, infine, al punto di partenza.
In tutto il film si assiste in sottotraccia al dialogo costante tra due culture, che confliggono e si specchiano (e, a volte, si prendono letteralmente a calci) all’interno di uno scontro generazionale: due mondi di riferimenti che si esprimono sullo schermo attraverso i personaggi di madre e figlia, ma anche Oriente e Occidente, tradizione e innovazione, Wong Kar-wai e Quentin Tarantino… Questi universi comunicanti di riferimenti culturali, artistici, narrativi e cinematografici si riversano come un fiume in piena nel lavoro di Shirley Kurata, che ha la possibilità (non così frequente per chi fa questo mestiere) di comunicare uno sguardo, un progetto totale, un disegno significativo e fondamentale per l’effetto finale del film, in cui gli abiti e gli accessori non sono solo parte di una serie di outfit, ma sono chiavi di lettura utili a cogliere il senso del film. In questo caso, il reparto costumi è coinvolto a tutto tondo, ed è per questo che ogni piuma ha un senso, così come ogni linea colorata o paio di scarpe.
Shirley Kurata è nata a Los Angeles ma ha origini giapponesi, ha studiato fashion design a Parigi ed è diventata stilista, ha lavorato per molte campagne pubblicitarie di moda (come quelle di Rodarte e Kenzo) e ha vestito, tra gli altri, Kirsten Dunst, Billie Eilish, Lena Dunham, Pharrell Williams e Mindy Kaling. Prima di Everything Everywhere All at Once ha collaborato ai costumi di alcune serie tv e di una quindicina di lungometraggi (tra cui Don't Come Knocking di Wim Wenders e Alpha Dog di Nick Cassavetes).
In un’intervista del 2018 su Los Angeles Magazine Kurata attribuisce la sua estetica a due influenze principali: una collezione di Barbie degli anni 60 ereditate da sua zia e varie riviste di moda giapponesi recuperate durante viaggi con i genitori, piene di look stravaganti e audaci. Nelle sue creazioni lo streetwear dialoga con forme tridimensionali, il vintage si affianca a blocchi di colore intensi e pop, le stratificazioni hanno sempre significati che vanno oltre l’effetto plateale, ma soprattutto ogni abito racconta più di una storia. La collaborazione con i Daniels era destinata a rivelarsi un successo, questo perché Kurata rilegge se stessa nel personaggio di Joy, e ogni trasformazione visiva (indizio fondamentale per chi segue la storia) è un violento ma giocoso ribaltamento di elementi della moda e della cultura orientale che si fondono a quella occidentale, determinando una sfida.
Every world, every possibility, every outfit. Cosa è possibile realizzare quando il limite è solo la propria immaginazione? Esattamente, tutto. Nell’intersezione sfrenata del “cosa avrei indossato se” Kurata si sbizzarrisce senza regole. I primi ad annullare qualsiasi costrizione rappresentativa, d’altronde, sono i due registi: il loro film è, prima che un viaggio in molteplici universi, un vero inno al cinema, quindi pieno di riferimenti, con sequenze pulp in stile tarantiniano, ralenti come omaggio al cinema di Wong Kar-wai, citazioni ai film kung-fu comedy di Jackie Chan e ai combattimenti di Matrix (con tanto di realtà alternative).
Il “modesto” punto di partenza per i costumi è la famiglia Wang: gli abiti della coppia, immigrata da Hong Kong negli Stati Uniti, e formata da Evelyn e Waymond (Ke Huy Quan), traggono ispirazione dalla storia personale della costumista. Moglie e marito, proprietari di una lavanderia a gettoni, hanno uno stile dimesso, composto di indumenti economici, per il quale Kurata si ispira ai ricordi legati ai vestiti di sua madre e suo padre, due genitori asiatici arrivati in un nuovo Paese, a loro volta proprietari di una lavanderia. Il gilet trapuntato, la camicetta a fiori, i pantaloni tagliati alla caviglia di lei, provengono tutti da Chinatown, ed è lì che Kurata si è procurata gli abiti. Lo stesso vale per i pantaloni e la polo a righe di lui.
