Singolare, femminile ♀ #178: Utopie ribelli
Intervista doppia in questo numero della newsletter: la nostra Giulia Bona chiacchiera prima con la regista Giulia Grandinetti, di cui è da poco approdato su MUBI il bel cortometraggio Majonezë; a seguire, dialoga con Daniela Persico, direttrice del Bellaria Film Festival, che per l’edizione di quest’anno ha cucinato per noi un programma trasversale a prevalenza femminile.
Ha esordito alla regia nel 2020, la regista e sceneggiatrice Giulia Grandinetti, con il lungometraggio indipendente e autoprodotto Alice and the Land that Wonders, allucinato coming of age che rivisita il racconto di Lewis Carroll. Ha poi continuato il percorso dietro la macchina da presa con altri quattro cortometraggi, Greenwater e i distopici Guinea Pig e Tria - Del sentimento del tradire, fino al suo ultimo Majonezë, ambientato a Ersekë, un paesino dell’Albania, dove si scatena la piccola grande rivoluzione della giovane Elyria, che, costretta dal padre a sposarsi, si ribella al volere della famiglia. Il corto, candidato ai David di Donatello, è disponibile su MUBI e noi ne abbiamo parlato con l’autrice.
Vorrei partire dal luogo in cui si svolge la storia, perché Majonezë è ambientato in un piccolo paese nel sud dell’Albania: come mai questa scelta geografica?
Sono sempre stata affascinata dal tema del viaggio, e da cinque anni ho deciso di essere nomade, di non avere una casa. Questo film è nato da un road trip fatto nel 2019 nei Balcani con il mio ragazzo dell’epoca: siamo partiti d’inverno, con la macchina fotografica, i rullini in tasca e l’idea di trovare un luogo per realizzare un corto, che poi ho però sviluppato da sola. Entrambi avevamo questa fascinazione per i luoghi abbandonati. Io mi definisco un po’ una dark tourist, mi piace esplorare posti che racchiudono ancora qualcosa di antico, primordiale. Eravamo nel sud dell’Albania, e siamo arrivati a Ersekë un po’ per caso, forse mossi dal destino: era il 18 gennaio 2019, c’erano buio, neve e cani abbandonati. Ci siamo fermati a dormire lì e la mattina seguente abbiamo fatto un giro per quel paese, scattando una serie di fotografie. Poi abbiamo proseguito il nostro viaggio, ma dentro di me io avevo già scelto e continuavo a pensare a quel luogo. Circa tre settimane dopo, siamo ritornati a Ersekë: al primo bar che ho trovato sono entrata - c’erano solo uomini, proprio come nel finale di Majonezë - e ho detto a voce alta «buongiorno, c’è qualcuno che parla italiano?». Un ragazzo di nome Rinalt alza la mano. Gli ho chiesto di portarmi dal sindaco della città e dopo dieci minuti ero nel suo ufficio a spiegargli il progetto, che era ancora solo un’idea, ma che da subito ha fatto scattare il desiderio di aprire questa collaborazione con la città di Ersekë.
È stato un lavoro che ha coinvolto la comunità del posto?
Sì, sono tornata ad Ersekë da sola nel giugno 2023 e ho iniziato a coinvolgere alcune persone che erano disponibili e avevano voglia di partecipare. Al di là del fatto che qualcuno parlasse l’italiano e qualcun altro solo l’albanese, siamo riusciti a trovare il modo di capirci e lavorare insieme. Nel cast, a parte la protagonista, Caterina Bagnulo, che è romana, e i due ragazzi serbi (Alessandro Egger è italo-serbo, Sean Cubito è italo-canadese), tutti gli altri sono albanesi autoctoni di Ersekë. Ho fatto una sorta di casting di strada ed è così che ho fatto la scoperta incredibile di Julian Jashar, che interpreta il padre di Elyria: non è un attore professionista, ma un ingegnere meccanico. La cosa più bella è stata che mesi prima di iniziare a girare mi sono dovuta sedere con queste persone e ho dovuto spiegare cos’è un set da zero, perché la prima regola del cinema è che ognuno deve capire qual è il suo ruolo.
Strettamente connessa al luogo c’è la lingua. So che sei affascinata da diversi linguaggi, Tria era in greco, questo corto è in albanese e serbo. Come mai girare in una lingua diversa da quella madre? Come funziona la creazione a livello linguistico?
