La seconda stagione di The Last of Us, disponibile su Sky e NOW, è giunta al termine e questo dà la possibilità alla nostra guest Cristina Resa di esplorare i temi sia della serie sia del videogioco da cui è tratto, soffermandosi in particolare sul ruolo fondamentale dei suoi personaggi femminili.
Attenzione: questo articolo contiene spoiler sull'intera seconda stagione di The Last of Us, ma non sul resto degli eventi del videogioco The Last of Us: Parte II.
Ci sono storie che ci restano addosso non per quello che raccontano, ma per come le abitiamo. Per come ci fanno sentire, per come ci parlano, per la familiarità che sviluppiamo con i luoghi, ma soprattutto per le relazioni che stabiliamo con i personaggi. The Last of Us, per me, è una di queste storie. Mi riferisco al videogioco, intendendolo come un’opera unica, dato che nella mia testa Parte I e Parte II formano un nucleo compatto, nonostante siano due capitoli separati, usciti a distanza di 7 anni l’uno dall’altro, nel 2013 e nel 2020.
Questo perché il cuore pulsante della saga videoludica di Naughty Dog è la seconda parte, che conferisce all’intera opera la sua forma definitiva, dandoci la possibilità di rileggere il primo gioco con uno sguardo più consapevole e definendo il vero, almeno per quanto mi riguarda, tema di questa storia: non il Cordyceps, infezione fungina che altera il corpo e manipola il comportamento di chi la contrae; non la fine del mondo come lo conosciamo, con la disgregazione delle sue strutture sociali e statali; non la sopravvivenza in un contesto post apocalittico; non l’elaborazione del lutto dopo una tragedia sia collettiva sia personale; nemmeno la vendetta come conseguenza della perdita degli affetti. Non solo, almeno. Tutti questi elementi, pur caratterizzando fortemente la narrazione, costituiscono la struttura portante di un discorso sul ciclo della violenza, che conduce a una riflessione sulla cura, intesa come capacità di prendersi cura delle altre persone, qualcosa di molto diverso dal proteggerle o salvarle, perché non implica un rapporto gerarchico ma paritario. Può sembrare un paradosso, per un racconto estremamente cruento ambientato in un mondo in rovina dove convivono più solitudini e la fiducia negli altri esseri umani è messa a dura prova, ma è così, anche se lo capiamo solo alla fine del viaggio.
The Last of Us è una di queste storie, dicevo, soprattutto per il legame che si instaura con i personaggi femminili, Ellie e Abby. Un rapporto emotivo complesso, spesso spiazzante e respingente. Due protagoniste che ti trascinano nel loro conflitto, ti mettono in una posizione scomoda, non ti somigliano per forza, ma ti interpellano. Ti obbligano a sentire. Si tratta di un tipo di coinvolgimento che va oltre l’identificazione, si costruisce sull’empatia e passa anche dalla rappresentazione. In un mio articolo del 2020 su IGN Italia – che, attenzione, contiene spoiler su eventi della Parte II non ancora mostrati nella serie – riflettevo su quanto fosse significativo, a livello culturale ma anche commerciale, che un videogioco tripla A, ovvero una produzione ad alto budget destinata al pubblico di massa, si allontanasse consapevolmente dal cosiddetto “male gaze”, lo sguardo maschile dominante nel mercato dell’intrattenimento, e che appunto mettesse al centro personaggi appartenenti a categorie marginalizzate, senza farne, però, il “tema” della narrazione. Già nell’ormai lontano 2013, The Last of Us: Parte I si era distinto per l’attenzione nel costruire i propri personaggi femminili, dando loro un ruolo partecipativo ed evitando l’oggettivazione e la sessualizzazione ancora diffusa nell’immaginario videoludico.
