Singolare, femminile ♀ #084: Simply the best?
Che senso hanno gli Oscar e, in particolare, quello alla migliore attrice protagonista? Dall’istituzione del premio alle straordinarie candidate di quest’anno, passando per il tanto dibattuto “caso Andrea Riseborough”, proviamo a fare un primo punto, in attesa della Notte delle stelle.
Che senso hanno gli Oscar?
La domanda non manca mai, ogni anno, rimbalza da più parti, sia nei mesi che precedono la cerimonia, sia nei giorni successivi. Fioriscono gli elenchi di titoli straordinari che nemmeno sono stati ritenuti degni di una nomination, o le liste di grandi interpreti o registi che hanno fatto la storia della settima arte ma non hanno mai portato a casa nemmeno una statuetta. Quest’anno, per ironia della sorte (o forse no), ci sono due attori che gareggiano per aver impersonato due icone, Elvis Presley e Marilyn Monroe, le quali non hanno mai vinto un Oscar, nonostante non abbiano eguali nell’empireo delle divinità pop. Nel 2020, collezionando le quattro storiche statuette per Parasite (il primo titolo non in lingua inglese a ottenere il premio più ambito, quello per miglior film), il regista Bong Joon-ho si trovò a scherzare più volte, affettuosamente, su quello che, in fondo, è un prestigiosissimo riconoscimento regionale: d’altronde, per poter partecipare, a un film basta esser stato distribuito in sala nella contea di Los Angeles per una settimana, e la maggioranza del corpo votante risiede o lavora a Hollywood e dintorni. Dopo il record di telespettatori della cerimonia del 1998 (quella in cui trionfò Titanic, esattamente 25 anni fa), anche il pubblico televisivo della serata è andato inesorabilmente calando, fino a toccare picchi bassissimi negli ultimi anni (l’edizione della pandemia, quella del 2021, è stata la meno vista in assoluto). Ed è dal 2003 di Il Signore degli Anelli: Il ritorno del re che a vincere i premi più prestigiosi non è un film che ha avuto anche successo al botteghino, spalancando una forbice sempre più ampia tra i titoli che segnano la cultura popolare e quelli che l’Academy sembra reputare degni di acclamazione.
Che senso hanno, dunque, gli Oscar, e per chi? Accapigliarsi sul “merito” di film e performance è inevitabile, ma è un discorso che rischia spesso di non centrare il punto: in un panorama comunque iper produttivo, in un bacino sempre più vasto (a maggior ragione da quando nel “gioco” sono entrate le piattaforme streaming e l’Academy ha – alla buon’ora – deciso, almeno nelle intenzioni, di provare ad adottare uno sguardo lievemente meno anglocentrico), individuare davvero il miglior film o il miglior attore, etc., in assoluto e senz’ombra di dubbio, sarebbe impossibile pure se non fosse, al cuore, sempre una questione puramente soggettiva. È più corretto guardare agli Oscar come a un dorato sondaggio, o meglio ancora a una tornata elettorale. A eleggere i vincitori sono poco più di 10 mila persone, ma non persone qualunque: un folto (e, nonostante tutto, ancora non abbastanza variegato) gruppo di addetti ai lavori, registi, produttori, attori, scenografi, direttori della fotografia, montatori, costumisti e così via. È, dunque, un sondaggio tra esponenti dell’industria cinematografica, prevalentemente hollywoodiana, ai quali si chiede di esprimere le proprie preferenze sulla precedente annata produttiva; ma è anche una campagna elettorale, perché il percorso per arrivare prima alle nomination e poi al vincitore finale non si svolge nel vuoto e nel silenzio, ma in un frastuono pubblicitario e promozionale, che serve prima a ridurre il campo di scelta (le nomination come – potremmo dire – le primarie) e poi a incoronare il trionfatore (le votazioni vere e proprie).