Nulla è lasciato al caso, i dettagli fanno la differenza, come per il maglione rosso con la scritta “PUNK” che Evelyn indossa durante la festa del Capodanno cinese (uno di quei capi con una scritta “inopportuna” che una mamma indosserebbe con ingenua nonchalance), o il maialino portachiavi di Waymond, in stile kawaii, attaccato a un marsupio multicerniera (acquistato su Amazon).
La cultura asiatico-americana della stilista funge da base per una rappresentazione autentica e non artefatta di una precisa tipologia di persone/personaggi, come per Joy, la figlia nata e cresciuta in America, insoddisfatta della propria vita ma soprattutto del rapporto con una madre ancora legata alle tradizioni e incapace di accettare la sua omosessualità. Lo stile di Joy mixa i generi, mettendo in risalto la sua distanza, anche nella fisicità, da Evelyn, ed esprime il caos mentale che ne farà la villain più psichedelica di sempre, ovvero la spietata Jobu Tupaki.
Evelyn e Waymond rimarranno abbastanza sobri negli accostamenti durante i salti dimensionali, lei in particolare continuerà ad adottare stili visivamente puliti, come nel caso del costume tradizionale quando si ritrova nei panni di una cantante, o delle varie uniformi (da combattimento, da chef) nelle diverse realtà. Nel mondo alternativo in cui la donna padroneggia l’arte del kung-fu, e diventa grazie a quest’arte un’attrice di successo, indossa un abito lungo da red carpet color champagne per il quale Kurata si è affidata allo stilista libanese Elie Saab, uno dei preferiti della stessa attrice Michelle Yeoh. Il completo classico di Waymond invece è realizzato su misura dai sarti di Koreatown a Los Angeles.
Lo stesso vale per l’ormai celebre universo in cui ogni personaggio ha würstel al posto delle dita. Qui Evelyn vive una problematica relazione omosessuale con Miss Deirdre (Jamie Lee Curtis, che nel mondo di partenza interpreta una ispettrice delle tasse) e i loro abiti dai colori pastello risultano sobri. Sono vestite con indumenti praticamente uguali ma con nuance diverse, come a sottolineare che le due donne sono più simili di quanto possano pensare. Hanno camicette morbide con fiocco e gilet ton sur ton, e sono l’una lo specchio dell’altra nei loro coordinati che, nell’ampio spettro cinematografico attraversato dai Daniels, qui vivono atmosfere intense che evocano ironicamente cliché da “cinema d’essai europeo”.
Ma l’equilibrio dei cambi d’abito di Evelyn si contrappone al delirio visuale di quelli di Joy/Jobu Tupaki che, esasperata dalle pressioni esterne che la spingono a essere ciò che non è, attraversa tutti gli universi possibili, sperimentando folli contrasti, mutando di continuo. La sua sfida ai codici comuni accettati dalla madre avviene senza esclusione di colpi.
I costumi di Joy (quasi una quindicina di cambi) sono incredibilmente stravaganti e sembra siano dotati di vita propria. Questo perché le texture e le consistenze scelte da Kurata occupano un preciso spazio seguendo i movimenti dell’attrice e restituendo grande dinamicità. È evidente durante la sequenza in cui è vestita come una cantante K-pop con pantaloni in vinile e scenografica felpa con cappuccio e orsacchiotti sulle spalle. La velocità con cui Joy si cambia sembra omaggiare le classiche sequenze nei manga o negli anime giapponesi in cui il cattivo può cambiarsi d’abito continuamente e in poco tempo, solo per fare più paura con quello successivo.
La sua minacciosa entrata in scena avviene con un completo tartan (realizzato su misura dalla designer cino-neozelandese Claudia Li) con stivaletti e maschera sul viso nella stessa fantasia. Prima ripresa da dietro, poi di fronte ma vista in penombra, lei è la cacciatrice che sta creando scompiglio del multiverso e quella è la sua prima tenuta da caccia. Basta un tocco leggero sulla fronte di Evelyn per tramutarla in un bebè gigante con tutina rosa e volto insanguinato, mentre Jobu si trasforma di nuovo, ma stavolta in una signora anziana con vestiti a fiori, facendo il verso proprio a sua madre.