Tuttavia, il principale sguardo agente resta maschile. Il protagonista indiscusso del gioco, infatti, è Joel Miller, un uomo profondamente segnato dalla perdita della figlia Sarah e ulteriormente indurito dalla vita in un mondo al collasso, che trova in Ellie Williams, adolescente immune al Cordyceps e ultima speranza per trovare una cura, un nuovo, profondo, legame affettivo, che nel tempo assume per lui la forza e il peso di un rapporto padre-figlia. Influenzato dall’esperienza genitoriale del direttore creativo Neil Druckmann, diventato padre di una bambina durante lo sviluppo del gioco, The Last of Us: Parte I si muove suo malgrado dentro strutture culturali patriarcali: Ellie è ciò che muove Joel, ma resta in parte un espediente narrativo, quello che in altri contesti si definisce “una donna nel frigorifero”, una figura femminile che serve più a far avanzare il percorso dell’eroe che a definire il proprio cammino. Anche la scelta finale di Joel di salvare Ellie da morte certa nell’ospedale di Salt Lake City, uccidendo gran parte dei membri delle Luci – gruppo militarizzato rivoluzionario alla ricerca di una cura contro l’infezione da Cordyceps – e azzerando le possibilità di studiare la sua immunità, si iscrive in una logica di paternalismo protettivo. Certamente si tratta di un gesto d’amore, ma che priva Ellie della possibilità di autodeterminarsi e di decidere per il proprio corpo.
È nel DLC Left Behind, espansione del 2014 che fa luce sul passato di Ellie e introduce esplicitamente il tema della sua omosessualità, che il personaggio comincia ad acquisire profondità, autonomia, voce. Con The Last of Us: Parte II, tuttavia, si assiste a un vero ribaltamento, grazie anche all’ingresso nella writers’ room della sceneggiatrice Halley Gross e alla volontà esplicita di allargare la rappresentazione. È forse questa la scelta più radicale, sempre nell’ambito di un gioco tripla A: Joel, il protagonista del primo capitolo, esce di scena immediatamente, in modo dolorosissimo, struggente e violentissimo. Un evento traumatico sia per noi che giochiamo, sia all’interno della narrazione, che determina un cambiamento di sguardo repentino e da cui non si torna più indietro: da quel momento siamo Ellie, disperata, distrutta, furiosa. Da quel momento vediamo le cose come le vede Ellie e The Last of Us non è più la storia di un padre, ma quella di una figlia. O, meglio, due. Perché a uccidere Joel è Abby, la cui traiettoria è anch’essa segnata dal trauma della perdita della figura paterna, ovvero il chirurgo che stava per operare Ellie a Salt Lake City eliminato da Joel.
Si potrebbe obiettare che le due donne siano comunque mosse dalle azioni dei padri, che siano in qualche modo il risultato delle loro scelte, ed è vero: The Last of Us: Parte II è legato a doppio filo alla narrazione del primo capitolo, che ne diventa la premessa, in una sorta di dialogo che ne mette in discussione le scelte, ma non le annulla, proprio come quando nella vita adulta dobbiamo fare i conti con le nostre esperienze passate. Ellie e Abby, da questo punto di vista, non sono personaggi edificanti, simboli o modelli. Non sono nemmeno “personaggi forti” nel senso più abusato dell’etichetta, sono due donne nate in un mondo distrutto, che fanno cose anche terribili, per noi ingiustificabili. Sono persone reali, che agiscono, spesso sbagliano, come lo sono tutti i personaggi di The Last of Us, con tutte le contraddizioni e le fragilità che questo comporta. Il loro è un viaggio di emancipazione dalle scelte dei loro padri, dal ricordo che ne conservano e dalla mitizzazione che ne è stata fatta. Ma rappresenta anche il percorso di liberazione dal ciclo di distruzione e violenza in cui sono intrappolate.