Gli Oscar hanno senso prima di tutto per l’industria e per i suoi membri, fin dalla nascita, voluta da Louis B. Mayer, con il sostegno di tutti gli altri grandi studios, per dare lustro e prestigio a Hollywood e, contemporaneamente, per riunire tutte le professioni in un “corporativismo” che arginasse le possibili rivendicazioni sindacali. Vincere un Oscar, o anche solo una nomination, ha senso soprattutto per quelli a cui capita: cambia la vita e la carriera, significa più opportunità e più finanziamenti futuri, sancisce le direzioni in cui si muove l’industria. Non è un processo automatico, ma il motivo per cui (quasi) tutti vogliono vincere un Oscar è soprattutto questo: non si tratta semplicemente del coronamento di una carriera o dell’approvazione dei propri pari (tutte cose che hanno certamente un peso), ma della possibilità di continuare a lavorare a un certo livello, di ripetersi o anche di poter sperimentare, di ottenere più o meno credito futuro, di non sparire nell’invisibilità che spesso attende la fama dietro l’angolo. Nell’era hollywoodiana moderna – da quando l’emergere dei blockbuster ha spinto sempre più ai margini un cinema meno spettacolare, o più adulto, o semplicemente meno d’evasione, etc. – gli Oscar sono diventati un potentissimo strumento di marketing anche per chi non può contare su stupefacenti effetti speciali o fandom appassionati, anche questa una direzione che è andata esasperandosi con il dominio del Marvel Cinematic Universe e compagnia: per film più “piccoli”, percepiti come “adulti”, “impegnati”, “seri” o “difficili”, anche solo ricevere una nomination può fare la differenza, e farla per i suoi autori. È così che dentro la celebrazione dell’industria si è formata una sotto-industria: quella delle campagne (potremmo tranquillamente aggiungere: “elettorali”) per la vittoria agli Oscar.
Per queste e altre ragioni, se gli Oscar hanno un senso per chi non è un membro dell’industria hollywoodiana, è proprio quello di farsi fotografia spesso illuminante dell’industria stessa e dello stato delle cose cinematografiche (pensate al famosissimo selfie scattato da Ellen Degeneres, quello che “ruppe l’internet” durante la cerimonia del 2014, e a com’è invecchiato, e aggiungeteci pure un ulteriore livello meta). Scorrere l’elenco dei nominati e dei vincitori, dalla prima cerimonia del 1929 a quella che si svolgerà il prossimo 12 marzo, è un modo di ripassare e analizzare una possibile Storia di Hollywood, anche (e forse soprattutto) nelle esclusioni e nelle assenze oltre che nei trionfi e nei momenti che hanno segnato l’immaginario. E tra tutte le alternative possibili, guardare in particolare al premio per la migliore attrice protagonista è spesso una lente interessante e rivelatoria attraverso cui mettere a fuoco le dinamiche della fabbrica dei sogni.
Per le prime otto edizioni del premio, cioè fino a quando nel 1937 viene istituita la categoria “best supporting actress”, le donne che vincono Oscar sono infatti solo quelle che concorrono come protagoniste (solo due eccezioni: la soggettista Frances Marion e la script supervisor Sarah Y. Mason). E anche successivamente, lo sappiamo bene, le cose non cambiano poi troppo (ricordiamo, per esempio, che a oggi ancora nessuna direttrice della fotografia è stata insignita dell’onore): le categorie recitative sono le uniche in cui le donne sono rappresentate ogni anno, e attraverso le quali è dunque possibile ripercorrere un’evoluzione dei ruoli femminili che l’Academy ha ritenuto degni d’acclamazione (e che dunque spesso hanno rappresentato, o sfidato, l’immaginario coevo). Un campo ancor più significativo, se si tiene presente che, a livello statistico, diversi studi indicano che ancora oggi agli attori toccano più spesso ruoli da protagonisti rispetto alle attrici, più frequentemente inserite in quelli di comprimaria, spesso “funzionale” all’eroe maschile. E anche quando sono protagoniste assolute, è interessante notare che spesso i film che le vedono candidate non si ritrovano poi, se non in minima parte, nelle cinquine degli altri cosiddetti “premi maggiori” (regia, sceneggiatura e naturalmente miglior film). Prendete anche solo gli Oscar dell’anno scorso e controllate: nessuno dei titoli in gara per “best actress” compare nella decina dei candidati a “best picture”. Un’altra questione che fa capolino spesso nell’analisi della categoria – e questo è un fenomeno che significativamente varia di periodo in periodo – riguarda l’effettiva definizione di “protagonista”: non sono per nulla rari i casi in cui vengono categorizzate come “principali” parti che a tutti gli effetti sono secondarie, o che appaiono sullo schermo per un periodo molto ristretto di tempo. E se in certi casi può dipendere, certo, da ragioni strategiche e promozionali – come il caso di Nicole Kidman, che nel 2003 trionfò per il ruolo di Virginia Woolf in The Hours nonostante il suo tempo effettivo sullo schermo si riduca a un quarto d’ora –, molto spesso attrici non protagoniste vengono candidate come protagoniste perché… semplicemente le protagoniste in generale latitano (motivo per cui sono ancora molte le attrici a resistere l’idea, implementata in diversi festival internazionali, di un premio alla recitazione “genderless”: temono, probabilmente a ragione, di venire escluse quasi del tutto, se non dalla corsa, dalla vittoria).