Da lì ha inizio la sfilata del caos. Jobu Tupaki si rivela a Evelyn indossando quante più suggestioni riesce a scovare. Una tuta bianca tempestata di strass come quella di Elvis (con tanto di cinturone) ma abbinata a un carrè rosa che le arriva alle spalle. Una lottatrice di wrestling con mini tuta stretch turchese, pelliccia abbinata e orecchini verde acido a forma di saetta. Poi un sobrio completo da golf con il gilet motivo argyle nei toni del rosa e visiera bianca sopra un make-up fucsia che le ricopre gli zigomi come un perturbante rossore.
I suoi vestiti riflettono la rilettura di accessori e luoghi comuni nelle mode orientali, investiti però dall’aggressività fluo di un inconscio, quello di Joy, forzatamente messo a tacere, una ricerca identitaria che passa anche dagli indumenti e che finisce con l’esplodere in capovolgimenti di genere (come nel caso in cui è vestita da uomo mentre conduce un passo a due con un poliziotto trasformato in una sorta di Carmen Miranda cheap), e rappresentazioni ironiche di modelli femminili e presumibilmente indifesi (nell’abbinamento da bambolina dark goth con un enorme mitra pronto a sparare).
Nel momento in cui Joy si presenta come la sovrana del regno di Bagel, l’ispirazione è totalmente futuristica e ispirata a classici della fantascienza come Dune. L’aspetto regale è dato dalla struttura del corpetto rigido con le spalle a punta e dalla pettinatura scultorea con trecce e bagel gigante. Mentre i cristalli impreziosiscono la parte superiore del completo, sul viso e intorno al collare elisabettiano una pioggia di perle ricade ordinatamente.
Chiudendo meravigliosamente il cerchio, l’ultimo outfit, ossia Jumble Jobu, è un patchwork di tutti gli altri. Kurata costruisce manualmente un vestito in cui si ritrovano “pezzi” prelevati dai precedenti indossati da Jobu: un tassello di tartan, una parte di lana, un fiocco di satin a tanti altri tasselli del puzzle. Con il volto truccato da Pierrot cubista e addosso un insieme di maschere e possibilità, la ragazza contesa tra mondi e cultura inconciliabili sta per perdersi nella confusione di colori e consistenze. Finché Evelyn non le tende la mano. Quell’ultimo cambio d’abito sta a significare l’apoteosi della confusione di Joy/Jobu, è il momento in cui, ormai satura della sperimentazione incontrollata, la giovane si trova vittima di un frastuono di stili. È la chiusura ideale del viaggio compiuto senza cintura di sicurezza con Shirley Kurata e la sua fantasia.
Everything Everywhere All at Once è, dunque, un’opera che costruisce la sua stratificazione narrativa anche attraverso i costumi, e che fa della fusione di generi e stili una forza dal grande impatto visivo. La costumista veste letteralmente il multiverso, spaziando tra tutte le sue esperienze e ispirazioni, e firmando un teatro delle possibilità fatto di stoffa e materiali tridimensionali. SILVIA PEZZOPANE (autrice e co-fondatrice di Framed Magazine)
Fresca di SAG Award, dopo aver già ricevuto il Golden Globe, per il ruolo di Evelyn in Everything Everywhere All at Once Michelle Yeoh è candidata anche all’Oscar (ne abbiamo parlato nello scorso numero della newsletter): per sapere se vincerà la statuetta nella Notte delle stelle bisogna aspettare il 12 marzo, intanto vi riproponiamo il ritratto dell’attrice apparso su Film Tv n. 6/2023.