Il confronto tra le due non è mai una semplificazione di due opposti, ma uno scontro fisico ed emotivo che riflette traumi subiti e affetti spezzati. Per certi versi, sono personaggi specchio, sia nel modo in cui costruiscono i legami, sia nelle loro reazioni, spesso caratterizzate dalla violenza. Una brutalità che è parte integrante del linguaggio e della realtà in cui si svolge la storia, ma che ha sempre delle conseguenze e che lascia cicatrici. Uno degli aspetti più efficaci di The Last of Us: Parte II è come il peso di queste conseguenze venga percepito direttamente da noi che giochiamo, attraverso le meccaniche di gameplay, la fisicità dei controlli, la vibrazione del joypad, anche a costo di creare una frizione fortissima tra la nostra sensibilità e le azioni che dobbiamo compiere sullo schermo. In alcuni casi, il videogioco viola in maniera volontaria il patto di fiducia che si instaura tra testo (videoludico) e utente, costringendoci a provare rigetto per ciò che compiamo. È un modo brutale di trascinarci nello stesso contesto di Ellie e Abby, di farci sentire il peso delle loro azioni e provare la fatica fisica ed emotiva di un viaggio sfiancante.
L’interattività del linguaggio videoludico si presta particolarmente a creare questo tipo di coinvolgimento, dato che si tratta di un medium a fruizione attiva. Uno dei motivi per cui The Last of Us: Parte II è considerato uno dei titoli più rilevanti degli ultimi anni è proprio la sua capacità di manipolare la grammatica classica delle avventure in terza persona per restituire due prospettive, simili ma opposte, in tutta la loro complessità, emotiva, fisica, psicologica. Non attraverso un espediente rivoluzionario nella storia delle forme di intrattenimento, ma estremamente efficace nelle modalità in cui viene messo in atto. Le dinamiche di gioco contribuiscono di fatto a rendere possibile il meccanismo empatico alla base della narrazione. In qualche modo, in The Last of Us, il videogioco, forma e contenuto sono inseparabili. Non si tratta solo di “giocare” una storia, ma di mettersi costantemente in discussione, di compiere azioni che non vogliamo compiere, di vivere conflitti etici senza possibilità di tirarsi indietro, di abitare prospettive diverse, anche opposte, e sentire il peso di quel passaggio.
La sfida dell’adattamento realizzato da HBO e affidato alla direzione di Neil Druckmann e Craig Mazin – autore della miniserie Chernobyl – è proprio quella di scindere la forma dal contenuto per riplasmarlo in modo da raccontare questa storia con un altro linguaggio, a un pubblico composto da chi la conosce già e da chi, invece, non ha mai compiuto il viaggio. In realtà, è quello che avviene per ogni passaggio tra media, perché ogni adattamento deve necessariamente passare per una trasformazione proprio per preservare il senso della storia. Nel caso di The Last of Us, però, è proprio quel legame intimo con i personaggi, costruito grazie all’interazione, a rappresentare la sua stessa peculiarità e rendere, così, la trasposizione ancora più complessa.
La prima stagione della serie HBO affronta questa sfida con grande consapevolezza, agendo sulla struttura e sui personaggi per preservare, appunto, il senso. È una riscrittura rispettosa, che sceglie di espandere, approfondire, anticipare degli elementi per dare più profondità ai personaggi. Soprattutto, allarga lo sguardo rispetto al videogioco e risolve alcune problematicità nella rappresentazione. Fin dai primi episodi, è chiaro che l’adattamento si muove secondo logiche diverse, rispettando i vincoli e le potenzialità del mezzo, aggiungendo dei flashback che raccontano origine e sviluppo della pandemia e che non servono solo da spiegazione, ma fanno anche da ponte tra la nostra realtà e la finzione. Queste “finestre sul passato” rispondono anche a una necessità narrativa propria del linguaggio televisivo che, a differenza del videogioco – dove si sente l’urgenza di buttarsi nell’azione – richiede di estendere i confini temporali del racconto e di trovare soluzioni strutturali per veicolare informazioni che in un gioco sono affidate alla narrazione ambientale fornita dagli indizi che si trovano durante l’esplorazione. L’esempio più evidente è quello di Bill e Frank: due personaggi ai margini della storia del videogioco, e che nello show diventano il cuore di un episodio struggente, dove l’amore e la cura resistono anche in un mondo che muore e dove viene anticipato tutto senso di The Last of Us.