Non è però il caso delle candidate agli Oscar 2023, la cui cinquina anzi ospita alcune delle più impressionanti prove attoriali dello scorso anno, e che probabilmente verrà ricordata come una competizione fondamentale in futuro. Anche perché segnata da un piccolo “scandalo in potenza”, che ha fatto molto discutere e che, a sua volta, è straordinariamente significativo di come funzionino sia gli Oscar sia Hollywood. Nella cinquina annunciata lo scorso 24 gennaio, e che comprende Cate Blanchett per Tár, Michelle Yeoh per Everything Everywhere All at Once, Michelle Williams per The Fabelmans e Ana de Armas per Blonde, il nome di Andrea Riseborough per To Leslie è stato quello che ha fatto più scalpore.
Per le ragioni sopra elencate, la “stagione dei premi” è ormai da decenni un sistema consolidato che assomiglia a una maratona e di cui gli Oscar sono, sostanzialmente, lo sprint finale: si può cominciare oltre un anno prima, con festival come il Sundance e la Berlinale, e sicuramente Cannes e ancor più Venezia, e poi da dicembre si entra nel vivo con un susseguirsi di altri premi, di categoria o di settore (dai Golden Globe ai Critics Choice Awards, passando per i riconoscimenti delle varie gilde di registi, produttori, attori, etc., e per i BAFTA britannici, assegnati proprio due giorni fa). Gli esperti e analisti li chiamano premi “precursori” e fin dalle nomination “circoscrivono” il campo da gioco, individuano i candidati che, nelle centinaia di film prodotti e distribuiti ogni anno, andranno davvero a giocarsi la partita. È qui, sui palcoscenici di questi altri premi, e tra un premio e l’altro, che si svolge la più accesa “campagna elettorale”: tra i red carpet, i discorsi di ringraziamento dei vincitori e le reazioni degli sconfitti, e poi le interviste alla stampa di settore, le ospitate ai talk show, le copertine delle riviste di moda (per le attrici, soprattutto). Ancora: le proiezioni speciali del film, gli eventi di rappresentanza, la cartellonistica, la pubblicità di ogni tipo, online e offline, e molto altro, quasi come una campagna elettorale politica. I nomi dei membri dell’Academy sono tecnicamente segreti (ma molti sono noti, per varie ragioni: per esempio, di solito chi vince un Oscar diventa membro, e spesso accade anche a molti nominati) e ci sono diverse regole da non infrangere (che però spesso sembrano fatte per essere più o meno facilmente aggirate): fare campagna per gli Oscar costa, e molto, ed è qualcosa a cui gli studios decidono di riservare una parte consistente del proprio budget, una volta scelto su quale cavallo puntare.