Tutto e bene
Coerente con il significato del titolo del film di cui è protagonista (“tutto ovunque tutto insieme”), il personaggio di Everything Everywhere All at Once (tornato in sala in questi giorni sull’orlo delle 11 nomination agli Academy Award, su IWONDERFULL e IWONDERFULL Prime Video Channel disponibili contenuti speciali a tema) che ha regalato a Michelle Yeoh la candidatura agli Oscar è una persona normale che scopre di poter saltare da un piano all’altro del multiverso apprendendo nozioni dalle infinite iterazioni di se stessa per riuscire a raggiungere il suo massimo potenziale come essere umano. Non per sminuire il lavoro dei Daniels, ma forse la coppia di registi e sceneggiatori poteva inventarsi un modo meno arzigogolato e fantascientifico per girare un documentario dedicato alla carriera di Yeoh, interprete che - scherzi a parte - in quasi quarant’anni di carriera ha fatto davvero tutto e, specialmente, l’ha fatto bene. Yeoh nasce in Malesia nel 1962 da genitori di etnia cinese, si trasferisce a Londra a 15 anni per studiare danza classica e, dopo essere stata costretta a rinunciare al balletto a causa di un infortunio alla schiena, decide di dare tregua (si fa per dire) al proprio corpo diventando una star del cinema action di Hong Kong e imparando dai migliori interpreti, registi e coreografi (Jackie Chan, Sammo Hung, Corey Yuen, Ching Siu-tung e Yuen Woo-ping) la pericolosa arte di girare le proprie scene d’azione senza controfigure. Notata dopo aver partecipato a uno spot con Jackie Chan, Yeoh viene rapita dalla catena di montaggio hongkonghese ed emerge dopo pochi anni di gavetta grazie al ruolo da co-protagonista in Police Story 3 Supercop - dove rischia la vita in almeno due incredibili stunt suicidi - e nell’action/fantasy al femminile (al fianco di Maggie Cheung e Anita Mui) The Heroic Trio, diretta da Johnnie To. Diva del cinema d’azione: fatto. Nel 1997 Yeoh sbarca a Hollywood e, in Il domani non muore mai, eclissa Pierce Brosnan nei panni di Wai Lin, la Bond girl che non ha alcun bisogno di essere salvata da 007. Nel 2000 Yeoh prosegue la sua ellittica conquista dell’Occidente, imparando per l’occasione il mandarino e contribuendo a fare di La tigre e il dragone un fenomeno globale. Diva del wuxiapian: fatto. Quindi abbandona temporaneamente l’action puro per confrontarsi con ruoli meno fisici e più prettamente drammatici in Memorie di una geisha, Sunshine e The Lady; un'interpretazione nei panni del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, quest’ultima, che nemmeno la cafonaggine di Luc Besson può sminuire. Diva del cinema drammatico, in costume e di genere: fatto. Negli ultimi anni si sono aggiunti anche i tasselli della Marvel (in Guardiani della galassia: Vol. 2 e Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli), della commedia romantica (Crazy & Rich, Last Christmas) e delle serie tv (Star Trek: Discovery, The Witcher: Blood Origin). Come volevasi dimostrare: ha fatto davvero tutto e, specialmente, l’ha fatto bene.
NICOLA CUPPERI
Anima femminile del Free cinema che ha contribuito a fondare, regista e scrittrice, intellettuale italiana trapiantata a Londra per un decennio - gli anni 50 - fondamentale, Lorenza Mazzetti è scomparsa tre anni fa e oggi il suo autobiografico Il cielo cade è pubblicato in una nuova traduzione inglese da Another Gaze Publications: su Limina rivista ne parla la traduttrice Livia Franchini.
Preapertura il 9 marzo, con Educazione fisica di Stefano Cipani, protagonista Giovanna Mezzogiorno, e un denso programma dal 10 al 18, a Milano, per Sguardi altrove film festival, 30ª edizione dell’evento dedicato al cinema delle donne diretto da Patrizia Rappazzo. Premio alla carriera per Lina Sastri, madrina Donatella Finocchiaro, un omaggio alla regista iraniana Firouzeh Khosrovani (arrestata a maggio e in attesa di condanna), oltre 70 titoli divisi in 9 sezioni. Il programma completo qui.
L’8 marzo si celebra la Giornata internazionale della donna: stiamo preparando un numero speciale della newsletter, e intanto vi segnaliamo, fra le tante iniziative, la programmazione ad hoc di Nexo+, che dedica una rassegna in streaming alle Donne dietro la macchina da presa: da Persepolis di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud a La figlia oscura di Maggie Gyllenhaal.