Ma, soprattutto, la serie sente il bisogno di fare emergere il passato dei personaggi in modo più esplicito, con scelte che non suonino mai come esposizioni didascaliche. È il caso di Tess, interpretata da Anna Torv, contrabbandiera nella Zona di Quarantena di Boston e uno dei primi personaggi femminili chiave che incontriamo. Nel videogioco è la guida nel momento di tutorial ed è una figura pragmatica e risoluta, ma relativamente opaca. Se lì appariva più dura, nella serie, pur con pochissime pennellate, emerge un personaggio maggiormente stratificato, con un passato che si può intuire e una relazione con Joel che ha radici profonde. La serie la addolcisce, forse, ma non la semplifica. Anzi, la pone al centro del racconto, non più come dispositivo di gameplay, ma come figura mentore, fondamentale nello sviluppo dell’arco narrativo di Joel ed Ellie. Nel dare più spessore a Tess, la serie moltiplica i punti di vista femminili rispetto al primo gioco, che come abbiamo detto ne ha uno spiccatamente maschile, e fa di lei un esempio emblematico di come si possa riscrivere senza tradire il materiale di partenza.
Lo stesso vale per Ellie. E la differenza si percepisce anche nel modo in cui Bella Ramsey la interpreta. La sua Ellie, nella prima stagione, è più infantile di quella del gioco doppiata da Ashley Johnson. Ride, gioca, fa smorfie buffe, ma è anche più arrabbiata, più spigolosa. Se, come scrivevo, nel primo gioco era ancora un dispositivo narrativo che serviva a motivare le azioni di Joel, qui appare sin da subito come personaggio a tutto tondo, una co-protagonista, più vicina alla Ellie di Left Behind, ma anche a quella del secondo capitolo. Si tratta di un’operazione interessante, che purtroppo però non dà gli esiti sperati nella seconda stagione, dove Ellie sembra congelata in una rabbia adolescenziale, impulsiva, reattiva, mentre nel gioco la sua rabbia era adulta, cieca, distruttiva. Anche nel modo in cui la serie gestisce le sue relazioni emerge una certa infantilizzazione del personaggio. Nella seconda stagione, Ellie continua a essere definita soprattutto in relazione alle altre persone della sua comunità e, più che agente, appare spettatrice di eventi che la coinvolgono, ma non la trasformano. Intorno a lei gravitano figure adulte che assumono ruoli quasi genitoriali e ne limitano lo spazio di azione
Ellie nel gioco è spezzata, segnata dalle decisioni che Joel ha preso per lei, consumata dal senso di colpa, dalla perdita, dalla rabbia che si fa vendetta. È un personaggio in frizione costante con il mondo. Il nostro coinvolgimento emotivo passa anche attraverso la fatica di compiere certe azioni insieme a lei. Nella serie, quella partecipazione si attenua non solo per il passaggio da una fruizione attiva a una passiva, ma anche perché Ellie appare, per gran parte del tempo, in balia degli eventi. Ne risulta un personaggio meno determinato e indipendente di quanto ci si potrebbe aspettare a questo punto della storia, anche perché il Joel interpretato da Pedro Pascal emerge come una figura paterna più solida e centrale rispetto alla versione del videogioco doppiata da Troy Baker.