La nomination di Andrea Riseborough è arrivata come una totale sorpresa, perché il film di cui è protagonista, To Leslie, è un lavoro ultra indipendente, a basso budget, che nonostante sia stato presentato oltre un anno fa al Sundance non ha vinto nessun grosso premio ai festival internazionali, che all’uscita in sala ha incassato appena 27 mila dollari, e che nei cosiddetti premi “precursori” non era mai apparso, in nessuna nomination. Gli osservatori più attenti, soprattutto quelli molto attivi sui social media, lo conoscevano soprattutto perché, verso la fine di gennaio, improvvisamente tutti gli attori più celebrati di Hollywood sembravano parlarne per elogiare la straordinaria performance di Andrea Riseborough, che nel film interpreta una donna di mezza età, dipendente dall’alcol, che ha sperperato tutti i soldi vinti alla lotteria, e insegue faticosamente l’occasione di un’esistenza migliore. «Un piccolo film con un grande cuore» si leggeva di continuo nei tweet delle celebrity (gente come Gwyneth Paltrow, Edward Norton, Jane Fonda, Kate Winslet, Cate Blanchett, e la lista potrebbe continuare per righe e righe), al punto che To Leslie si era già quasi trasformato in meme. In realtà si trattava degli effetti pianificati di una strategia vincente: indagando, dopo la sorprendente nomination di Riseborough, testate di settore come “Variety” hanno scoperto che la moglie del regista di To Leslie, Mary McCormack, attrice famosa soprattutto per le serie tv West Wing e In Plain Sight, aveva mandato mail a tappeto a tutti i suoi amici attori, chiedendo loro di guardare il film del marito e, se l’avessero apprezzato, di parlarne sui social network, soprattutto nella cruciale ultima settimana di votazioni per le nomination. Se per la vittoria finale votano tutti i membri dell’Academy, solo gli appartenenti alle singole categorie professionali designano le cinquine delle nomination, e così la “campagna alternativa” di To Leslie (pare autofinanziata dalla stessa Riseborough) si è concentrata sull’unico elettorato che contava: gli altri attori, appunto. E, di contro, molti colleghi sono stati probabilmente felici di sostenere Riseborough: perché la sua performance è in effetti ottima (e di quelle molto gradite all’Academy, tra mimesi, dramma e “de-glam”, cioè l’“imbruttimento” di un’interprete convenzionalmente bellissima), perché Riseborough ha fama di essere una grande lavoratrice completamente dedita al suo lavoro e ha alle spalle un curriculum solidissimo e spesso coraggioso, perché il film è un lavoro indipendente in contrapposizione all’onnipresenza e onnipotenza sempre più asfissiante non solo degli studios ma anche dei grossi franchise, e così via. L’ottima prova d’attrice di Riseborough unita alla convinzione di partecipare a una “campagna dal basso”, una sorta di battaglia di Davide contro Golia, piccoli indie vs grandi major, ha sicuramente contribuito a proiettare l’attrice verso l’agognata nomination.
Ed è certamente così: difficile accusare Riseborough e il suo team di avere “imbrogliato”, quando hanno semplicemente applicato una versione meno dispendiosa e più furba delle stesse tattiche che gli studios utilizzano da anni per portare agli Oscar i titoli su cui scelgono di investire. C’è però un rovescio della medaglia, che non è passato inosservato, anzi: c’erano almeno due attrici afroamericane la cui nomination era data quasi per certa, Viola Davis per The Woman King e Danielle Deadwyler per Till. Il punto da considerare, in questo caso, non è la performance o la qualità dei film in questione, ma – come dicevamo all’inizio – chi e perché resta fuori dal quadro: a oggi, solo una donna nera, in tutta la storia degli Oscar, ha vinto il premio come migliore attrice protagonista, e cioè Halle Berry per Monster’s Ball, più di vent’anni fa, nel 2002 (peraltro, Berry non ha poi avuto una carriera particolarmente sfavillante, né la sua vittoria ha aperto la porta a molti premi per altri attori neri: la conversazione che si svolge attorno agli Oscar in molti casi è importante quanto gli Oscar stessi, e negli Usa post 11 settembre erano altri i dibattiti collettivi che tenevano banco – o forse, ancora