Per praticità, scrivo sempre in italiano, mi serve per depositare le intenzioni di quello che sto facendo. Io sono molto attenta alle parole, mi piace pensare che la battuta sia sempre un atto poetico, e che ogni parola abbia un suo peso, sia stata scelta per un motivo. Dopo la scrittura segue un lavoro di traduzione che tenga conto del contesto. Ma di base mi sento di scrivere soprattutto attraverso corpi, voci e intenzioni. In ogni progetto, poi, l’approccio alla lingua è diverso, per esempio in Tria ciò che veniva detto era scolpito sulla pietra, era quello, non c’era improvvisazione, mentre Majonezë aveva bisogno di zone di apertura, come nella scena finale del “duello tra i due uomini”, il padre di Elyria e il suo pretendente, uno scontro fra due persone che non si stanno capendo, perché il primo parla albanese, il secondo serbo, e in questo caso avevo bisogno di due attori madrelingua per restituire credibilità e rendere l’incomunicabilità fra di loro. Aggiungo anche una nota personale rispetto a questa fascinazione per il linguaggio: da 11 anni tengo lezioni private di dizione, impostazione vocale e ricerca dell’identità vocale con attori, ma soprattutto con persone che non ambiscono alla recitazione; è un lavoro specifico sulla voce, sulla lingua, sulla fonetica. Per esempio lavoro anche con persone straniere che devono perfezionare l’italiano. Negli anni di lavoro con le lingue e le pronunce mi sono tanto sensibilizzata, e questo mi accompagna nella ricerca, perché non è detto che per un film la lingua italiana - che è così scandita, così dritta, così esterna - funzioni. Alla fine una lingua è anche semplicemente un suono, è la conseguenza vibrante di una parte del nostro corpo e mi affascina chiedermi che tipo di zone fisiche e sonore posso mettere in gioco utilizzando un’altra lingua.
Durante la scorsa intervista, in occasione di Tria (su Film Tv n. 30/2023), mi hai detto che per ogni film ti interroghi sul mezzo migliore per girarlo. Come mai qui hai scelto il bianco e nero, con alcune scene in cui compare il colore oro?
Il motivo è che questo è un corto in cui ci sono costantemente forze opposte che si confrontano: il maschile e il femminile, la lingua albanese e quella serba, la fotografia statica e l’immagine in movimento. Ragionando sul concetto di opposto, ho ricreato un film dicotomico. Una dicotomia dinamica, tanto che persino il bianco e nero si unificano poi a un certo punto come opposti rispetto all’ingresso del colore. Ma non un colore qualsiasi. L’oro. Ho cercato di visualizzare quale potesse essere il colore della rivoluzione, perché questo film parla di un atto rivoluzionario. Il rosso lo associo a una rivoluzione violenta, di sangue, e non volevo proporre qualcosa che andasse in quella direzione, ma accostarmi piuttosto a un concetto di rivoluzione santificata, una riflessione sulla figura del martire, ricercando qualcosa di luminoso, e così sono arrivata all’oro. Che poi non è un colore, ma un materiale. Anch’esso composto di luce e ombra. Immagino la fotografia e la sua stasi come un trauma che ci paralizza. E l’oro interviene come un atto di consapevolezza che squarcia quel trauma: un movimento di un materiale caldo, opposto a quella freddezza statica. Perché la rivoluzione, per me, è azione. E in questo il cinema rappresenta la possibilità di un grande atto di potere e cambiamento.
Mi piace che nei tuoi lavori ci sia un filo rosso che parla di ribellione al femminile, c’è sempre un tentativo di evasione da ruoli asfissianti e codificati: ci provava la protagonista di Alice and the Land that Wonders, che non vuole adeguarsi alle norme sociali e anzi ne sente tutto il peso, hanno provato a ingannare il destino le sorelle di Tria, e ora Elyria fugge di fronte a un matrimonio forzato...
