Singolare, femminile ♀ #184: Come mi guardi tu
Due giovani donne, due lettere, una storia condivisa che intreccia immagini d’archivio di ieri con la creatività di due autrici di oggi. Si intitola Le prime volte il cortometraggio di Giulia Cosentino e Perla Sardella che in queste settimane viene presentato in diversi festival in giro per l’Italia: abbiamo intervistato le registe.
Presentato negli scorsi mesi a Visions du réel e al Bellaria Film Festival, Le prime volte è il cortometraggio firmato a quattro mani dalle giovani registe Giulia Cosentino (assistente alla regia sui set, fra gli altri, di Io capitano di Matteo Garrone e Quell’estate con Irène di Carlo Sironi) e Perla Sardella (in questi mesi è in tour per l’Italia anche il suo ultimo documentario, Portuali, sui lavoratori del porto di Genova). Un lavoro appassionato e intelligente che utilizza materiali d’archivio di home movie del secolo scorso per costruire - tramite voci narranti, missive immaginarie ed elementi grafici che intervengono sulle immagini - la storia, personale e universale insieme, di un legame tra due ragazze che crescono insieme, dal collegio all’età adulta, ed esplorano i propri corpi e il proprio desiderio, scoprono la gioia e il dolore della prima volta che si ama, della prima volta che ci si separa, della prima volta in cui si prende coscienza di chi si è davvero, e di come questo stride con le aspettative della società.
Un’opera breve ma densa di suggestioni e riflessioni sull’identità femminile, sulla definizione di sé e sulla spinta creativa che nasce dalla collaborazione: potete vedere il cortometraggio allo Shorts International Film Festival di Trieste, dal 28 giugno al 5 luglio, e allo Shortout Festival di Villa Litta a Lainate (MI), dal 1° al 5 luglio. Abbiamo incontrato le autrici per parlare di Le prime volte e della loro prima volta in sodalizio artistico.
Le prime volte è un film a due voci e a quattro mani, che parla di collettivo al femminile e nasce da una collaborazione artistica: come avete lavorato, concretamente, insieme?
Giulia Cosentino: Siamo partite da un grande ascolto dell'altra, che forse è la cosa più difficile da fare e che ha comportato anche un lungo tempo di gestazione, perché siamo due autrici diverse, siamo anche due persone diverse nella vita. Quindi questo lavoro sull'ascolto dell'altra e sul rispetto, ma anche sulla curiosità di conoscere i desideri dell'altra autrice nella messa in scena, ha comportato un tempo di gestazione e di confronto, anche per capire come porci individualmente rispetto alla storia e alle nostre protagoniste, Emilia e Caterina. Però penso che il fatto che ci fossero due protagoniste sia stato il punto di partenza: inizialmente ce le siamo spartite, ognuna di noi si è concentrata su una delle due ragazze, per poi superare questo momento. Questa cosa ci ha aiutato anche a prendere delle posizioni rispetto alla nostra narrazione: è un'opera collettiva sia nella gestazione sia nell'intenzione, nel senso che non abbiamo messo in scena le nostre storie personali, ma ci siamo confrontate molto sulle nostre adolescenze, sui nostri desideri, sul come ci ricordiamo alcune cose della nostra iniziazione al cinema, il fatto che filmavamo o non filmavamo da bambine, cosa ci ricordiamo di quell’età. Alla fine non abbiamo raccontato le nostre storie, ma ci siamo concentrate sul raccontarne una diversa, che ha avuto l'esigenza di arrivare al presente attraverso la riappropriazione della piazza e quindi anche il nostro coinvolgimento come corpi nello spazio pubblico.
Perla Sardella: Ci abbiamo messo quattro anni a trovare una media, che non è neanche una media; è più l’idea di far comunicare due stili diversi e due approcci diversi. Siamo partite all'inizio lavorando ognuna da sola, con i suoi strumenti e le sue idee. Poi abbiamo provato a fondere queste due cose che avevamo fatto e abbiamo visto che mancavano dei punti di contatto; quindi poi per oltre tre anni abbiamo cercato dei modi perché non sembrassero due cose appiccicate e ricucite, ma che fossero invece in comunicazione. Devo dire che è stato difficile, però anche interessante, con tutti i problemi del caso.