È un po’ il rovescio della medaglia: la seconda stagione fa un ottimo lavoro sullo sviluppo di un Joel più umano, più vulnerabile, più padre. Ma ne fa anche il centro della narrazione, in un momento in cui la storia dovrebbe essere non più quella dei padri, ma quella delle figlie. È il suo trauma, la sua incapacità di comunicare, il suo bisogno di redenzione a determinare la direzione. Anche l’introduzione del personaggio di Gail, la psicologa interpretata da Catherine O’Hara, che sulla carta avrebbe potuto aprire prospettive nuove, finisce per rafforzare ulteriormente il focus su Joel. Questo è chiaro nella sesta puntata, Il prezzo, che definisce questa seconda stagione e che, finalmente, dopo una serie di episodi che hanno seguito più o meno la strada del materiale originale, inizia a dialogare davvero con il videogioco: aggiunge tasselli alla storia di Joel, delinea il rapporto problematico con il suo di padre e lo inserisce dentro una catena di violenza patriarcale, sistemica e quotidiana – fisica, ma anche profondamente psicologica – che si autoalimenta e nella quale anche Ellie è intrappolata. Questo excursus espande in modo efficace e interessante un nodo centrale di The Last of Us, cioè la ricerca di un modo per spezzare il ciclo della violenza. Eppure, questa scelta ha un prezzo. Se nel gioco, infatti, il passaggio di prospettiva da Joel a Ellie era netto, radicale, qui è esitante. C’è da chiedersi se questa mia visione sia viziata dall’aver giocato al gioco, dal conoscerne in anticipo gli sviluppi. Resta comunque forte l’impressione che la serie ci porti sempre un po’ più all’esterno. Invece di farci aderire allo sguardo di Ellie, finiamo spesso per osservarla da fuori.
Il tema, qui, è anche quello del tempo e dello spazio. Nel videogioco, entrambi hanno un peso. Il tempo si dilata, per farci percepire la fatica degli atti che stiamo compiendo, mentre gli spazi non forniscono solo un teatro all’azione, ma plasmano chi li abita. Prendiamo Seattle, la città al centro di Parte II. Rappresenta il cuore del viaggio di Ellie, un passaggio fondamentale nella costruzione della sua identità e nel suo percorso di autonomia. È qui che si manifesta quella furia cieca di cui parlavo ed è qui che si consumano eventi che segnano in profondità la fase successiva del racconto. Sempre a Seattle, nel videogioco Ellie prende definitivamente le redini della narrazione a livello di sguardo. Nella serie, invece, la città si riduce quasi solo a un fondale. È un luogo di passaggio, ma non si percepisce. Non si avverte il tempo che vi trascorriamo, né lo spazio in cui ci muoviamo. Questo perché l’adattamento elimina tutta la dimensione iterativa del gameplay. Ellie è coinvolta in pochissimi scontri, sia con gli infetti sia con la milizia WLF, e questo toglie peso alla sue azioni, ma soprattutto al suo sentire rispetto a queste azioni, al loro impatto emotivo. Quando arriva a compiere il gesto tragico di togliere la vita a Mel e Owen, persone care a Abby, appare quasi come un fatto isolato, mentre nel gioco quel momento è l’apice di una spirale di odio e violenza che la porta al punto di rottura.
A differenza della prima stagione, che pur con qualche accelerazione finale riusciva ad allargare lo sguardo, qui il racconto si restringe. La necessità di comprimere i tempi di un videogioco molto lungo (siamo intorno alle 30 ore complessive di cui questa stagione ne ripercorre circa un terzo) si traduce in scene più brevi, in passaggi più rapidi, in transizioni troppo confuse per restituire davvero l’evoluzione emotiva dei personaggi. Tutto accade di colpo, nell’ultimo episodio, senza che il percorso interiore di Ellie emerga fino in fondo. Senza che la storia sia stata veramente quella di Ellie, prima di passare a quella di Abby. Perché, visto il modo in cui si chiude l'ultimo episodio, Convergenza, non credo di fare rivelazioni dicendo che da questo punto in poi la narrazione prenderà un’altra direzione.
