In sala in questi giorni, The Last Showgirl di Gia Coppola regala a Pamela Anderson un ruolo in cui brillare, quello di una ballerina di varietà male in arnese: ne approfittiamo per un piccolo percorso nella rappresentazione delle dive over 50, tra ieri e oggi.
«Le grandi stelle non hanno età» diceva Norma Desmond in Viale del tramonto; ma sappiamo tutti che nello showbusiness, ieri come oggi, il prezzo da pagare per essere davvero "senza età" è assai alto, e prevede molto probabilmente di sparire dalle scene o di mantenersi eternamente giovane tramite chirurgia plastica. La vecchiaia femminile è il vero mostro di questa stagione cinematografica, come The Substance (vedi newsletter n. 154) ha smaccatamente dimostrato: il mondo dello spettacolo non vuol vedere (e non vuol mostrare) le donne sfiorire, non ci sono ruoli sulla ribalta, da vere protagoniste, per le donne over 50 in un'industria modellata sul male gaze (vedi newletter n. 92); ma anche chi si ritocca, infiltra, tira e sutura per fermare il tempo viene stigmatizzata per la sua apparenza fasulla. Il risultato è che le "vecchie" star, secondo queste impervie regole, dovrebbero tutte stare rinchiuse (lontane dalla vista, come un rimosso del nostro immaginario) nello sgabuzzino segreto dietro il bagno, come accade alla povera Elisabeth Sparkle/Demi Moore in The Substance, appunto. In questi giorni in sala c'è un altro film, nuovamente con una donna dietro la macchina da presa, che racconta con piglio assai più realistico una storia molto simile: The Last Showgirl di Gia Coppola è la storia di Shelly, ballerina di un varietà burlesque di Las Vegas che negli anni 80 era uno spettacolo alla moda e scintillante, e che nel corso dei 38 anni di repliche ha perso smalto e rilevanza, di pari passo con la perdita di splendore di Shelly, che dal proscenio è finita relegata nelle retrovie. Proprio come Elisabeth Sparkle, anche Shelly ha dato tutta se stessa a quel mondo di lustrini e vanagloria, finendo per esserne masticata e sputata come una gomma vecchia, e senza benservito: lo spettacolo sta per chiudere i battenti da una settimana all’altra, lei ha passato i 50 da un pezzo e non c'è audizione in città in cui cerchino qualcuno della sua età. Dipinto nei toni crepuscolari e pastosi di una regia debitrice di quella di zia Sofia Coppola (con il microcosmo al femminile del varietà, popolato di danzatrici di ogni età e ogni etnia, in qualche modo simile ai mondi racchiusi e a tinte pastello di Il giardino delle vergini suicide o Lost in Translation, vedi newsletter n. 106), The Last Showgirl è un ritratto intimo e fragile, delicato e slabbrato come le vecchie ali di stoffa traslucida che Shelly indossa ogni sera sul palcoscenico, e che inesorabilmente finiscono per strapparsi. Gia Coppola immortala il mondo piccolissimo e soffocante della sua protagonista, fatto di strass e lacca per capelli, di rimpianti amarissimi e sorrisi posticci, e infiltrato da una nostalgia annichilente per tutto ciò che non è stato: l'amore che ha allontanato, la figlia che ha perduto, le occasioni che non sono mai arrivate e la fama che è rimasta una fatamorgana baluginante all'orizzonte.