Quando scrivo non ragiono mai sulla questione del genere in sé, perché sento un forte legame anche con il maschile. Credo quindi che sia una conseguenza del fatto che io, in quanto essere umano, sono anche una donna, credo che molto di questo arrivi in maniera inconscia. Di base ho sempre scritto film su personaggi disadattati che cercano di costruire il proprio mondo di libertà ed espressione. In ogni mio film c’è unə protagonista che non si sente adeguatə. Questo è il mio leitmotiv e lo è al di là del fatto che i miei protagonisti siano uomini o donne. In Majonezë abbiamo il punto di vista di Elyria, che forse è il contenitore finale di un grande sistema che reagisce, perché lei arriva a un atto di ribellione grazie all’intervento del suo innamorato: è lui che, maschio tossico, incapace di ammettere quello che prova, va a rompere uno schema; lo fa con i modi sbagliati, certo, ma è lui che offre a Elyria una possibilità di fuga. La richiesta finale della maionese da parte della protagonista è un po’ il suo primo atto di ribellione, è come se dicesse per la prima volta “questa cosa è mio diritto averla e la voglio”. Inoltre, nella scena finale, c’è un capovolgimento dei generi: è infatti una donna che, senza alcun motivo, nega la maionese alla protagonista, che viene invece sostenuta dai tre uomini seduti al bar; Elyria ne ha abbandonati tre che la volevano controllare e adesso ne incontra tre che decidono di mettersi dalla sua parte. Credo che questo sia un modo interessante per compiere una riflessione sulla comunità patriarcale, dove siamo potenzialmente tutti vittime, infatti con il suo urlo Elyria non denuncia solo la sua rabbia, ma è come se liberasse tutta la repressione che hanno subito anche le persone che le stanno intorno. E l’ultima immagine di questa sequenza dove tutti urlano, con l’oro che invade l’inquadratura, è quella del fragile Goran, innamorato di lei, senza i tatuaggi, come nell’atto di immaginarlo ripulito dal contesto culturale, nella sua semplice e vera essenza. Io parto sempre da storie sull’essere umano e credo che tutto il tema del femminile nei miei film arrivi perché conferma che questo è veramente un argomento attuale, che ci riguarda tutti. Non è solo una presa di posizione. Da un po’ sto anche compiendo uno spostamento di indagine sul maschile - i miei prossimi due progetti hanno dei protagonisti maschili -, un cambiamento di prospettiva per me necessario per continuare a indagare anche il femminile. Credo che la prossima rivoluzione la debbano fare gli uomini, riunendosi, parlando e capendo cosa sta succedendo.
Un altro tema ricorrente è quello della famiglia, il luogo del tradimento in Tria, una piccolo nucleo a cui ribellarsi in Majonezë…
La cosa più interessante è che la famiglia è la prima comunità in cui dobbiamo imparare a convivere e per me le famiglie sono sempre dei luoghi potenzialmente distopici o utopici. Dentro la casa si ricreano regole, equilibri, a volte ci si abitua ad assurde follie o si vivono delle cose talmente stupende che poi il mondo fuori risulta deludente. È un tema che mi interessa molto, infatti il lungometraggio che sto scrivendo è calato in una storia familiare. Inoltre, il progetto di Majonezë, Tria e Guinea Pig è una trilogia, sono opere a sé, ma si collegano. Immaginando un triangolo, ho posizionato su ogni vertice una delle tre dimensioni che per me compongono l’identità dell’essere umano: la famiglia, la società, la relazione amorosa. La famiglia è l’origine, la società è il luogo dove viviamo costantemente, la relazione amorosa è la scelta che compiamo per il futuro, per costruire un nuovo nucleo familiare. I tre film sono quindi collegati a due a due: la famiglia è il punto di congiunzione tra Tria e Majonezë, la società collega Tria e Guinea Pig, la relazione amorosa Majonezë e Guinea Pig.
Majonezë è candidato ai David, lo hai presentato a diversi festival, è stato distribuito su MUBI: quale può essere la vita di un cortometraggio in Italia?