Nel gioco, la svolta arriva quando ci costringe ad agire nei panni di Abby, dopo averla odiata per aver assassinato a sangue freddo Joel. È su quel ribaltamento di prospettiva che si innesta il meccanismo di empatia che sta alla base di The Last of Us. La serie, per ora, si è limitata a mostrarci Abby, senza chiederci di metterci nei suoi panni. So che non si imposta un’analisi critica sui “se”, ma personalmente mi aspettavo alcune modifiche all’intreccio originale per darci la possibilità di empatizzare con Abby prima di trasformarla nell’antagonista. La seconda stagione sceglie invece una strada molto canonica: apre mostrandocela assetata di vendetta, quasi a volerci dire fin da subito chi è e da che parte sta. Non so quanto questo faccia un buon servizio a uno dei personaggi più complessi e interessanti di The Last of Us. Si potrebbe obiettare che, al di là di alcune differenze, la sua progressione coincide, per ora, con quella del titolo di Naughty Dog. Ma è proprio questo il punto: nel videogioco, attraverso la fruizione attiva, abbiamo modo di stare nei suoi panni, di provare le sue emozioni. Non so se questo meccanismo possa funzionare nello stesso modo anche in una forma narrativa più distante, più contemplativa come quella della serialità televisiva. Proprio per questo, credo che sarebbe stato coraggioso, e anche necessario, provare ad adattare ancora una volta il contenuto alla forma.
Da questo punto di vista, ho detto più volte che il cambiamento, in una trasposizione, è essenziale. Non credo, per esempio, nella necessità di seguire pedissequamente l’intreccio del materiale di partenza né, tantomeno, di scegliere un cast che ricordi, nelle fattezze, i personaggi originali. Un adattamento, per funzionare davvero, deve dare una seconda vita a quei personaggi: raccontarli in una forma diversa, in una nuova lingua, restituendone il senso ma trasformandoli. Questo non è solo corretto da un punto di vista formale, ma auspicabile per il risultato finale. In questo senso, trovo che Bella Ramsey sia stata una scelta di casting riuscitissima, in particolare nella prima stagione. La sua interpretazione ha arricchito Ellie, le ha dato una fragilità e una rabbia nuove. Questa premessa mi è necessaria per riflettere sulla scelta di Kaitlyn Dever per interpretare Abby.
Si tratta di un’attrice molto talentuosa e che, per il poco che abbiamo visto finora, funziona per presenza scenica e intensità. Tuttavia, c’è da parte mia un po’ di rammarico per aver perso, in questa trasposizione, un elemento che nel gioco era cruciale per la rappresentazione del personaggio. Nel videogioco, Abby ha una fisicità muscolare, non conforme ai modelli estetici dominanti. È doppiata da Laura Bailey, ma il suo corpo è modellato su quello della body-builder Colleen Fotsch. Non si tratta solo di un tratto estetico, ma narrativo: la sua struttura fisica è frutto di allenamento intensivo ed è coerente sia con il suo ruolo di rilievo all’interno dell’organizzazione paramilitare di cui fa parte, sia con il suo carattere. Abby ha trasformato il proprio corpo, e questa trasformazione è anche frutto delle sue esperienze pregresse, della sua rabbia incanalata e della maniera in cui l’ha trasformata in disciplina. È un corpo che sfida le aspettative, che rompe gli stereotipi. È un peccato che nella serie si perda, necessariamente, questa parte importante del modo in cui Abby occupa lo spazio. Non si tratta di una questione di fedeltà visiva, ma di costruzione narrativa, perché quel corpo racconta qualcosa. E in un universo come quello di The Last of Us, dove ogni gesto e ogni segno portano peso, quella sottrazione, se conosci la storia originale, si sente e io la trovo una scelta poco coraggiosa in termini di rappresentazione.
In questa riflessione e confronto tra videogioco e serie tv ho parlato soprattutto di Ellie e Abby, perché sono loro il centro emotivo e narrativo di The Last of Us. Ma non sono le uniche figure femminili a cui la serie dà spazio. Già nella prima stagione, personaggi come Marlene, a capo delle Luci, Maria, che guida la comunità di Jackson, o Kathleen, leader di un gruppo di resistenza a Kansas City che rappresenta un’aggiunta originale della serie, aprono scenari interessanti: si tratta di donne che guidano comunità, prendono decisioni difficili, incarnano versioni diverse di autorità, non sempre positive, ma mai marginali. Figure in cui le protagoniste possono specchiarsi, come nel caso di Kathleen, che in qualche modo prefigura nella prima stagione il tema della vendetta al centro della seconda. A questa costellazione si aggiunge, sia in The Last of Us: Parte II sia nella seconda stagione della serie, Dina.