A interpretare Shelly è una straordinaria Pamela Anderson nel ruolo di una vita: il corpo scolpito e chirurgicamente perfezionato, il volto senza trucco una volta scesa dal palco, i segni del tempo su un volto che non avevamo mai conosciuto così espressivo e struggente, l'attrice dimostra di avere una gamma da interprete notevole, e porta sulle spalle minute un film fatto di languore e lustrini, che vive del suo sorriso tristissimo e speranzoso. Per l'ex diva di Baywatch si tratta di una rinascita artistica, ma anche di un progetto che prolunga nella fiction la sua personale lotta contro l'ageismo, ossia la discriminazione applicata in base all’età anagrafica: da qualche anno Pamela ha scelto di non usare più make up nelle sue apparizioni pubbliche, comparendo sempre al naturale, in un'inversione totale di tendenza rispetto al suo rapporto col proprio corpo nella fase di ascesa della sua carriera, quando fare ricorso alla chirurgia risultava un modo efficace per assicurarsi visibilità. La sua performance in The Last Showgirl vibra di echi autobiografici - una carriera che ha avuto un guinzaglio corto, un'industria che costringe le donne a esporsi e ridefinirsi secondo codici rigidi e vincolanti - e fa scoprire quel che Baywatch o Barb Wire non avevano potuto mettere in luce, ovvero il talento di un'attrice vera. Molti l'hanno paragonata alla prova altrettanto luminosa di Demi Moore in The Substance, anche lei al rilancio dopo anni di ruoli minori e comparsate, anche lei alle prese con una parte che incorpora parecchi elementi autobiografici; e perfino la "sconfitta" agli Oscar, dove è stata battuta da una stella assai più giovane (la pur bravissima Mikey Madison di Anora), è sembrato uno spinoff del film di Coralie Fargeat, come alcuni montaggi online hanno ironicamente sottolineato. Se si parla tanto di questi due film e di queste due performance è, indubbiamente, perché Moore e Anderson sono state le due sex symbol più amate e celebrate degli anni 90, vere e proprie icone, i corpi “definitivi” di quel decennio; ma è anche per il fatto che non siamo abituati, come spettatori, a vedere il cinema mainstream occuparsi di personaggi di donne over 50, troppo spesso relegate al ruolo di comprimarie, di spalle, lasciando fuori dall'occhio di bue, nel buio, tutta una cruciale fetta di rappresentazione della vita femminile (è, in fondo, anche per questo che le protagoniste di questi film lottano per essere ancora famose: perché essere viste equivale a esistere, l’alternativa è il buio dello sgabuzzino, ed è una questione identitaria, prima che di vanità).
Ben vengano allora lavori come The Last Showgirl e The Substance, che rimettono al centro i personaggi fenomenali di Demi Moore (62 anni) e Pamela Anderson (57 anni), raccontati dallo sguardo acuto di due registe; anche se è inevitabile notare come questi film siano interamente incentrati proprio sulla narrativa di un invecchiamento vissuto in modo doloroso. Anderson e Moore tornano alla ribalta, sì, ma coi ruoli di donne che hanno perso la luce della ribalta, e che lottano per il proprio posto in uno showbusiness fatuo e maschilista; ci saranno altri grandi ruoli per loro dopo questi? La risposta per noi è già sì, e per quanto riguarda Moore basta girarsi verso il piccolo schermo, dove nel 2024 la diva di The Substance ha avuto personaggi memorabili sia in Landman di Taylor Sheridan sia, soprattutto, nella seconda annata di Feud, Capote vs the Swans, creata da uno degli showrunner che più hanno a cuore la visibilità delle dive sopra gli -anta, ossia Ryan Murphy. Ci sembra però importante che questo filone, quello della "diva sul viale del tramonto", non sia l'unico a dare ancora margine per personaggi femminili sopra i cinquant'anni ben scritti e interessanti: il rischio è di costeggiare un certo compiacimento nell'ammirare la bellezza sfiorita e la lotta (spesso un vero catfight) per la celebrità, e The Last Showgirl, con le sue languide riprese a fior di pelle, con una lunga e umiliante sequenza di audizione fallimentare, dove Shelly mente spudoratamente sulla propria età, sembra di tanto in tanto flirtare con il fascino della decadenza e con la curiosità morbosa per il modo in cui la polvere di stelle si trasforma in cenere.