GC: Per me, a livello esperienziale, è stato davvero un lavoro collettivo: sappiamo cosa vuol dire stare in un'assemblea, stare in ascolto di esigenze diverse. È complicato, certo, dare questo spazio e non prendersi semplicemente la responsabilità di dire “questa cosa la voglio così” perché sto seguendo un istinto, perché ho una visione, ma stare sempre comunque in un tentativo di ascolto dell’altra. Al contempo, però, riconoscendo quando invece è giusto insistere sui tuoi desideri o sulle tue intuizioni. Comporta un ascolto a cui non siamo totalmente abituate come autrici; siamo più avvezze a prendere decisioni, per fare la regista non puoi essere indecisa, devi mettere paletti, etc etc, quindi questa esperienza ci ha fatto capire di più anche del nostro sguardo personale, è un modo di lavorare che ti fa riconoscere cosa vuoi di più, cosa ti piace, cosa hai imparato da quell'altro modo di vedere le cose. Ed è un po’ quello che succede nella storia del film tra le due protagoniste, tra Caterina e Emilia: anche loro si riconoscono come in uno specchio; è un crescere insieme, guardare i desideri dell'altra per imparare a riconoscere il proprio.
A proposito di guardarsi allo specchio: avete attinto a fondi di home movie che avete poi usato come immagini per raccontare la vostra storia, in qualche modo anche specchiandovi dentro una generazione di donne lontana decenni. Come avete scelto le immagini per il corto?
PS: La parte facile è come ci siamo arrivate, ovvero: ci hanno invitate, separatamente in realtà, ovvero come singole autrici, a fare un lavoro con le immagini della Fondazione Museo Storico del Trentino. Il tema era libero e potevamo usare immagini di archivio di alcune famiglie che avevano messo a disposizione le proprie immagini per fare un breve corto da proiettare a un festival. Io e Giulia già ci conoscevamo ed eravamo amiche e quindi ci siamo dette di provare a fare una cosa insieme: siamo partite da una sinossi, o meglio da una linea comune, e senza dirci granché ognuna di noi ha sviluppato un personaggio, cioè Emilia da una parte e Caterina dall’altra, ispirandoci al libro di Violette Leduc Thérèse e Isabelle. Quel che è successo però è che al Museo Storico del Trentino si sono agitati perché avevamo fatto un film su due lesbiche, quindi ci hanno tolto il patrocinio e ci hanno detto che se volevamo continuare a usare le immagini dovevamo chiedere il permesso alle famiglie singolarmente, ma togliendo il logo del museo, e così abbiamo fatto.
GC: Avevamo a disposizione alcuni fondi familiari, ne abbiamo scelti due a cui attingere, e devo dire che è sempre difficile spiegare come le scelgo, anche rispetto ad altri lavori: è più una propensione che ho rispetto ad alcune immagini, che ti parlano o che ti fanno lavorare su un immaginario. È una scelta che segue un istinto. Noi ci siamo concentrate su due fondi familiari in particolare, che seguono la storia di Emilia e quella di Caterina; ci interessava fare un lavoro anche sullo sguardo, quindi lavorare solo su un singolo fondo familiare, e avere perciò una “linea visiva” data dal fatto che c’era un'unica persona a riprendere i film amatoriali, era più utile al nostro discorso, piuttosto che fare un assemblaggio tra fondi diversi. Nel film c’è la storia di Emilia, che corrisponde al fondo Valentini, e la storia di Caterina, che corrisponde al fondo De Abbondi: nel mettere insieme questi due fondi c’è stato un lavoro ricostruzione di quello che “mancava”, perché la nostra storia partiva dalla voglia di ricostruire l'immaginario adolescente di due ragazze che prendono la telecamera e guardano al mondo. Quindi abbiamo avuto l'esigenza di lavorare anche su altre immagini, che abbiamo trovato nell’archivio AAMOD dal fondo di Luciana Castellina, che avevamo visto per caso per altre ricerche e che ci sembrava rispondere all’esigenza di mettere in scena queste ragazzine che che scappano, per dar vita alla terza linea, quella condivisa tra le due voci off.
Non sapevo della vicenda del ritiro del patrocinio e mi sembra veramente e tristemente emblematico: il vostro è un film che parla anche del non poter vivere liberamente la propria vita e il proprio desiderio, di non poter essere visibili, quindi che si tenti di non rendere visibile nemmeno il film è davvero paradossale. Le famiglie, una volta contattate, hanno dato l’ok per il progetto?
GC: L’aspetto più assurdo è che dal Museo ci muovevano l’accusa di non stare rispettando il valore storico di queste immagini, mentre è proprio quello che stiamo facendo: per me l'unico atto politico del riuso delle immagini è ricostruire storie che non sono al centro di quegli home movie, ma questo non vuol dire che non esistano! Si tratta di riportare in vita delle voci mancanti e di riscoprire le nostre.
PS: Le famiglie hanno risposto benissimo, è stata la parte più facile, una si è anche lamentata con il Museo per il modo in cui si sono comportati.