una volta, le “regole” del successo si rivelano diverse a seconda del colore della pelle). Arrivare agli Oscar, per le attrici non bianche, è una strada ancora più irta di ostacoli: i ruoli “giusti” disponibili sono molti meno, le interpreti hanno ancora meno “star power” delle omologhe bianche, gli studios quasi sempre decidono di non investire su di loro in questo tipo di campagne. Questa volta, però, Viola Davis e Danielle Deadwyler avevano seguito puntigliosamente tutte le regole: The Woman King è un film spettacolare epico-storico, Till un dramma biografico che ricostruisce un’agghiacciante storia vera (il linciaggio di un ragazzino quattordicenne, raccontato dal punto di vista della madre in cerca di giustizia), entrambi appartengono a tipologie di film adorate dall’Academy, e questa volta gli studios che li hanno prodotti si sono fatti carico degli investimenti per una campagna da Oscar, e le attrici hanno partecipato al necessario tour de force di interviste, tappeti rossi e comparsate tv. Solo per poi sentirsi dire che, no, questa volta le “regole” non erano davvero valide, perché una “campagna dal basso” portata avanti da potentissime celebrità (tutte progressiste, tra l’altro, e praticamente tutte bianche) aveva deciso di sovvertire il sistema degli studios per promuovere «un piccolo film dal grande cuore».
Quando si parla di campagne elettorali (che siano per gli Oscar o politiche) si dice sempre che è la “narrazione” a contare più di tutto, e nel caso di To Leslie probabilmente entrambe le narrazioni sono valide e veritiere. Ed è proprio questa contraddittorietà a fare del caso Riseborough un’istantanea trasparente di Hollywood, dello star system e degli Oscar, rivelandone insieme la “piccolezza” e gli angoli ciechi, ma anche il potere che qualche volta inconsapevolmente può brandire (ricordate il circolo virtuoso-vizioso di cui si parlava all’inizio: se agli attori non bianchi sta tanto a cuore la vittoria agli Oscar, se sostengono le campagne #OscarsSoWhite, è perché anche da questo dipende la loro presenza, si auspica sempre meno marginalizzata, nell’industria). Nello stesso tempo, come abbiamo già accennato, quest’annata di “best actress” contiene performance totali e impressionanti e che in diversi casi si allontanano dalla “norma” di ciò che ci si aspetta da “un’attrice da Oscar”.
Ana de Armas, con la sua immersione mimetica nell’iconografia di Marilyn Monroe, e la stessa Riseborough, con la drammaticità intensa e il “de-glam” di cui si diceva poco sopra, sono forse quelle che più si avvicinano a modelli noti e già esplorati, pur nell’eccellenza che rappresentano. Michelle Williams, nel ruolo di Mitzi Fabelman, s’ispira a una persona vera ma non celebre (Leah Adler, la madre del regista Steven Spielberg: il film, si sa, è fortemente autobiografico) per dare vita a un personaggio complesso e anticonvenzionale, insieme tenero e tagliente, entusiasmante e irritante, un’interpretazione che poteva facilmente deragliare e che invece l’attrice (cinque volte nominata, fin qui, e ancora mai vittoriosa) governa con una precisione e un calore stupefacenti. E Cate Blanchett e Michelle Yeoh – le favorite, diremmo, se la nomination di Riseborough non ci avesse insegnato a non dare nulla per scontato – sono artefici di due caratteri davvero inediti, per molti versi, tra l’altro, agli antipodi tra loro, proprio come i film di cui sono protagoniste.
Direttrice d’orchestra ricca e influente, acclamata e venerata come un genio, la Lydia Tár di Blanchett è lo studio di una figura portentosa che illustra tutti i lati oscuri del potere, il confine via via più stretto tra il potere e l’abuso, e poi il suo sgretolamento pubblico, in un film dalle geometrie impeccabili e dalla lucidità raggelante. Donna working class, immigrata cinese oltre la mezza età, in rotta con la figlia e (inconsapevolmente) col marito, la Evelyn Quan Wang di Michelle Yeoh si scopre invece l’eroina improbabile in un’avventura folle nel multiverso, che parte dalla meno glamour delle location, l’agenzia delle entrate, in una cavalcata sfrenata, colorata, inventiva, esagerata fino alla ridondanza, tra action, mélo e commedia.