Quello della stella agonizzante o reclusa lontano dagli occhi del mondo è d’altronde un filone assai nutrito, a partire proprio dal succitato Viale del tramonto, capolavoro di Billy Wilder in cui Norma Desmond è ancora grande, ma «è lo schermo a esser diventato piccolo»: era il 1950, e il film vibra ancora di un'attualità sconvolgente nel raccontare il cinismo e il disinteresse dell'industria nei confronti di una stella che appassisce. Per inciso, ricordiamo che la grande Gloria Swanson aveva solo 50 anni quando interpretò la parte; e aggiungiamo che, nonostante la sua clamorosa carriera nell'epoca del muto, Viale del tramonto è rimasto il titolo per cui è più conosciuta, molto significativamente. E di anni ne aveva, d'altronde, solo 42 la leggendaria Bette Davis sul set di un film coevo di quello di Wilder, Eva contro Eva, uno dei punti di riferimento di The Substance nel suo mettere in scena il rapporto tra un’attrice veterana e un'ambiziosa stellina rampante; a Hollywood si invecchia presto, e solo 12 anni dopo Davis era insieme alla grande Joan Crawford in Che fine ha fatto Baby Jane?, titolo chiave della cosiddetta hagsploitation (hag è un termine dispregiativo traducibile con megera, befana) che vedeva dive sfiorite al centro di horror o thriller psicologici (che da Piano... piano, dolce Carlotta arriva fino a chicche come l'episodio L'ultima diva di Colombo, con Janet Leigh ex star del musical che fa fuori il marito per avere una nuova chance sulle scene). Ryan Murphy - sì, di nuovo lui - ha bene approfondito il tema rimettendo in scena la lavorazione del film di Aldrich e la rivalità tra Davis e Crawford in Feud: Bette and Joan, che ha il pregio di approfondire le dinamiche viziate dell'industria audiovisiva in termini di visibilità del corpo non più giovane delle donne, oltre che di offrire, nel contempo, due ruoli ampi e stratificati ad altrettante dive "over" contemporanee, ossia le superlative Susan Sarandon e Jessica Lange (quest'ultima già interprete, per Murphy, di un'altra diva caduta in disgrazia, la memorabile Elsa Mars di American Horror Story: Freak Show, una sorta di Marlene Dietrich finita a gestire fenomeni da baraccone tra le paludi della Florida).
E molti altri sarebbero i titoli da citare, da Fedora (ancora Billy Wilder) a Veronika Voss di Rainer Werner Fassbinder, fino ad arrivare a un altro film coevo di The Substance e The Last Showgirl, quel Maria di Pablo Larrain (vedi newsletter n. 162) in cui Angelina Jolie (che di anni deve ancora compierne 50, proprio nel 2025) interpreta la divina Callas negli ultimi giorni di esistenza, alle prese con la solitudine e con la perdita della sua sovrannaturale voce. Sbirciare nelle vite delle dive in declino è una tentazione sempiterna del cinema, in costante risposta a un immaginario collettivo che sembra non poter fare a meno di alimentarsi, con un po' di malevola Schadenfreude, della fase discendente di chi ha incarnato gioventù, fama e bellezza: quel capitolo finale in cui anche le divine tornano a essere mortali, come tutti noi.
Al di là dell'attestata rilevanza dei film di Coralie Fargeat e Gia Coppola, continuiamo dunque ad augurarci che per le attrici over 50 ci siano sempre più spazi e personaggi, possibilmente al di fuori della narrativa del viale del tramonto: come ogni minoranza su grande schermo, il rischio è di finire intrappolate nella messa a tema dello spicchio di società che incarnano (come accade per esempio con la rappresentazione della comunità LGBT+), come se un'attrice di 60, 70, 80 o più anni non potesse invece interpretare svariati personaggi che nulla hanno a che vedere con la parabola discendente di gioventù&fama. Una parabola, per inciso, che si può raccontare in molti modi: uno che amiamo, qui a Singolare femminile, è quello della serie Hacks (vedi newsletter n. 139), dove la stand-up comedian di Jean Smart (anni 73) è una donna anziana che al tramonto volta le spalle per guardare avanti, senza rinunciare a un briciolo della sua creatività, della sua visibilità e perfino, perché no?, della sua vita sessuale. Se le dive restano grandi, sono gli schermi che, anziché «diventare piccoli», devono fare spazio per loro. ILARIA FEOLE
Pamela Anderson non l’ha mai legittimata e dice di non aver nemmeno voluto guardarla, ma è indubbio che la miniserie Pam & Tommy (targata Hulu e da noi su Disney+), biopic seriale su Anderson (di cui ricostruisce una figura tutt’altro che negativa e ingenua, anzi: ne rivendica l’intelligenza e la voglia di riscatto) e lo scandalo del sex tape con Tommy Lee, sia stato uno dei fattori che hanno riportato alla ribalta l’attrice negli ultimi anni. Vi riproponiamo la recensione della serie, da Film Tv n. 11/2022.