Anche in virtù di quello che mi raccontate, mi viene in mente questa suggestione: il vostro film è costruito sulla complicità, tra voi come autrici, tra le due protagoniste, e anche tra donne di epoche diverse. Vi siete sentite complici delle donne che avete ricostruito? Penso a una delle ultime sequenze, in cui si racconta ironicamente “l’assedio dei maschi”, e c’è l’idea di fare un po’ un fronte comune contro questo “assedio”.
PS: Una domanda che spesso ci fanno è “come immaginate questi vostri personaggi?”, e credo che un po’ si leghi a questo. Credo che “complicità” sia una parola che dobbiamo ancora capire, e sicuramente il fronte comune verso l’assedio dei maschi è stato proprio l’atto politico alla base del lavoro. Credo che complicità sia una parola molto bella per descrivere il modo in cui ci siamo riappropriate delle immagini di queste donne.
GC: Io penso che il punto sia che ci sentiamo parte del gruppo, ognuna con le sue sfaccettature e differenze, ma siamo parte dello stesso gruppo di persone e siamo dalla stessa parte della storia, siamo parte della piazza. Per questo nel film, alla fine, noi torniamo in piazza per una manifestazione: perché ci immaginiamo che Emilia e Caterina potrebbero essere in quella piazza, al di là di qualsiasi verosimiglianza anagrafica. Il punto per noi era dire: siamo un gruppo di persone che hanno riconosciuto sulla propria pelle una subalternità, e in questo senso dobbiamo diventare intersezionali rispetto ad altri argomenti, questo ci rende complici, nel senso di fare fronte interno rispetto a un fronte esterno che è quello dell’”assedio dei maschi”, della società, di chi ci vuole in determinati ruoli. Siamo complici di Emilia e Caterina, sono persone che io sento vicine, anche se non sappiamo che scelte hanno fatto dopo quello che abbiamo raccontato, ma sono curiosa di sentirle e di averle vicine.
La nostra newsletter si chiama Singolare femminile e il vostro è un film plurale e femminile; lo definireste anche femminista?
PS: La parola “femminile” ci piace ma fino a un certo punto; preferiamo sostituirla con “femminista”, e riconoscerci in una posizione politica attiva, quindi sì, sicuramente il nostro film è femminista. Ma lo sarebbe anche se la tematica non fosse femminile, perché anche le modalità con cui l’abbiamo realizzato sono importanti, ci poniamo sempre come istanza di riuscire ad avere una modalità femminista.
GC: È un po’ quello che dicevamo prima sull’ascolto e l’assemblea: in questo caso il film ha una tematica femminista, però comunque nelle nostre vite, come individui, è una cosa su cui ci interroghiamo tantissimo, anche nelle nostre scelte private. Come agiamo nel mondo come lavoratrici, come persone, come amiche, come amanti. È qualcosa che fa parte dei nostri discorsi comuni e quindi ovviamente anche del lavoro. In Le prime volte questo è molto chiaro, perché alla fine mostriamo anche una manifestazione di Non una di meno; in altri film è più complicato gestire questo binomio tra “femminile” e “femminista”. Vedo tanti film che mi sembrano portare avanti un germe o comunque una forma di attivismo, senza però poi magari corrispondere effettivamente a delle modalità femministe o a un posizionamento reale rispetto alla storia, anche autoriale, rispetto al panorama del cinema italiano. Credo che siamo ancora in una fase di costruzione, o di ricostruzione, di questo tipo di cinema; mi pare che oggi ci sia un'apertura rispetto allo sguardo femminile, allo sguardo subalterno e questa cosa comporta sfaccettature diverse, che siano film femministi o non femministi ma fatti da donne, significa creare un nuovo immaginario in cui si posizioneranno anche persone diverse. Credo sia importante che non per forza, in quanto femmina, si debba fare un film femminista, questa è una cosa che difendo. Per esempio, anche fare film mediocri è importante: avere la possibilità di non fare per forza film bellissimi solo perché sono femmina e quindi devo “difendere il mio genere”, perché mi sono presa questo spazietto in mezzo agli uomini e devo fare un film che sia difeso da tutti i festival e da tutti i critici e da tutti i colleghi maschi che ti danno l’approvazione… Voglio poter fare film che non sono eccellenti. È la sindrome della “brava bambina”, che diventa molto limitante, mentre sarebbe importante provare a fare film e magari sbagliare, mentre l’idea di dover fare il film “giusto” ti mette nella posizione, alla fine, di non fare niente.
Un’ultima domanda su un aspetto del film che ho molto amato, l’inserimento di elementi grafici, tratti di colore e scritte, direttamente sulle immagini d’archivio. Un altro modo per colmare la distanza tra le donne protagoniste.