In ognuno di questi cinque casi, le attrici protagoniste possono dirsi serenamente co-autrici del film che interpretano, al pari dei loro registi o sceneggiatori. È nelle loro performance che il film prende davvero vita, si costruisce, semplicemente esiste, e non solo per semplici ragioni narrative (sono tutte prove in cui la presenza fisica nello spazio, i movimenti, il modo di parlare, di interagire fisicamente con l’intorno, fanno la sostanza dell’opera). Se gli Oscar hanno un senso, speriamo sia allora quello di aprire la strada a un diluvio di altri ruoli, e interpretazioni, così. ALICE CUCCHETTI
L’unica persona a vincere ben quattro Oscar per la recitazione – peraltro, tutti da protagonista – è stata Katharine Hepburn, che però si è sempre rifiutata categoricamente di andare a ritirarli (l’unica volta che presenziò a una cerimonia fu, nel 1974, per onorare la memoria del produttore Irving Thalberg). Vi riproponiamo la Lost Highway dedicata alla più anticonformista delle dive (di cui a giugno ricorreranno anche i 20 anni dalla morte), scritta da Emanuela Martini sul n. 26/2018 di Film Tv.
L’indomabile Katharine
Pare che, quando se la vide comparire davanti la prima volta negli studi della RKO, in spolverino oversize, pantaloni larghi e scarpe basse, David O. Selznick abbia sbottato: «Ma noi paghiamo 1.500 dollari la settimana per quella roba lì?». Nel 1932, 1.500 dollari la settimana erano un sacco di soldi, certo non la paga di una venticinquenne esordiente che il regista George Cukor voleva a tutti i costi per la parte della figlia di John Barrymore in Febbre di vivere. «Quella roba lì» si chiamava Katharine Hepburn e due anni dopo avrebbe vinto, per La gloria del mattino di Lowell Sherman, il primo dei suoi quattro Oscar. Quattro Oscar disseminati lungo l’arco di un’intera carriera (tra il 1934 e il 1982), un record mai eguagliato (Streep, Nicholson, Day-Lewis sono a quota tre); e, per di più, quattro Oscar mai ritirati di persona. Perché Miss Hepburn (sempre Miss, anche se una volta si sposò, nel 1928, con un uomo d’affari che la sostenne negli esordi teatrali, e dal quale divorziò nel 1934), come aveva sempre snobbato i dettami glamour della moda (creando così uno stile tutto suo), fu anche altrettanto insofferente al cerimoniale, al perbenismo, al bigottismo hollywoodiano (atteggiamento condiviso dagli uomini che amò, da John Ford, che la diresse nel 1936 in Maria di Scozia, al miliardario-produttore Howard Hughes, all’amore della sua vita, Spencer Tracy, insieme al quale rimase, senza mai sposarsi, dal 1941 alla morte di lui, nel 1967). Ma, al di là del suo eccezionale talento d’attrice, il carisma divistico della Hepburn, eccentrico, insolito, anticonformista, era talmente forte che Hollywood non poté mai snobbarla. Anche se una volta ci provò. Infatti, dopo il primo Oscar e dopo il successo di Piccole donne di Cukor, gli incassi insoddisfacenti dei film successivi (tra i quali un capolavoro come Susanna di Hawks) furono imputati dai produttori alla scontrosa riservatezza dell’attrice, che fu etichettata come “veleno al botteghino” e condannata a ruoli sempre peggiori. Così Katharine, fiera discendente di una famiglia ricca, colta ed emancipata del Connecticut (sua madre era una suffragetta e una sostenitrice della contraccezione, suo padre un urologo assertore della profilassi pubblica), decise di lasciare Hollywood: ricomprò per 75 mila dollari il suo contratto con la RKO e tornò sulla East Coast, al teatro da cui era venuta. E a Broadway s’innamorò della commedia giusta, Scandalo a Filadelfia di Philip Barry, esplosivo gioco a quattro tra un’ereditiera piena di temperamento, il suo ex marito, il futuro consorte (le nozze sono il giorno