Io seguo tanto i miei film. La vita del film non è solo dire “l’ho fatto, adesso vai”. Io lo accompagno per due motivi: da una parte è un modo per costruirmi un pubblico nel tempo, dall’altra mi piace molto partecipare ai festival, perché, oltre ad assistere alle varie reazioni in proiezione dei miei film, posso vedere i lavori degli altri, interrogarmi, capire quanto il mio cinema è in contatto con altre tematiche. È un modo per vivere dentro al cinema. In questo i festival sanno dare molto spazio ai cortometraggi, hanno fondato in qualche modo una comunità nomade: persone che si spostano e si ritrovano in luoghi di passaggio con la stessa passione in comune. La piattaforma, invece, mi piace come formula di distribuzione, ma sempre dopo che il film ha già avuto la possibilità di uscire in sala. Credo inoltre che la differenza sulla fruizione dell’opera la faccia la sensibilità cinematografica di chi guarda il film: la piattaforma si può sfruttare bene se a casa si ricreano il più possibile le condizioni del cinema. Inoltre, lo streaming può essere una risorsa utile per chi vive in città senza cinema o senza festival, e per le persone che in sala non ci possono andare per questioni di salute. Vedo questa distribuzione come un’occasione capillare per raggiungere tante persone. Rispetto al formato cortometraggio, sento quest’anno un fermento diverso: forse si sta capendo sempre di più di quanto i corti presentano a volte opere più libere e folli. Quanto in quella durata breve sia in realtà possibile sprigionare qualcosa di potente e toccante: un’esperienza valida e intima, semplicemente diversa da quella del lungometraggio. GIULIA BONA
(foto courtesy of Giulia Grandinetti)
Parte oggi e dura fino all’11 maggio la 43ª edizione del Bellaria Film Festival, che la direttrice Daniela Persico ha voluto immaginare come una «piccola utopia»: la maggioranza dei film sono diretti da registe e la retrospettiva Le avventurose è dedicata al cinema delle donne – qualcosa che è considerato ancora “normalità” a generi invertiti. Sul numero in edicola di Film Tv abbiamo intervistato Persico, e qui vi riproponiamo quella chiacchierata (lievemente ampliata), invitandovi ad andare a Bellaria (l’8 maggio alle 19 ci saranno anche le nostre Ilaria Feole e Mariuccia Ciotta per un talk sul futuro della critica cinematografica).
Intervista a Daniela Persico
Partiamo dal passato, cioè dal vostro lavoro di ricerca sulla storia del festival, che ha portato quest’anno alla nascita dell’Archivio per il cinema indipendente italiano e alla retrospettiva Le avventurose, sul cinema delle donne. Come questa prospettiva storica influenza il presente?
Fin da quando ho preso in mano il festival, mi è sembrato evidente che avesse una storia importante, da rileggere oggi, in un momento storico diverso da quello degli anni 80 in cui è stato fondato, per capire cosa ha rappresentato. La retrospettiva Le avventurose è nata da una cosa che mi ha colpito molto, cioè che nelle primissime edizioni c’era una grande presenza femminile. All’inizio pensavo che, trattandosi di una manifestazione indipendente, fosse normale avere più opere dirette da donne, per le quali era più facile autoprodursi piuttosto che trovare gli interlocutori per i loro progetti. Mi è però sembrata evidente un’altra cosa: che gli anni 80 sono stati figli delle lotte dei 70 e di un certo femminismo, cosa che ha probabilmente aperto una scia per tante autrici. Era interessante dunque esplorare un momento storico in cui le donne si sono sentite libere di fare cinema.
Tornando al presente, il concorso Casa rossa è, come lo scorso anno, doppio, con una sezione di film italiani e una di internazionali.
L’idea fin dall’inizio era di sdoppiare lo storico Casa rossa per creare un dialogo con ciт che sta accadendo anche all’estero. Tra i titoli italiani abbiamo Come la notte del filippino Liryc Dela Cruz, che ha prodotto il film in Italia: secondo noi racconta bene il presente del nostro paese, e lo fa attraverso la comunità filippina in Italia. Tra gli internazionali, invece, c’è Paternal Leave, che è realizzato dalla tedesca Alissa Jung, ma guarda alla zona della riviera romagnola, la stessa dove si svolge il Bellaria Film Festival. Ci piaceva l’idea di questo scambio tra le due sezioni, credo rappresenti bene il concorso.
La sezione Gabbiano, invece, è per opere che sperimentano: quali sono le forme, le tendenze che emergono nei film qui ospitati?
Siamo molto fieri, come ogni anno, del concorso Gabbiano, che rappresenta ciò che ha storicamente caratterizzato Bellaria, cioè l’indipendenza di autori che fanno in maniera libera, anarchica il proprio cinema. Quest’anno abbiamo film che sono un po’ uno specchio di nuovi linguaggi: Così com’è di Antonello Scarpelli gioca con autobiografia e finzione, La montagna magica di Micol Roubini arriva dalle sperimentazioni dell’arte contemporanea, mentre Nella colonia penale è un documentario sociale. Attorno a questi tre lunghi c’è una selezione di corti altrettanto variegata, dal film d’archivio Le prime volte di Perla Sardella e Giulia Cosentino alla riscrittura di un libro di Susan Sontag in L’ambasciatore, la danzatrice e il vulcano di Maria Giovanna Cicciari.