Pam & Tommy
La vera vicenda alla base di Pam & Tommy è di quelle che umiliano la fantasia degli sceneggiatori: un falegname, vessato e licenziato senza paga da un divo bizzoso, cerca compensazione rubandogli la cassaforte, trovandoci dentro, fra orologi e pistole, l’home movie più famoso di sempre; un sex tape del suddetto divo con la neosposa, ovvero il batterista dei Mötley Crüe Tommy Lee e la star di Baywatch Pamela Anderson. Andò così che la vendetta di un manovale mosso da legittima lotta di classe e vaghe nozioni di buddhismo cambiò per sempre il modo in cui ci relazioniamo alla privacy delle celebrità, in combutta con l’ascesa di quello che, per molti versi, è il vero protagonista della miniserie: internet. Le cui potenzialità erano, tra il 1995 e il 1996, ancora ampiamente da esplorare, e nei suoi momenti migliori Pam & Tommy (in cantiere dal 2018 come progetto di James Franco, che doveva anche interpretare Lee; nel cast rimane, tragicomico ladro perseguitato dal karma, il suo sodale Seth Rogen) è una ricognizione su quella che può essere considerata la stele di Rosetta dello star system odierno; il sex tape degli Anderson-Lee come chiave per decifrare il nostro rapporto morboso con la fama, i rischi della reperibilità immediata e irreversibile dei contenuti online, il sessismo che genera i doppi pesi e le doppie misure con cui, a parità di genitali esposti, si edifica la diversa reputazione di una donna o di un uomo. Tutto questo sta sotto la superficie accattivante di un’operazione di modernariato che ricrea con maniacale precisione il nuovo decennio d’oro della nostalgia audiovisiva, i 90, dal fischio del modem alle protesi di Pam, con slancio filologico che va dall’impressionante prova mimetica di Lily James (da ascoltare in originale) alla ricostruzione fedele (con tanto di partecipazione degli interpreti originali) di sequenze di Barb Wire, cinecomix che stroncò sul nascere la carriera al cinema di Anderson. Un prodotto che, in modo non dissimile dall’altro scandalo sessuale approdato in tv nella stessa stagione, American Crime Story: Impeachment, si schiera dalla parte della vittima (ovvero Pamela, sottoposta allo scrutinio ottuso di un’opinione pubblica mai disposta a perdonare una donna che usa e gode del proprio corpo liberamente); e che pure, in fondo, col suo re-enactment deluxe risponde alla stessa ossessione scopica che portò milioni di persone a consumare il sex tape. A dispetto del buon mestiere del creatore Robert Siegel (che su fama, cinismo e corpi mercificati ha scritto ottimi copioni come The Wrestler e The Founder), la miniserie supera in strillato didascalismo perfino Ryan Murphy, complice la confezione convulsamente pop della regia di Craig Gillespie, che dopo Tonya e Crudelia si conferma incapace di concepire una messa in scena che non sia una playlist di brani celebri; le cose migliorano negli episodi diretti da Lake Bell, lasciando però le ottime prove degli attori a destreggiarsi con una caratterizzazione incerta tra satira urticante e politicamente corretto, tra l’umanizzazione del divo a base di sociologia spiccia e la sua ridicolizzazione (a base di... peni parlanti animatronici: vedere per credere). ILARIA FEOLE
Compie 40 anni il Lovers Film Festival, il più longevo festival LGBT+ d’Europa, al via il 10 aprile (fino al 17) a Torino, diretto da Vladimir Luxuria e fondato da Giovanni Minerba e Ottavio Mai. Karla Sofía Gascón, star di Emilia Pérez, è la madrina; Alan Cumming riceve il Premio Stella della Mole; in programma 70 film da 26 paesi, un omaggio a Gregg Araki, un focus sul cinema queer tedesco e molto altro.
Parte invece l’11 aprile (fino al 13) la 20ª edizione di Immaginaria, International film festival of lesbians and other rebellious women, al Nuovo Sacher di Roma. L’edizione è dedicata a Marina Genovese, militante femminista e figura centrale del movimento lesbico italiano; si apre con la proiezione di Desert Hearts - Cuori nel deserto, cult di Donna Deitch di cui si celebra il quarantesimo anniversario; si prosegue con una maratona di 26 titoli in due giorni, sul filo rosso di Forever Rebel, slogan dell’edizione.
Annunciate le nomination dei nostrani David di Donatello 2025: per la prima volta nella storia del premio, ci sono tre donne candidate per la regia e per il miglior film, ovvero Francesca Comencini per Il tempo che ci vuole, Maura Delpero per Vermiglio e Valeria Golino per L'arte della gioia (serie tv distribuita in sala in due parti che concorre come film, come già accaduto per Esterno notte di Bellocchio).