PS: È stata la parte più divertente del film. Io credo, anche riallacciandomi a quanto diceva prima Giulia, che dobbiamo proprio ripensare il modo in cui facciamo i film, riappropriarci di modalità prima ancora che di tematiche, e fare il lavoro grafico su quelle immagini è stata la parte più bella. Io mi sono occupata delle animazioni, poi abbiamo lavorato con una grafica sui testi e sui titoli di testa e di coda, un lavoro molto bello da fare. Per noi Emilia, che occupa la prima parte, era la parte più di “cuore”, è quasi senza pelle, come gli adolescenti, che sentono tutto, sentono tanto. L’animazione ci è servita per evocare il diario di una ragazza, la forma scritta, il modo di fare autocoscienza a quell’età, anche “pasticciando”, ci pareva che potesse aprire dei mondi e delle possibilità di fronte alla realtà dell’archivio. Nella seconda parte non ci sono interventi grafici ma le immagini sono più evocative; si staccano da quello che mostrano per aprirsi a possibilità e pensieri. Quella seconda parte è dedicata a Caterina, che ora è più matura, quindi i suoi pensieri sono più adulti.
GC: Anche a livello di temporalità c’è una distanza, la seconda parte è meno immediata, mentre la prima parte di Emilia fa passare l’immediatezza del presente, scrivendo proprio sulla pellicola, facendo emergere dei colori, per stare nelle cose che ti senti addosso. Abbiamo lavorato anche sul suono proprio per dare l’idea di una temporalità diversa senza metterla in campo con delle date. ILARIA FEOLE
È uscito a marzo e continua a girare per le sale d’Italia Portuali, il documentario firmato da una delle due autrici di Le prime volte, Perla Sardella: le prossime date per vederlo sono il 20/6 a Bologna, il 30/6 a Roma, il 19/7 a Genova e il 22/7 a Firenze (tutte le info su OpenDDB). Qui vi riproponiamo la recensione del film, pubblicata su Film Tv n. 8/2025.
Portuali
Prendere la parola. Così s’intitola il secondo film di Perla Sardella. Una rivendicazione, la riaffermazione della legittimità di un diritto. Come quello del gruppo di giovani donne straniere al centro di quel lavoro d’imparare l’italiano. La “liberazione” di una connessa con quella delle altre. Unirsi per trovare il proprio posto e la propria voce all’interno della comunità. Come cerca di fare Mario Lorenzini attraverso le sue immagini, sulle quali la regista ha lavorato per realizzare Le grand viveur : filmare la comunità per farsi accettare. Cinema diretto da una parte, d’archivio dall’altra. Due modi per raccontare, per lavorare sul reale e nel reale, che si mescolano nel suo nuovo documentario, Portuali. Al centro, ancora una volta, qualcuno che vuol farsi sentire: un collettivo di lavoratori del porto di Genova decisi a ostacolare l’attracco di navi che trasportano armamenti ed esplosivi. Una battaglia da combattere tenendo a mente l’agenda sindacale (perché, Wiseman insegna, il fuoco sono gli individui nell’ingranaggio delle istituzioni). I senza nome raccontati come protagonisti (à la Ken Loach): sempre al plurale, non c’è mai un’unica voce/parola/persona. C’è necessità - obbligo - di dialogo, a oltranza, con chi ha combattuto prima e con chi sta combattendo altrove. Lotta-di-classe, parole legate come se fossero una sola. Nessuna nostalgia per i tempi andati: il passato, in forma di archivio, è da riavvolgere - letteralmente - reinvestendolo sul presente per permettere all’oggi di andare avanti, nella stessa direzione in cui incede il corteo sul quale si chiude il film. MATTEO MARELLI
Sono stati consegnati lo scorso 16 giugno i Nastri d’argento 2025: tra i premiati, entrambe le sorelle Comencini, Cristina con un premio alla carriera e Francesca con ben 5 Nastri per il suo ultimo Il tempo che ci vuole. Migliore regista esordiente Greta Scarano per La vita da grandi.
Per noi sarà sempre La fantastica signora Maisel, ma la carriera di Rachel Brosnahan è in piena ascesa e tra poco la vedremo in sala nei panni di Lois Lane nel nuovo Superman. Per “Interview Magazine” l’attrice è stata intervistata dalla collega Amanda Seyfried in un dialogo ironico e a cuore aperto. [in inglese]
Tra i titoli a tema queer approdati in streaming in occasione del mese del Pride vi segnaliamo Sally - La prima astronauta (su Disney+) di Cristina Costantini, documentario sulla pioniera Sally Ride, prima donna americana a viaggiare nello spazio costretta a nascondere per decenni il suo orientamento sessuale e la sua compagna di vita.