E a proposito di un cinema che sta al confine, è significativo anche il premio a Vermiglio di Maura Delpero.
Proprio per questa idea di studio di un archivio, da questa possibilità di guardare al passato per riflettere il presente, ci sembrava l’anno adatto per aprire questo discorso dedicato ad alcune autrici del cinema italiano, visto il bel caso di Vermiglio, che secondo me dice tante cose sul nostro cinema: è un film fatto da una nuova società di produzione (Cinedora, ndr) che ha davvero osato ed è riuscita pienamente a portare a termine un film che abbia dei criteri e dei valori da cinema d’autore europeo; è diretto da Maura Delpero, che è una regista che per anni si è formata nel documentario; infine è un film che ci parla di un momento storico cruciale in cui ancora una volta le donne sono state importanti e trovo questo film veramente cruciale nell’affrontare la condizione femminile.
C’è poi un panel - tutto al femminile - sulla critica, in cui firme storiche, come le nostre Mariuccia Ciotta e Ilaria Feole, dialogano con chi si occupa delle nuove forme di critica che vivono su Instagram (Giulia Quintabà, @julietvampire) o su Letterboxd (Emma Pesa, @letterboxd_fuoricontesto). Rivolgo anche a te la domanda-titolo del talk: quale futuro per la critica cinematografica?
Sono tempi secondo me veramente difficili per la critica cinematografica e anche per questo abbiamo pensato di organizzare un panel in cui interrogarci sul tema, perché ci sono sempre meno spazi dove la critica si può esercitare. È utile quindi parlare insieme di come si sta trasformando, di quali spazi sta occupando, ma anche dei punti di confronto che ha perso.
Dunque anche nuovi modi di fare critica possono avere un loro peso?
È un tema complicato, diciamo che era interessante, come linea editoriale, mettere a confronto due generazioni diverse. A me non piace piangere sul passato, ma osservo come i giovani esprimono le proprie idee o chi seguono per andare a vedere un film. Mi interrogo su cosa sta succedendo, e sul fatto che ormai esistono mondi che non si parlano più. Forse serve che la critica tradizionale, come sempre, sappia un po’ mettersi in questione, e che dall’altra parte queste nuove forme - spesso etichettate come “influencer” ma non sono solo questo - provino ad acquisire qualcosa in più... Io non le demonizzo, ma il rischio che vedo è che si tratti solo di strumenti del commercio e che siano poi triturabili come tali. Quindi spero che questa, come tante altre, possa essere l’occasione per parlarne insieme. GIULIA BONA
Comincia martedì prossimo il Festival di Cannes, e tra le vicende emblematiche di questa edizione c’è quella di Fatima Hassouna, fotografa palestinese protagonista del documentario Put Your Soul on Your Hand and Walk di Sepideh Farsi, selezionato nella sezione ACID. Hassouna è stata uccisa a Gaza, insieme a tutta la sua famiglia, dall’esercito israeliano, subito dopo aver scoperto che il film sarebbe stato in Croisette. Sul “Corriere della Sera”, Greta Privitera ha intervistato la regista Farsi, dopo l’accaduto.
Sono stati assegnati i Premi Pulitzer 2025, e quello più ambito è andato alle giornaliste Kavitha Surana, Lizzie Presser, Cassandra Jaramillo e Stacy Kranitz per un’inchiesta di ProPublica che racconta come in alcuni stati Usa le restrittive leggi anti aborto abbiano causato la morte di alcune donne. Segnaliamo anche la prima vittoria per un graphic novel nella categorie “regolari”, nello specifico quella dell’autobiografia: si tratta di Feeding Ghosts di Tessa Hulls.
Sulla piattaforma OpenDDB è disponibile il documentario The Matchmaker di Benedetta Argentieri, presentato tre anni fa alla Mostra del cinema di Venezia: racconta, con un’intervista esclusiva, la jihadista Tooba Gondal, esplorando la condizione delle donne nello stato islamico.