dopo) e un giornalista in vena romantica. Un tale successo che le major hollywoodiane si misero in fila per comprarne i diritti. Che, guarda caso, erano di Kate, previdentemente acquistati per lei dall’allora fidanzato Howard Hughes. La spuntò la Metro Goldwyn Mayer, a patto che fosse lei la protagonista. Anche il film, diretto nel 1940 dall’amico Cukor, fu un trionfo. E l’attrice non solo poté condurre a Hollywood la vita riservata che le piaceva, ma diventò anche la regina indiscussa della commedia che rifletteva l’aria del tempo, quella in cui esplodeva “la guerra dei sessi”, tra una donna di volta in volta bizzarra, travolgente, indomabile, e un uomo che poteva avere l’indolenza svagata di Cary Grant o la burbera sopportazione di Spencer Tracy. L’incontro con Tracy avvenne nel 1941, sul set di La donna del giorno di George Stevens, e fu subito litigio e amore a prima vista, nella vita come nei film (nove girati insieme, in impeccabile sintonia comica e drammatica). In quegli anni i personaggi di Katharine Hepburn, con il loro impasto di umorismo e romanticismo, di ribellione e accettazione di un partner alla loro altezza (ma non superiore), rappresentarono la donna nuova, consapevole, combattiva seppur cedevole. Se la sua apparenza fisica non corrispondeva ai canoni della bellezza anni 40 (il suo tipo è diventato “moderno” nei 70), il viso mobilissimo era capace di catturare la luce e la sua gestualità nervosa e fluida era inimitabile (talvolta, al limite del “manierismo”, come accade con la Streep o con Diane Keaton). Gesti nervosi, inediti, che insieme alla voce (accento di Bryn Mawr, il college femminile più esclusivo degli States, e velocità supersonica) la rendono perfetta per la commedia litigiosa, per le tante imprevedibili zitelle che ha interpretato negli anni 50 e 60 (su tutte, la metodista imbarcata su La regina d’Africa insieme all’ubriacone Humphrey Bogart nel capolavoro di John Huston). Ma il suo talento fu anche drammatico, talvolta intenso e dolente, come nei due film che le valsero gli ultimi Oscar (Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer e Sul lago dorato di Mark Rydell), spesso feroce, nella parte di matriarche indurite, come in Improvvisamente l’estate scorsa di Joseph L. Mankiewicz e in Il leone d’inverno di Anthony Harvey. Forse Katharine Hepburn non è stata la più grande attrice statunitense di tutti i tempi, come ha decretato nel 1999 l’American Film Insitute, ma certamente è stata unica e all’avanguardia.
EMANUELA MARTINI
Tra le cose positive – almeno per noi fan e spettatori – della stagione dei premi, ci sono le numerose interviste che i candidati e le candidate concedono come parte della propria campagna promozionale. Per le cinque nominate a miglior attrice di quest’anno vi segnaliamo: Cate Blanchett sul “Guardian”, Michelle Yeoh sull’“L.A. Times” (anche in versione podcast), Andrea Riseborough sull’“Hollywood Reporter” (post affair!), Michelle Williams sul “New York Times” e Ana De Armas su “Vanity Fair” (all’interno dell’annuale numero dedicato alle star di Hollywood, che quest’anno comprende anche il suo collega Austin Butler, nominato per Elvis). [in inglese]
Consigli di visione? Al cinema questa settimana escono Klondike, il film selezionato dall’Ucraina per la corsa all’Oscar al miglior film internazionale, diretto da Maryna Er Gorbach, e la rom com italiana Romantiche, diretta e interpretata da Pilar Fogliati. Sul fronte serie tv, arriva oggi su Disney+ la miniserie Fleishman a pezzi, che l’autrice Taffy Brodesser-Akner ha tratto da un suo omonimo romanzo.
Ricordate la “liberazione” di Britney Spears e il movimento #FreeBritney? Un articolo prova a fare il punto sul fenomeno e su quel che è successo dopo.