Amica, compagna e amante di Ellie, è una presenza autonoma, determinata, capace di prendersi spazio. Un esempio significativo è la scelta di farle assumere il ruolo che, nel videogioco, spetta a Tommy, il fratello di Joel, nel momento in cui viene catturato da Abby. Si tratta di un cambiamento rilevante, che la colloca fin da subito al centro dell’azione, forse persino più di quanto accadesse nella versione originale. È lei a incarnare, nel corso del racconto, una forma diversa di maturità. Nonostante abbia un’età vicina a quella di Ellie, rappresenta una controparte più affettiva, più riflessiva, che fa da contrappunto alla furia cieca di Ellie. Anche lei, come ci dice, ha subito una perdita, ma sembra già più consapevole del proprio percorso, come se avesse trovato una direzione che a Ellie ancora manca. Nel gioco, Dina è l’ancora di Ellie, la tiene legata a un’idea di futuro. È la sua “costante”, come direbbe Desmond Hume in un altro universo narrativo, quello di Lost. Nella serie questo aspetto emerge solo in parte, un po’ perché forse non è ancora il momento, un po’ perché anche Dina fa parte di quel gruppo di figure che sembra definire Ellie per sottrazione, rappresentando un modello da seguire, una guida, una figura di riferimento più adulta e più in controllo della sua narrazione. In ogni caso, il personaggio interpretato da Isabela Merced resta importante, e potenzialmente decisivo per la costruzione di un’alternativa al ciclo della violenza.
Tutte queste figure, a modo loro, sfuggono alle categorizzazioni, sono autonome e complesse, mai stereotipate, portatrici di una visione narrativa. Ed è forse qui che la serie poteva – o forse potrebbe ancora, nella prossima stagione – osare di più. Perché la rappresentazione femminile in The Last of Us non riguarda solo la “presenza”, ma diventa una questione di linguaggio. Ellie e Abby, nel videogioco, esprimono loro stesse e quello che provano attraverso il loro corpo, le loro azioni, le loro scelte. Il loro modo di abitare e attraversare lo spazio, di entrare in relazione con esso e con noi è un processo costante di definizione e produzione di senso. E c’è qualcosa che, almeno finora, la serie non riesce a fare: costringerci alla complicità con loro. Il gioco ti fa premere il grilletto. Ti fa piangere mentre uccidi. Ti rende colpevole. È lì che The Last of Us trova il suo centro etico: non nel cosa accade, ma nel chi sei e da che parte stai mentre accade. E nel chi potresti essere. Ed è a questo punto che la seconda stagione, pur restando un adattamento rispettoso, sembra voler compiere un processo di normalizzazione, smussando gli elementi più spigolosi, neutralizzando un po’ le parti che erano più rischiose, più scomode, più “fuori cornice”. Quelle che, forse, più di tutte ci chiedevano di guardare da un’altra prospettiva. Sembra, appunto. In realtà, chi può dirlo: in fondo abbiamo ancora diverso tempo da passare a Seattle. CRISTINA RESA
Nell’ultima puntata della newsletter Senza rossetto, Giulia Perona ha intervistato, a Cannes, la regista Sepideh Farsi, autrice del documentario Put Your Soul on Your Hand and Walk sulla fotografa palestinese Fatma Hassona, uccisa da bombardamenti israeliani poco prima del Festival. Si può leggere qui.
Si svolge a Roma, dal 9 al 15 giugno, la nona edizione di Cinema d’idea – Women’s International Film Festival, dedicato alla regia delle donne. Tra i film in programma, il documentario Moonshadow di Azadeh Bizargiti.
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